Tra dissennatezze politiche e bestemmie religiose, quale la via d’uscita?
di don Giorgio De Capitani
Basta un minimo risveglio
anche della più piccola scintilla di un grande Pensiero
del passato più lontano
perché mi senta fortemente a disagio
in e per un oggi
solo pelle e niente essere:
ecco una massa di corpi affamati di cose
che, consumandosi, li consumano,
imporre a questo drammatico momento storico
la legge della più feroce dissennatezza.
Una dissennatezza, ovvero:
vuoto assoluto di essere,
follia di massa,
frantumazione del Singolo
nella realtà del suo essere spirituale.
La religione del vuoto d’essere
è la bestemmia più atroce:
un idolo di cartapesta,
a cui si impone di inginocchiarsi
una massa di devoti bestioni.
La politica dell’avere più sfrenato
è la decapitazione del presente, che muore
in ogni attimo consumato alla mensa
di insaziabili appetiti ventreschi.
La società appesa ad ogni desiderio bavoso
di felicità apparente
travolge nel suo fatale destino
santi pazzerelli e peccatori presuntuosi:
entrambi vittime di assurde e colpevoli ingenuità
– celestiali o infernali non importa –,
“compagni” di un viaggio destinato
al totale fallimento Umano.
Possiamo anche dirci ottimisti per vocazione
– una presunzione, comunque, senza ragionevolezza –,
ma, in ogni caso, la realtà non cambia:
dobbiamo confrontarci con la nostra stupidità,
che continua a giustificarci,
perfino quando siamo costretti a nutrirci
di ogni escremento delle cose che consumiamo.
Se questo è ottimismo,
forse sarebbe meglio farla finita,
togliendo il nostro incomodo
a una massa di mentalmente pervertiti.
Ma non possiamo vivere di disperazione,
che è l’altra faccia di un suicidio
ben peggiore però di una morte violenta.
La forza di una resistenza a qualsiasi male
sta nel ritorno più germinale,
ovvero all’origine della nostra vita:
in quel sé che può difenderci da ogni distruzione.
Ma vedo una mandria inferocita
nutrirsi di brandelli di Umanità:
ma Dio dov’è a proteggerci
in quanto figli e fratelli?
L’hanno inchiodato di nuovo,
abbandonato perfino dalla sua onnipotenza divina,
forse perché la prima volta era risorto invano.
Un ateo non prova in sé quel disagio “interiore”
che prova un credente.
L’ateo è un disadattato “esistenziale”,
mentre il credente lo è anche ”ontologicamente”.
E così noi, atei e credenti, componiamo
un popolo di “squilibrati”,
in attesa di essere salvati
da un Messia ancora impotente:
quando scenderà dalla Croce
e spazzerà via i falsi profeti
e brucerà i fantocci idolatrati da una mandria di bifolchi?
Figli e fratelli di una Umanità frantumata
dalla peggiore barbarie,
subiamo senza speranza ogni sopruso,
violentati dalla più oscena ostentazione
di una brutale dissennatezza di quell’Ego
che si prende gioco del Bene assoluto,
vanificando ogni Sua possibilità di manifestarsi.
Ci sentiamo in balìa di un Mal d’essere,
capace di spegnere in noi
ogni scintilla dell’Intelletto divino.
E il Mal d’essere aumenta a dismisura
nella massa di bifolchi scalpitanti,
che scorrazzano ovunque c’è un filo d’erba da schiacciare:
il Mal d’essere viene però attutito
da quel Ben avere, tutto proteso a difendere il corpo
spegnendone lo Spirito.
Solo una Singolarità denudata nella sua essenza divina
potrà salvarci da una massa di anonimi individui,
soggiogati al potere del grande Bestione.
La Singolarità, dunque,
ovvero l’”essere” riscoperto nella sua realtà più divina,
frantumerà l’anonimato di individui venduti e rivenduti
alla causa della carne idolatrata,
e il Bestione sarà trafitto
nella sua oscena ostentazione di un potere
che imploderà al soffio del grande Spirito.
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