1 novembre 2019: TUTTI I SANTI
Ap 7,2-4.9-14; Rm 8,28-39; Mt 5,1-12a
Venerare i santi, ma come e perché?
Oggi, festa di tutti i santi: che significa onorare i santi?
Onorare richiede un culto, che può consistere in una particolare venerazione o devozione.
La Chiesa vieta l’adorazione dei santi: solo Dio va adorato. Mi chiedo come frenare la devozione popolare che non si accontenta di una semplice venerazione.
Che certi santi abbiano ancora un certo fascino sul popolo è un dato di fatto, e il popolo, invece di ammirare nel santo la sua ricerca mistica del Bene Assoluto, si limita a sfruttarlo in vista di qualche intervento miracoloso.
Questo già fa capire che il nostro rapporto con i santi è la conseguenza di una concezione limitata o amputata della visione della realtà dell’essere umano. Le grazie che si chiedono ai santi sono particolarmente rivolte alla salute fisica e talora anche psichica, dimenticando così che il santo è tale perché ha scoperto e vissuto l’esperienza spirituale, quella cioè che riguarda lo spirito interiore dell’essere umano.
Sono convinto che, quando la Chiesa canonizza un santo, lo faccia stabilendo come criterio ufficiale l’esercizio eroico di certe virtù, stabilite dalla stessa Chiesa, che riguardano il comportamento esteriore. Come fa ad agire diversamente, se la Chiesa non ha la prova visibile, dimostrabile, verificabile dell’agire di una persona da canonizzare? Dunque, il santo viene giudicato tale dal suo comportamento esteriore.
Le Beatitudini
Il brano del Vangelo di oggi è la famosa pagina delle Beatitudini. Già la parola greca makariòtes, “beatitudine”, ci indica dove scoprire il segreto della santità o nobiltà (termine caro ai mistici) di una persona.
La santità non sta nelle opere esteriori, ma in una realtà umanamente incontrollabile e religiosamente giudicata in relazione a qualcosa di strutturale, come appunto può essere una religione o, per noi cristiani la Chiesa istituzionale. La santità sta nell’incontro interiore dello spirito umano con lo Spirito divino.
Ecco, qui sta la beatitudine, l’essere beato che la Chiesa ha indebitamente esteriorizzato, riconoscendo ufficialmente la santità di una persona dall’esercizio esteriore di alcune virtù, stabilite da lei.
La beatitudine riguarda, dunque, lo spirito, a differenza del piacere che riguarda il corpo o carnalità, e a differenza della felicità che riguarda l’anima o psiche.
Gesù non parla di piaceri o di felicità, ma di beatitudine, e la beatitudine richiama qualcosa di grande. Il termine greco makariòtes richiama makròs, “grande”.
Dunque, si è grandi quando lo spirito dell’essere umano viene a contatto, in dialogo, con lo Spirito divino. Noi, invece, giudichiamo grande tutto ciò che riguarda la corposità di una cosa o la felicità sempre legata a qualcosa di esteriore o di passionale.
“Beati i poveri”
Soffermiamoci ora sulla prima beatitudine: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”.
Specifichiamo subito una cosa. A differenza di Luca che anch’egli parla di beatitudini (sono solo quattro a cui contrappone quattro maledizioni, ma lo fa in modo del tutto radicale, rivolgendosi direttamente ad esempio ai poveri in quanto poveri materialmente), Matteo invece “spiritualizza” le beatitudini. Gesù dice: “Beati i poveri in spirito…”. Dunque, per Gesù beatitudine è la povertà “spirituale”, e non tanto quella materiale.
Ma che significa “povertà spirituale”? Attenzione: Gesù non dice “povertà di spirito”, come se lo spirito fosse assente, ma dice “povertà nello spirito”. È esattamente una cosa diversa.
Qui sta la realtà autentica della beatitudine, che coglie l’essere umano nella sua realtà spirituale. Cristo dice che si è beati quando si entra nel proprio essere, e nel fondo dell’anima si coglie lo Spirito di Dio.
La beatitudine, dunque, riguarda lo spirito, e non l’esteriorità dell’essere umano. Certo, anche a Gesù interessava il mondo dei poveri materialmente, ma ciò che lo preoccupava era la povertà priva di spirito, che è anche dei poveri materiali, ma soprattutto di chi ha e si accontenta di fare del proprio avere una fonte di piaceri e di felicità.
Se avessimo capito subito la beatitudine di Cristo sulla povertà di spirito e nello spirito, ovvero della povertà che è priva dello spirito e della povertà che è ricca dello spirito, avremmo, anche come Chiesa, evitato di prendere strade sbagliate.
Che significa “povertà nello spirito”?
Qui non possiamo non mettere in gioco la Mistica. D’altronde, appena si parla di spirito, non possiamo non richiamare la grande Mistica.
Per la Mistica povertà è rinuncia, distacco, altro che possesso, appropriazione. Lo Spirito santo agisce nel nostro essere purificandoci da ogni eccesso di avere, addirittura ci spoglia di ogni avere che possa entrare in conflitto con la realtà dello Spirito.
Dire “povertà nello spirito” e dire distacco da tutto ciò che frena o blocca lo Spirito è la stessa cosa.
Povertà allora, che è beatitudine, non è tanto una assenza di beni materiali, ma ricchezza spirituale: ci si spoglia liberamente di tutto ciò che lede la nostra libertà interiore.
Essere “poveri nello spirito” significa essere liberi interiormente, per essere poi, nel nostro agire, liberi senza farci condizionare da nessuno.
Se per la Mistica anzitutto, prima di tutto, c’è il distacco che è superiore a qualsiasi virtù, proprio perché la virtù si esercita solo nel distacco dalle cose, possiamo allora capire perché Gesù introduce le Beatitudini con la “povertà nello spirito”.
Non credo che Gesù, parlando di Beatitudini, si fosse rivolto solo ai suoi più stretti discepoli, e non credo che la Mistica sia una cosa da specialisti, e allora rendiamocene conto: usciamo dal cerchio magico dei piaceri e della felicità legati alla esteriorità del nostro essere, e riscopriamo, una buona volta, il tesoro del nostro essere interiore. Qui sta la beatitudine di Cristo. Qui sta la nostra vera felicità che è quel ben-essere, il cui respiro è lo Spirito santo.
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