3 marzo 2024: TERZA DI QUARESIMA
Es 32,7-13b; 1Ts 2,20-3,8; Gv 8,31-59
Chi non sarebbe tentato dal terzo brano di soffermarvisi a lungo commentandolo anche da angolature diverse? C’è un durissimo scontro tra Gesù e i Giudei, ma quali Giudei? Qui c’è già qualcosa di apparentemente anormale: Gesù se la prende con quei giudei che erano diventati suoi simpatizzanti. Lo scontro si svolge su argomenti che ha diversi risvolti: di carattere filosofico (si parla di verità e di libertà, si parla di essere), di carattere religioso (da una parte ci si appella ad Abramo, in quanto suoi discendenti in senso razziale e fisico, mentre Cristo parla di un’altra discendenza, quella spirituale, nel campo della fede), ci sono anche risvolti di carattere teologico, con accuse reciproche offensive, tanto da spingere quei giudei a voler lapidare Cristo stesso.
Ripeto, sarei anch’io tentato di soffermarmi facendo considerazioni riguardanti anche il periodo storico che stiamo vivendo, in realtà subendo, non avendo più nemmeno la forza di reagire. E perciò è sempre necessario parlare di verità e di libertà, quando la libertà viene intesa alla cieca, perciò come libertinaggio, ovvero con il cervello spento.
Vorrei invece soffermarmi sul primo brano, forse da tutti dimenticato, eppure così ricco di spunti molto interessanti, che toccano anch’essi il rapporto tra verità e libertà.
Brevemente, qual è il contesto. Il popolo d’Israele stava vivendo una situazione paradossale: era appena uscito dall’Egitto, quindi dalla soggezione e dalla disperazione rassegnata della schiavitù e dello sfruttamento. Ora era libero, in cammino verso la terra promessa. Ma, ecco il paradosso, come stava vivendo questo cammino di libertà?
Vi invito a riflettere sulle seguenti considerazioni che ritengo stimolanti.
Vedete, chi non è abituato alle scelte che impegnano la propria libertà interiore, pretende di avere garanzie continue, riferimenti solidi e presenti. Siamo fatti così: decidiamo quando si hanno concretezze rassicuranti, è esasperante giocarci il futuro solo sulla fiducia. C’è sempre il tarlo del dubbio: e poi che succederà?
Mosè era salito sul monte da oltre un mese: Dio l’aveva chiamato lassù, tra le nubi di una montagna per di più inaccessibile alla folla. Dunque, Mosè era lontano, non dava segni di sopravvivenza.
Ed ecco che gli ebrei, disorientati, abbandonati a loro stessi, ora pretendono garanzie, sicurezze. Il tarlo del dubbio corrode il loro cervello. Dopo le grandi opere compiute dal Signore per liberarli dalla schiavitù egiziana (pensate alle cosiddette dieci piaghe d’Egitto), ora lo stesso Dio sembra farsi di colpo silenzioso, nascosto, non rappresentabile in nessuna forma, come se avesse abbandonato il suo popolo.
Il popolo, allora, angosciato e preoccupato, pretende da Aronne una presenza significativa e visibile che sostituisca il fratello Mosè, che si assuma le stesse responsabilità, ma pretendendo di dettare le scelte future: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa perché a Mosé, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto». E Aronne si lascia convincere e fa fondere un vitello in metallo, tratto dagli ornamenti preziosi che il popolo ha portato dall’Egitto. Al toro, in Egitto, immagine del grande Dio Ptah di Memphis, un Dio creatore, era attribuita la fecondità dei campi e degli animali. Perciò il popolo si vuole garantire, per il futuro: per la conclusione del cammino, per l’insediamento nella nuova terra, per la fecondità dei raccolti e dei beni.
Una statua, un Dio materializzato, dà garanzia di possederlo, di costringerlo, di obbligarlo ai propri progetti. Lo si porta come primo in processione per sentirsi protetti. Anche gli eserciti ritengono una garanzia affrontare le battaglie con la statua del Dio in primo piano.
Allora il Signore disse a Mosè: «Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».
Qual è la reazione di Mosè? Quella di essere in ogni caso un intercessore, ovvero stare nel mezzo tra il suo popolo e il suo Dio. Mosè non fugge, resta unito al suo popolo, preferisce perire con i fratelli piuttosto che salvarsi da solo.
«Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse…». In realtà l’espressione usata nel testo originale ebraico andrebbe tradotta così: «Mosè allora cominciò ad accarezzare il volto del Signore, suo Dio, dicendo…». Mosè si comporta come un bambino che vede il papà corrucciato e si mette a coccolarlo, fino a quando non riesce a strappargli un sorriso.
L’immagine di Mosè che accarezza il volto di Dio è una delle più dolci e espressive della Bibbia. Ma attenzione: come interpretarla?
La scena non può non stupirci: paradossalmente ci presenta un Mosè buono che parla con dolcezza, e ci presenta un Dio adirato, che ha bisogno di essere riportato alla calma. Eppure, con tale immagine, presa dal nostro mondo umano, Dio indica con quale fiducia e confidenza vuole che ci rivolgiamo a lui nella preghiera.
Con quali parole Mosè accarezza il volto del Signore? Non usa ragionamenti, che forse avremmo usato noi, dicendo a Dio: «Vedi, Signore, essi sono pentiti, non ripeteranno mai più l’errore commesso, il peccato non è poi stato tanto grave…». Discorsi del tutto vani, se ricordiamo che l’uomo, in quanto precario, non smetterà mai di essere peccatore, ripetendo sempre gli stessi errori.
Mosè si comporta da saggio: sa che non può far leva sulla buona volontà dell’uomo sempre instabile e debole, e perciò l’unico modo per ottenere le grazie è confidare nella infinità bontà di Dio, e, quasi dimenticando le iniziali dolci maniere, provoca il suo Dio ricordandogli le promesse fatte al suo popolo, come dire: Tu sei sempre di parola, non puoi far ridere gli egiziani appena sapranno che avrai distrutto gli ebrei che hai liberato dalla schiavitù.
Dunque, l’unica, vera ragione che consente di sperare nella salvezza di ogni uomo è il Bene infinito che Dio vuole alle sue creature. Un Bene non sarà mai vinto da nessuna infedeltà, per quanto grande essa sia stata.
Mosé ha il coraggio di andare oltre le dure minacciose parole di Dio, proprio perché ormai conosce il cuore di Dio, che è sempre aperto al perdono. E Mosè in tal modo non sceglie la via della fuga sottraendosi alla sua missione, non certo leggera e soddisfacente, di essere intercessore. Mosè, dunque, ostinatamente continua a mantenere il suo ruolo di mediatore e sta dalla parte della sua gente.
Ed ecco la conclusione: «Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo».
Verrebbe da chiederci: a parte l’intercessione di Mosè, che cosa hanno fatto gli israeliti per meritarsi la misericordia di Dio? Nulla. Il Signore ha fatto tutto da solo: si è ricordato che le sue promesse sono incondizionate, e perdona il suo popolo. Forse, senza forse, già il fatto che stiamo dalla parte dei più deboli, ciò garantisce l’intervento gratuito della grazia divina.
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