Omelie 2024 di don Giorgio: QUARTA DI QUARESIMA

10 marzo 2024: QUARTA DI QUARESIMA
Es 33,7-11a; 1Ts 4,1b-12; Gv 9,1-38b
Quaresima è il momento “favorevole”, come direbbe san Paolo, per liberare il nostro spirito onde accogliere in pienezza la Grazia divina. Perciò, momento in cui dare più spazio al silenzio, alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione, unitamente a quell’impegno di purificazione che i Mistici chiamavano “distacco” anche dal superfluo materiale.
Almeno in Quaresima si chiede troppo ai fedeli di assistere alla Messa con l’animo più disponibile ad ascoltare la parola di Dio, che ha una sua preliminare importanza?
Non dimentichiamo che la prima parte della Messa è chiamata “mensa della parola”. Prima si ascolta la Parola, che è il Verbo eterno, poi si assiste alla seconda parte, che è la mensa eucaristica.
Questo per dire che non dovremmo mai prendere alla leggera i brani della Messa, ricchi di stimolanti spunti di riflessione. È vero che il tempo per una omelia è limitato, ma almeno in Quaresima non lamentiamoci se l’omelia durasse qualche minuto in più. Anticamente c’erano i cosiddetti quaresimali, che si tenevano in momenti particolari (solitamente la domenica pomeriggio) che duravano più di un’ora, anche studiati in modo tale che ci fosse un contradditorio: da una parte un predicatore che faceva la parte di Cristo, e dall’altra un altro che faceva la parte del diavolo. La gente era attenta, anche si divertiva.
Una prima riflessione la faccio sui primi versetti del capitolo 33 dell’Esodo, che precedono il primo brano della Messa. Dopo la vicenda del vitello d’oro, Mosè sale sul monte per impetrare da Dio il perdono per il peccato commesso dal suo popolo. Il Signore, placato da Mosè, invita gli israeliti a proseguire nella marcia verso la terra promessa, ma a queste condizioni: saranno guidati solo dal suo angelo; Dio rifiuta di camminare accanto al suo popolo: «Non verrò in mezzo a te, per non doverti sterminare lungo il cammino, perché sei un popolo di dura cervice». Poi Dio impone ai figli d’Israele di togliere i loro ornamenti, segno di lutto, e anche come richiamo degli oggetti, che erano serviti per costruire il vitello d’oro.
Ci verrebbe da dire che il Dio dell’Antico Testamento non scherzava nell’educare il popolo a crescere nella radicalità di una fede, che non poteva permettere certi tradimenti. E il tradimento che i profeti chiameranno “adulterio” consisteva nel venir meno alla Alleanza con l’Unico Dio, lasciandosi tentare dall’idolatria, ovvero dall’adorare false immagini del vero Dio.
Possiamo dire che sull’idolatria Dio non scherza neppure oggi, ed è proprio la religione in quanto tale che è idolatrica, imponendo una propria immagine di Dio. E ci lamentiamo che Dio ci abbandoni al nostro perverso destino?
Sull’idolatria potremmo dire tante cose, una in particolare: sembra che oggi tutto sia idolatria, sì tutto anche il sacro, perché contaminato da un consumismo che ha molteplici volti, tra cui la maschera religiosa con cui si vorrebbe giustificare anche l’odore sporco dei soldi, perché il denaro, come si dice, non puzza mai, se poi è avvolto da nubi d’incenso.
Penitenza significa anzitutto spogliarci di tutto ciò che ci ha allontanato dal Mistero divino, che è nel profondo del nostro essere, e non limitarci a qualche occasionale confessione sacramentale che, se condona il peccato, ne lascia però le radici.
Passiamo al brano di oggi: si parla di una tenda, della tenda del convegno, e di una colonna di nube che l’avvolgeva. Anche se sarebbe interessante, ma richiederebbe troppo tempo, spiegare che cos’era e che cosa rappresentava per Mosè e il popolo ebraico la tenda del convegno (luogo di dialogo con Dio, anche di consultazione del popolo), mi limito a fare una semplice riflessione: la tenda non era fissa per sempre in un luogo, ma accompagnava il cammino del popolo per cui veniva montata e smontata. La tenda era mobile, immagine di un Dio che non prende fissa dimora in un luogo sacro. Non dimentichiamo le parole che troviamo nel Prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, letteralmente il testo greco andrebbe tradotto: “pose la sua tenda in mezzo a noi”. E non dimentichiamo le parole di Gesù alla donna di Samaria: «Viene l’ora in cui né su questo monte (il monte Garizim dove c’era il santuario dei samaritani) né a Gerusalemme (nel tempio degli ebrei) adorerete il Padre… Viene l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».
Anche per il terzo brano, che è la narrazione della guarigione di un cieco dalla nascita, a cui Gesù ridona prima la vista fisica e poi quella spirituale con il dono della fede, vorrei solo darvi qualche spunto di riflessione.
Tutto il brano riguarda, dunque, la vista: ovvero il vedere o il saper vedere. Gesù “vede” quel cieco ai bordi della strada che chiedeva l’elemosina.
La gente generalmente guarda ma non vede, perciò passa oltre: non vede un bisognoso, anche se dà qualche sguardo di commiserazione, o magari di disprezzo. Neppure il levita e il sacerdote “vedono”, solo un samaritano “vede” e si ferma a soccorrere quel tizio che era stato mal ridotto dai ladroni. I farisei non vedono, e accusano quel cieco che ora vede. E lo buttano fuori dalla sinagoga, e fuori incontra Cristo che lo sta aspettando, anche lui fuori, pronto a donargli la fede.
Chi vede troppo viene cacciato fuori, emarginato dalla società, civile o ecclesiastica: sì, chi vede troppo bene la realtà è cacciato fuori da una società che è cieca e ottusa, anche se fatta di ben pensanti o di dottori della legge.
In fondo la storia si ripete: si vorrebbe una verità incarnata in uno schema o in un dogma, in una struttura o ideologia politica, e ci si trova davanti al bivio: o farsi emarginare o farsi integrare nel sistema, o crearsi quel piccolo angolo in cui star bene lontano da ogni rischio, ma in ogni caso sempre vittima di una paura: non voler scegliere con chi stare.
Oggi c’è la tendenza a fare il furbo: generalmente non si dice apertamente “sono cristiano o non cristiano”, “sono di destra o di sinistra”, si fa il qualunquista di comodo, si mettono insieme credenze di ogni tipo, con una morale del fai da te. Si va in chiesa, e poi si è razzisti. Rileggendo il brano del cieco una cosa mi ha colpito: il coraggio e la determinazione con cui quel cieco, guarito fisicamente da Gesù, era rimasto solo a difendersi e a difendere Cristo, scontrandosi anche con gli stessi farisei. Cristo gli aveva restituito la vista fisica, ma quel cieco aveva già sveglio e attivo il proprio intelletto. Era meno dotto dei sapientoni, ma più intelligente. Attenzione: la cultura di per sé non va confusa con l’intelligenza. Pensate alla sapienza o intelligenza dei nostri vecchi che non avevano la cultura di oggi.
Lo riconosco: invidio quel cieco, perché mi è sempre di stimolo ogniqualvolta mi sento un po’ giù: un esempio di lucidità mentale, di coraggio, ancor prima del dono della fede.
Ed io che credo con gli occhi dello Spirito mi dovrei rassegnare?
“Fuori”, c’è sempre un Cristo ad attendermi.

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