È morto il regista Ermanno Olmi
dal Corriere della Sera
7 maggio 2018
È morto il regista Ermanno Olmi,
aveva 86 anni
Era malato da tempo, venerdì era stato ricoverato d’urgenza in ospedale ad Asiago. Originario di Bergamo, nel 1978 aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes con «L’albero degli zoccoli»
di Maurizio Porro
Tra il cinema e la vita, Ermanno Olmi, di cui si fatica dire che non c’è più, ha sempre privilegiato la vita. Perché, illuminata in angoli riposti e in pieghe nascoste, fu la vera protagonista del suo cinema, il modello che gli permise di non accettare mai il gioco commerciale del divismo, barricandosi dietro alla verità della sua cultura contadina cattolica, del ragazzo self made che non aveva finito il liceo. Ermanno, il gran lombardo, unico nostro regista davvero manzoniano, era nato il 24 luglio 1931 a Bergamo da cui poi si era spostato prima a Treviglio e poi a Milano, dove fu Ragazzo della Bovisa, come titolò il suo libro autobiografico. Una manciata di chilometri, ma intanto la vita si faceva avanti con la perdita dei genitori (il padre era un ferroviere licenziato per antifascismo poi morto in guerra), la scuola, l’Accademia, una rivista alla Triennale e finalmente il «posto».
Fu assunto come fattorino alla Edisonvolta, storico palazzone borghese tra Cairoli e Cadorna, la Milano dei sciuri. Non sarebbe stato per sempre. La passione d’Ermanno per il cinema gli guadagnò la stima dei padroni che gli affidarono una preziosa cinepresa 16 mm con l’impegno di documentare l’attività della società. Il giovane non si fece pregare, girò oltre 40 titoli, tappe di un cinema industriale con un copyright, che non tralasciava il fattore umano. Come accade in «Il tempo si è fermato», girato al freddo dell’Adamello, a 2800 metri, storia di un vecchio e di un giovane guardiani della diga, analisi di un rapporto generazionale che si replicherà, a inizio collaborazione con la Rai, nei «Recuperanti», ‘70, dove ci sono due raccoglitori di residuati bellici sull’altipiano di Asiago: solitudine e solidarietà in alta quota. Asiago da allora diventa la sua terra, residenza, casa, famiglia, gira per l’Italia ma appena può ci torna e ci fonda anche una scuola per giovani registi dove Maurizio Zaccaro diventa poi suo collaboratore fisso. Il film che lo consacra nel cuore di molti è nel 61, «Il posto», che trionfa a Venezia nella sezione Informativa ed è una giornata tipo nella Milano di allora sventrata per la metropolitana. Il neo realismo dei non eroi, è l’arrivo della nouvelle vague: Olmi è spesso associato a Pasolini per convergenza polemica dei caratteri e perché entrambi facevano tutto sul set (Il Vangelo secondo Matteo del resto non potrebbe essere firmato da Olmi?). Un regista che fu sceneggiatore, produttore (insieme con l’amico Tullio Kezich fondò la mitica «22 dicembre», di recente era la figlia Elisabetta a organizzare i suoi film con passione), scenografo, direttore della fotografia, prima di passare le consegne al bravissimo figlio Fabio. Raramente Olmi partiva da libri, fece un’eccezione per le Sacre Scritture, per Joseph Roth la cui «Leggenda del santo bevitore» con Rutger Hauer conquistò il Leone, e per Buzzati («Il segreto del bosco vecchio” con Villaggio). Fra le sue funzioni era anche attento agli attori (non professionisti almeno nel primo periodo) scelti con molta attenzione, tanto che Loredana Detto, la ragazza del “Posto”, finite le riprese diventò sua moglie e lasciò la carriera, standogli al fianco per tutta la vita. Una vita bella e difficile, con grandi soddisfazioni e colpi bassi del destino come la malattia, la sindrome di Guillain-Barré che lo immobilizzò per mesi e mesi; e poi una caduta la sera di un suo compleanno ed ancora immobile con Loredana, i suoi pensieri, la sua costanza della ragione.
Una vita piena di premi (Palma a Cannes, due Leoni veneziani di cui uno alla carriera nel 2008 consegnatogli da Celentano, infiniti Nastri e David, onorificenze e lauree, Pardo d’onore a Locarno), con un gran successo popolare come “L’albero degli zoccoli”, girato nella sua terra, in dialetto bergamasco sottotitolato, storia delle opere e i giorni di quattro famiglie contadine nel 1897. Ma fu anche critico: il documentario girato nell’83 sulla Milano, allora ahimè “da bere”, gli provocò i mugugni dei potenti e la scomparsa del filmato dalla tv. Ci furono momenti di distacco col pubblico, il fiasco di “Cammina cammina” sui Magi (“sai che non entrò neanche una persona al cinema quel giorno?” diceva ricordando) e di “E venne un uomo” sulla vita di Giovanni XXIII- Rod Steiger, film sollecitato da Saltzman, il produttore di James Bond; infine della “Genesi”, produzione tv. Meglio per lui le scritture profane di quelle sacre, giacché nelle pieghe della prime Olmi trovava il senso delle seconde. Un autore che sapeva, per rabdomantico dono, come pochi altri intercettare i bisogni morali: il filosofico religioso “Cento chiodi” con Raz Degan sulle rive del Po per ritrovare un rapporto con la natura e la terra che gli pareva indispensabile per ricominciare (Terra madre, Rupi del vino, Lungo il fiume…): il film gli scoppiò fra le mani con quell’indimenticabile immagine della crocefissione dei libri antichi. Prevedeva: negli insospettabili anni 60 aveva già intuito la crisi dei modelli di vita omologati e pubblicitari (“Un certo giorno”), la rottura dell’incomunicabilità col senso della nascita (“La circostanza”), il bisogno d’innamorarsi (“La cotta”). Si potrebbe dire che per lui, cattolico fervente ma non allineato (stava con la Chiesa autentica del card. Martini), il cinema era uno strumento di comunicazione spirituale in senso lato. Accadde per “Il mestiere delle armi”, capolavoro premiatissimo su Giovanni dalle Bande Nere, la morte e la polvere da sparo.
Olmi si sentiva parte anche della famiglia del teatro: mise in scena una “Piccola città” di Thornton Wilder nell’89 e poi opere, dalla novità “Teneke” dell’amico Fabio Vacchi, musicista di fiducia, al “Ballo in maschera” con scene dell’amico Arnaldo Pomodoro con cui ebbe fattiva collaborazione per la benemerita “Fondazione” del grande scultore. Amante delle cose semplici ma solide della vita, delle cene fra amici (quindi prenotata la nostalgia), curioso di vita e di persone, cultore dell’amicizia come materiale non corruttibile nemmeno dal tempo, per oltre 50 anni continuò a girare lunghi, medi, corti (pure un episodio di “Ticket”): annuncia d’abbandonare la fiction perché ormai aveva raccontato tutto quello che gli stava a cuore (ma quanto documentario c’era già nell’”Albero degli zoccoli”!), poi per fortuna si ricrede e chiude la sua partita d’autore con due opere testamento. Il “Villaggio di cartone”, claustrofobica storia di immigrazione col buon prete Michel Lonsdale e il magnifico “Torneranno i prati” (ora al Festival di Berlino), claustrofobico inno sotterraneo contro la guerra, la prima mondiale e tutte le altre future, incrocio poetico di vita e cinema, sempre in quel suo magico equilibrio baciato dal sorriso.
LEGGETE
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