Omelie 2015 di don Giorgio: Penultima Domenica dopo l’Epifania

8 febbraio 2015: Penultima dopo l’Epifania
Os 6,1-6; Gal 2,19-3,7; Lc 7,36-50
Il primo brano della Messa è tolto dal libro di Osea. Questo profeta, che è vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., nel regno settentrionale di Israele, apre la serie dei cosiddetti  “profeti minori”. Minori, non tanto per la qualità della profezia, quanto per il testo che ci hanno lasciato, più breve di quello dei profeti “maggiori”.
A parte la sua testimonianza di alto profilo, di Osea sconcerta la sua vicenda personale, che va a intrecciarsi con la vicenda del popolo eletto. Chiariamo meglio.
Osea aveva sposato una donna, di nome Gomer, la quale era una prostituta: forse una sacerdotessa dei culti della fertilità a sfondo sessuale degli indigeni cananei. Questa donna continuerà, anche dopo il matrimonio, a prostituirsi, facendo soffrire Osea, che, però, per non lasciarla, continua a convivere con lei. Un giorno, però, Gomer se ne va di casa. Osea non si rassegna, e, spinto da un appassionato amore, se la riprende di nuovo.
Questa storia personale del Profeta diventa una allegoria del popolo d’Israele, visto da Dio come uno sposo amato, ma che continuamente si prostituisce, tradendo così l’Alleanza.
Ho fatto questa premessa, per far capire quanto sia importante il libro di Osea. Il profeta Osea, infatti, ha dato una svolta alla raffigurazione dell’Alleanza tra Jahvè e Israele, non più modellata, come al Sinai, sulla base di un rapporto tra un re e un suo vassallo, ma come una relazione d’amore tra due persone, con aspetti di intimità, di comunione, di spontaneità. Un rapporto, dunque, non più di tipo “politico” tra due personaggi, ma di tipo “nuziale” tra due amanti. Capite la differenza! Questo tema nuziale verrà poi ripreso dai profeti successivi in forme diverse e diventerà un simbolo significativo anche per il Nuovo Testamento. Tra l’altro, nel capitolo 11 lo stesso Osea assumerà un’altra immagine, quella paterna (o materna) per definire il rapporto tra Dio e l’umanità.
È blasfemo come ancora oggi ci siano religioni, dove l’immagine di dio raffiguri un guerriero che va in battaglia a uccidere! Ce ne rendiamo conto? È veramente sconcertante sapere invece che, settecento anni prima di Cristo, perciò due mila settecento anni fa circa, un profeta aveva parlato in un modo del tutto diverso di Dio, del vero Dio. Qui non faccio satira, dico la verità: islamici, ebrei e cristiani hanno ancora di dio un’idea oscena, nel senso che esce dal Mistero divino. È spaventoso, assurdo, blasfemo parlare di Dio come se fosse il protettore delle nostre criminalità. Non devo difendere, con le armi, il dio della mia religione, ma, casomai, io devo difendere me stesso dalla idea orrenda che ho di dio. Questa idea va distrutta: quella immagine che c’è in me di dio.
Il brano odierno di Osea, che fa parte del capitolo 6, è interessante anche per due espressioni, che saranno riprese nei Vangeli. Anzitutto, si parla di una prova a cui il Signore sottopone Israele, che dura “due giorni”. Ecco le parole: «Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza». Non ci vuole un esegeta per capire che qui c’è in anticipo una allusione ai tre giorni pasquali di Cristo. I tre Vangeli sinottici riportano tre annunci da parte di Gesù della sua passione, morte e risurrezione.
Luca scrive: «Il Figlio dell’uomo – disse (Gesù) – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (9,21). Notate: non dice “dopo tre giorni”, ma il “terzo giorno”.
La seconda espressione che merita anch’essa una particolare attenzione sono le parole: «Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti». Gesù citerà le medesime parole, quando, come scrive Matteo, si dovrà difendere dall’accusa rivoltagli dai farisei di sedere a tavola coi pubblicani e i peccatori: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”» (9,12).
Anche qui una riflessione. È vero che Gesù è la Novità in persona, ma, in realtà, non ci ha rivelato niente di nuovo, ma la sua novità sta nell’aver riscoperto, ripresentato, ripreso quella verità, sempre presente in Dio e nell’universo, ma che è stata, lungo i millenni, tradita e coperta. Eppure, ancora oggi, dopo duemila anni di Cristianesimo forse non siamo riusciti a capire che senso abbiano le parole di Osea: «Io voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio piuttosto degli olocausti». È già inaccettabile sacrificare degli animali o dei prodotti della natura: che dire poi della barbarie di sacrificare vite umane sull’altare delle nostre divinità?
Il brano di San Paolo affronta ancora il problema del rapporto tra la Legge e lo Spirito. A parte che su questo tema bisognerebbe riflettere a lungo, ciò che mi sconcerta, anche qui, è il fatto che non si riesce proprio a uscire dai legami di un concetto di legge, anche nel campo civile, che è la morte dello spirito o della coscienza o della dignità dell’essere umano. Eppure, le parole dell’Apostolo sono chiare: «Se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano». E insiste, quasi offendendo: «Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?». Due cose. Anzitutto, notate la parola “carne”, che secondo San Paolo rappresenta il mondo esteriore, il mondo, appunto della Legge. Inoltre, il cammino della Chiesa sembra un cammino a ritroso: dallo Spirito alla carne, ovvero alla Legge. La Legge! San Paolo scrive questo termine con la L maiuscola, proprio per rafforzare il potere che la Legge aveva nelle istituzioni, come se fosse una divinità.
Il discorso si farebbe lungo. Dico solo: finché non usciremo dalla supremazia di potere della Legge, non potremo mai capire che cosa sia la fede e la giustizia. Torna la parola “giustizia”, che, secondo la Bibbia, lo ripeto, non riguarda anzitutto il rispetto delle leggi terrene. La giustizia è quel Disegno eterno di Dio, da cogliere e da realizzare secondo la fede che parte dal cuore interiore. In altre parole, la giustizia dipende dalla fede e non dalla legge. Se approfondissimo questi concetti, forse capiremmo che riguarderebbero non solo il campo religioso, ma anche quello civile.
Anche il brano del Vangelo ha le sue provocazioni. Protagonista è una peccatrice, una prostituta della città. Secondo la Legge, era una donna perduta davanti a Dio (e non solo davanti a Dio), finché rimaneva fuori dalle regole istituzionali. Cristo ha usato un altro criterio per recuperare la sua umanità. Il primo passo, comunque, è partito dalla donna: ha fatto ciò che i ben pensanti non avevano fatto. Perfino il padrone di casa, fariseo, perciò un uomo considerato giusto dalla Legge, si era dimenticato di fare gli onori di ospitalità, sacri al mondo orientale fin dall’antichità.
Gesù, che cosa fa? Non solo gradisce il gesto di quella prostituta, ma rimprovera il fariseo raccontando una parabola, che, se letta bene, è davvero rivoluzionaria. C’è un versetto, precisamente il 47, che ha lasciato e lascia tuttora perplessi anche gli esegeti, nel tradurlo. Sembra che ci sia una contraddizione. Gesù dice al fariseo, padrone di casa: «Sono perdonati i suoi molti peccati (quelli della donna), perché ha molto amato. Invece colui al quale si pedona poco, ama poco». Sono stati scritte pagine e pagine per tentare di risolvere l’apparente contraddizione.
Possiamo sintetizzare il pensiero di Gesù così: «L’amore fa nascere il perdono, il perdono fa crescere l’amore». C’è come una profonda interconnessione tra l’amore e il perdono, senza dover per forza stabilire, di volta in volta, il primato dell’uno o dell’altro. Lasciamo a Dio scegliere da dove partire: se da noi o se da lui. Una cosa è certa: l’amore non può che essere profondamente umano, al di fuori di ogni regola istituzionale. Il vero amore parte dall’essere, ed è qui che Dio ne giudica la bontà, e perdona tutti i nostri eventuali peccati.
Solo Dio sa vedere nel nostro cuore, ed è per questo che solo Lui può dire: «La tua fede ti ha salvato. Va’ in pace».

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