Omelie 2013 di don Giorgio: Terza Domenica di Avvento

1 dicembre 2013: Terza di Avvento

Is 35,1-10; Rm 11,25-36; Mt 11,2-15

A parte il Messia atteso, due sono i protagonisti dell’Avvento: Giovanni il Battista e la Madre di Gesù, Maria. La Liturgia della Chiesa, in queste domeniche, insiste nel presentarci anzitutto la figura di Giovanni, cugino di Gesù, nella sua qualità di Precursore, ovvero nella sua specifica missione di preparare la venuta del Salvatore. Prima, sulle rive del Giordano, come severo predicatore e battezzatore, per la remissione dei peccati, e poi come fustigatore dei costumi dei potenti.

Ora Giovanni si trova prigioniero nella fortezza di Macheronte, a oriente del Mar Morto. Aveva denunciato l’infedeltà coniugale di Erode Antipa, secondogenito di Erode il Grande, che aveva ereditato dal padre il governo della Galilea e della Perea col titolo di tetrarca, cioè capo di una quarta parte del regno. Costui aveva ripudiato la propria moglie per sposare Erodiade, moglie di Filippo suo fratellastro.

Altri tempi, in cui qualcuno aveva il coraggio di dire le cose in faccia anche ai potenti corrotti e corruttori. Ma oggi sembra che sia disdicevole mettere sotto accusa le malefatte dei nostri politici. Ci mancano personaggi come Giovanni il Battista. Preferiamo tacere per il quieto vivere, anche per opportunismo. La cosa veramente blasfema e criminosa per la Chiesa istituzionale e per certi Movimenti ecclesiali è la loro pacifica convivenza con il marciume del potere. Chi ha orecchi, intenda!

Giovanni il Battista, dunque, si trova in carcere. E anche in carcere il suo pensiero è per il Messia. Invia due discepoli da Gesù per sottoporgli la domanda: Sei proprio tu il Messia? Gesù risponde citando un passo del profeta Isaia: Sì, sono proprio il vero Messia, le mie opere lo dimostrano, e queste opere testimoniano anche qual è la natura della mia missione: ancor prima che giudice, sono colui che annuncia ai poveri il lieto messaggio, la buona novella, il vangelo (tutti sinonimi), e porta con sé la vera liberazione. Qui possiamo trovare già una netta distinzione tra la predicazione di Giovanni e quella di Gesù: sembra che Gesù voglia subito discostarsi dalla visione di Giovanni, il quale aveva presentato alle folle un messia che sarebbe venuto a giudicare, a vagliare il buon grano dalla paglia, come una scure che è posta alla radice degli alberi, perché ogni albero che non dà buon frutto venga tagliato e gettato nel fuoco.

Gesù aveva già annunciato il suo programma messianico, quando, in un giorno di sabato, era entrato, come ogni pio ebreo, nella sinagoga di Nazareth, e, alzatosi in piedi, aveva letto lo stesso passo di Isaia, in cui il profeta in realtà descrive la sua missione di consacrato del Signore, il quale infonde in lui il suo Spirito e lo invia a portare un annuncio di gioia agli ultimi della terra. Gesù, citando quel passo, applica a sé e alla sua missione le stesse parole del profeta.

Dunque, il vero messia ha questa missione: evangelizzare gli ultimi, fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, proclamare la libertà ai deportati, la liberazione ai prigionieri, e, come aggiunge il primo brano, schiudere gli occhi ai ciechi, aprire gli orecchi dei sordi, far saltare gli zoppi come un cervo, far scaturire le acque nel deserto, far scorrere torrenti nella steppa.

Ecco in che cosa consiste la buona o lieta novella: nella salvezza che è gioia, perché è liberazione. Già la parola liberazione ha suscitato nella Chiesa grossi equivoci, contrasti e paure, ed è stata limitata nella sfera dei peccati individuali. Ogniqualvolta la parola liberazione usciva dalla sfera puramente moralistica, allora veniva bloccata. Ancora oggi. Eppure i profeti, già nell’Antico Testamento, e successivamente Cristo, hanno parlato di una liberazione più globale, e nello stesso tempo più radicale: una liberazione dalle cause che producono ogni tipo di schiavitù. È successo che, nella Chiesa, aumentando sempre più l’elenco delle norme da osservare, i credenti si siano sentiti schiavi, vittime delle stesse norme che aumentavano così la possibilità di peccare. Già lo scriveva san Paolo: a creare il peccato è la legge, perché, se non ci fosse la legge da osservare, non ci sarebbe neanche la possibilità di peccare, ovvero di venir meno alla legge. Più leggi, più possibilità di peccare. Non voglio entrare in questa discussione, che, comunque, sarebbe interessante da approfondire, ciò che voglio dire è questo: proviamo a sostituire la parola legge, che è qualcosa di terreno, di funzionale al potere, con la parola grazia, che richiama il mistero stesso di Dio, e forse il nostro modo di vedere questo mondo e di agire sarebbe completamente diverso. Sembra che, da una parte la religione e dall’altra lo stato, non facciano altro che renderci schiavi di leggi assurde e talora disumane. Cristo ha parlato di liberazione, di grazia, di gioia di vivere. Una religione che opprime con precetti e divieti, non può dirsi in linea con il Vangelo, ovvero la buona o lieta novella di Cristo. Uno stato che reprime, restringendo la libertà dei cittadini, non può dirsi democratico: non può parlare di bene comune, di libertà, di giustizia, di progresso sociale.

Vorrei ora soffermarmi su un aspetto particolare della liberazione cristiana: far udire i sordi. Quando si amministra il battesimo, c’è un rito che solitamente passa un po’ in sordina: è il rito dell’”effeta”, che si trova prima delle benedizioni finali. Il celebrante tocca, con il pollice, le orecchie e le labbra del bambino dicendo: «Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode a gloria di Dio Padre. Amen». “Effetà” è una parola aramaica che fa riferimento a quando Gesù a un sordomuto dice: “effetà” che vuol dire “àpriti”. Dunque, si tratta della possibilità di ascoltare la parola di Dio.

«Ascolta, Israele… ». Queste parole sono l’avvio di un testo del capitolo 6 del Deuteronomio, che ancora ai nostri giorni l’ebreo pronunzia quotidianamente e che è chiamato così dalla prima parola ebraica Shema’, cioè «Ascolta!». Da notare l’imperativo: Dio dà un ordine: Ascolta!, come se non bastasse un semplice invito. Forse perché siamo così duri d’orecchio che non vogliamo ascoltare. Perché ci sia un dialogo, occorre che ciascuno sappia ascoltare l’altro. Ma ascoltare va ben oltre il puro e semplice “sentire”: l’ascolto indica adesione, accoglienza amorosa, impegno. È significativo che, anche in italiano, ci sia una assonanza di significato tra ascoltare e obbedire: obbedire, infatti, deriva dal latino “ob” (che significa “davanti”) e “audire” (che significa “prestare ascolto). Questa parentela esiste anche nella lingua greca, ebraica e in arabo. L’obbedienza, quindi, è un ascolto che si fa azione e una azione condotta «stando nella parola» ascoltata, tenendola nel cuore, continuando ad ascoltarla, ritrovandone in ogni momento la freschezza e l’attualità, la saldezza e la sicurezza.

Stando così le cose, comprendiamo bene che il primo peccato, quello del giardino (Gen 3), è davvero una dis-obbedienza, un non-ascolto, perché la parola di Dio tenuta nel cuore è stata scalzata da altre parole, dalle quali ci si è lasciati sedurre: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie…» (Gen 3,17), così dice Dio a Adamo.

Da notare, inoltre, che nel libro dell’Esodo si dice che allo schiavo viene forato l’orecchio (21,6), proprio per ricordare l’obbligo dell’ascolto-obbedienza al suo signore. Nel Salmo 39(40) l’orante per affermare la totale consacrazione a Dio afferma che egli non offrirà sacrifici esteriori ma l’intera esistenza, perché il Signore gli ha scavato» l’orecchio, cioè l’ha fatto suo per sempre: «Sacrifici e offerta tu non gradisci, gli orecchi mi hai aperto (letteralmente “mi hai scavato”)» (v. 7). Il vero ascolto è, quindi, l’amore.

Talora mi chiedo se la cosa più importante sia il dono dell’udito fisico, quando invece dovremmo affinare l’orecchio interiore del cuore. Per gli ebrei cuore è la coscienza, l’intimità interiore. È nel nostro intimo, dentro il nostro essere, che avviene il dialogo più autentico tra noi e il divino. Allora, che significa far udire i sordi? Gesù non pensava anzitutto a compiere miracoli fisici, quanto miracoli interiori. Noi siamo duri d’orecchio nel nostro interno.

Certo, essere sordi fisicamente è una brutta cosa: non possiamo ad esempio ascoltare la musica, ma non è questa la sordità che fa spavento. Noi ascoltiamo tante cose, rumori, parole inutili, e poi non ascoltiamo la voce del silenzio, la voce della natura che ha un suo linguaggio che va oltre il suono delle piante o degli animali. Pensate: otto anni prima della sua morte, Beethoven rimase sordo: nonostante ciò, continuò a comporre, tra cui la celebre nona sinfonia con l’Inno alla gioia.

La grande Teresa d’Avila ha scritto nel suo “Castello interiore” queste parole: «Il modo con cui Dio arricchisce e istruisce l’anima è così calmo e silenzioso da far pensare alla costruzione del tempio di Gerusalemme, durante la quale non si sentiva il minimo rumore». Infatti, scrive l’autore sacro del Primo libro dei Re: «Durante i lavori per la costruzione del tempio (quello di Salomone) non si udì rumore di martelli, di piccone o di altro arnese di ferro» (1 Re 6,7). Un silenzio, dunque, surreale e mistico. Continua Santa Teresa: «Dio e l’anima si godono in altissimo silenzio, l’intelletto non ha movimenti né ricerche da fare».

Anche la preghiera può essere un rumore di suoni. Anche la carità può essere un agitarsi che fa rumore. Anche l’intelletto, quando ragiona troppo, fa rumore. Cristo ci invita a risvegliare l’udito del cuore. Nel profondo silenzio di noi stessi, avviene l’incontro con il Divino. Qui la Parola, che non è rumore, si fa ascoltare. Qui nasce l’obbedienza d’amore. Qui ha senso l’unica grande parola umana, che è la coscienza.  

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