Omelie 2014 di don Giorgio: Domenica delle Palme

13 aprile 2014: Domenica delle Palme nella Passione del Signore
Is 52,13-53; Eb 12,1b-3; Gv 11,55-12,11
La Santa Messa di questa domenica, detta Domenica delle Palme nella Passione del Signore, dà inizio alla Settimana Santa, che nei documenti più antichi della liturgia ambrosiana veniva chiamata “Hebdomada authentica”. “Hebdomada” significa settimana, mentre l’aggettivo “autentica” può avere diverse interpretazioni: può significare “eminente”, ovvero è la settimana più importante dell’anno liturgico; oppure può significare “tipica o normativa”, ovvero è la settimana sulla quale è stata modellata ogni altra settimana dell’anno liturgico.
In poche parole, si tratta di una settimana che per i credenti è fondamentale, direi unica, in quanto la nostra fede trova la sua ragion d’essere proprio negli avvenimenti che si sono svolti nei giorni che vanno dal giovedì santo sera alla mattina di Pasqua. Ecco il Triduo pasquale, che è il cuore del cristianesimo. Non dimentichiamo che il primo nucleo, detto kerigma, del messaggio evangelico annunciato dagli apostoli consisteva proprio in questo: Cristo ha sofferto, Cristo ha patito ed è morto, Cristo è risorto. Tutto il resto, ovvero le parole e i gesti di Gesù, non interessava i primi cristiani. Solo in seguito si sono formati i Vangeli che conosciamo oggi.
Senza soffermarmi a spiegare i vari riti, sinteticamente possiamo dire che, secondo una terminologia antica, cara a sant’Agostino (terminologia cosiddetta “ascendente”), il Triduo pasquale ambrosiano mette in evidenza tre aspetti: quello del “Christus patiens”, Cristo che soffre (dalla celebrazione vespertina del Giovedì santo fino a quella del Venerdì santo inclusa); quello del “Christus dormiens”, Cristo che dorme, in attesa di risorgere (dal Venerdì santo sera fino all’inizio della Veglia pasquale esclusa); infine quello del “Christus resurgens”, Cristo che risorge (dalla Veglia pasquale ai secondi Vespri della Domenica di Pasqua).
Stamattina, in ogni parrocchia del mondo, c’è stata anche una Messa particolare: la Messa delle Palme, con la benedizione degli ulivi e la processione prima della Messa. Come sempre, anche qui si è data una enorme importanza al rito dell’ulivo, dimenticando che è solo un particolare. Mi ricordo che, quando ero prete a Sesto San Giovanni, tantissima gente che non si vedeva mai in chiesa veniva a prendere l’ulivo benedetto, e poi se ne tornava a casa, senza partecipare alla Messa. A che punto può arrivare la superstizione! Forse oggi si dà meno importanza all’ulivo benedetto, ma non certo a vantaggio del Mistero pasquale, che è ancora vissuto con poca partecipazione. Provate a fare un confronto: tra la gente che viene alla Messa la Notte di Natale e quanti partecipano al Triduo Pasquale. E anche sul Triduo pasquale ci sarebbero tante cose da dire. Fino a pochi anni fa, si soddisfaceva il precetto della Chiesa, con la Confessione e la Comunione il giorno stesso di Pasqua. Mi ricordo che, nei primi anni del mio ministero pastorale (non ero in una città!), c’erano uomini che, in una fila interminabile davanti al confessionale, venivano di primo mattino a confessarsi, ricevevano la Comunione prima della Messa (allora si poteva ricevere l’ostia consacrata anche fuori della Messa) e poi tornavano a casa, senza ascoltare la Messa. In fondo, osservavano il precetto che imponeva di fare la comunione almeno a Pasqua.
E pensare che forse pochi cristiani sanno che la vera Comunione pasquale è quella del Giovedì santo, quando Cristo ha istituito l’Eucaristia. Ma qui le cose si complicano, se dovessi spiegare come stanno esattamente le cose.
Vorrei invece ora fare alcune riflessioni generali che possano aiutarci a vivere con fede la Settimana Santa, in particolare il Triduo pasquale. Tutti sanno che i riti sono più lunghi di una Messa normale, talora complessi, anche se oggi sono stati ridotti all’essenziale. Tuttavia ci sfugge ancora il loro antico significato. Basterebbe pensare soprattutto alla Veglia del Sabato santo, con il rito iniziale della luce, del Cero pasquale, con le diverse letture prese dall’Antico Testamento che precedono l’annuncio della risurrezione, infine il rito battesimale.
Non dimentichiamo una cosa: a parte i brani dell’Antico Testamento che andrebbero anche spiegati, soprattutto oggi (pensate al racconto di Giona che non va preso naturalmente alla lettera), anche i brani evangelici della passione di Gesù vanno riletti, senza soffermarsi sui particolari, pur storici. Qui non si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, ciò che invece si vorrebbe invitare a fare è un accostamento che era poi l’intenzione di chi ha scritto il Vangelo. L’autore, ovvero l’evangelista, ha riletto, soprattutto gli ultimi momenti della vita di Gesù, non con l’occhio dello storico o del cronista preoccupato di narrare esattamente ciò che è avvenuto. Tra lo svolgersi dei fatti storici di Cristo e la stesura dei Vangeli sono passati decine e decine di anni, durante i quali le prime comunità hanno avuto il tempo per rifletterci, sotto l’ispirazione dello Spirito santo. Ed è così che la rilettura della vita di Gesù via via è diventata teologica. Quindi, i Vangeli sono la rilettura teologica di ciò che Cristo ha detto e ha fatto, a iniziare dal nucleo di partenza, ovvero dalla passione, morte e risurrezione. Ora, rileggere questi momenti con l’occhio teologico, ovvero della fede, non è scontato. Ancora oggi fatichiamo a cogliere nei fatti il loro significato profondo, che è quello che conta per un credente.
Attenzione. Non sto parlando solo di simbologia. C’è qualcosa di più. Limitarsi alla simbologia sarebbe veramente poco e fuorviante. La storia di Giona va letta simbolicamente (tutti sappiamo che si tratta di un racconto edificante inventato o mitico), ma non possiamo dire la stessa cosa della passione e morte di Cristo. La teologia non esclude il fatto storico: Cristo ha realmente patito, è realmente morto ed è risorto, ma va oltre, nel senso che coglie negli eventi storici qualcosa di più profondo. Ed è qui che entra in scena la fede. La fede che cos’è, in poche parole? È l’occhio di Dio che sa leggere gli eventi, ne coglie la realtà profonda e rende questa realtà sempre attuale, fuori dal tempo storico ma nel tempo presente, che è quello che conta per me che vivo oggi.
La Settimana Santa, dunque, non è una commemorazione o solo un ricordo di ciò che è avvenuto duemila e più anni fa. La fede conta, eccome, entra in tutta la sua purezza e intensità. È giusto dire: voglio “rivivere” quei momenti tragici della vita di Cristo. Sì, riviverli, ovvero renderli “presenti” oggi. In tutta la loro carica umano-divina. Starei attento anche a sottolineare troppo la tragicità degli eventi. Non è questo il punto. Calcare la mano sulla sofferenza di Cristo serve poco, se non si coglie nella sofferenza di Cristo la carica d’amore che ha dato un senso teologico a tale sofferenza. Si può soffrire bestemmiando, si può soffrire amando. Un amore, quello del Figlio di Dio, che è arrivato al punto di non essere sorretto neppure dalla presenza del Padre.
La sofferenza di Cristo nell’orto degli ulivi e mentre muore sulla croce maledetta ha avuto la sua prova suprema in un amore di abbandono, da parte di tutti, Padre celeste compreso. Mentre soffriamo, tutti cerchiamo una mano amica di conforto, e sentirci abbandonati in quel momento è la prova più dura.
L’amore puro e gratuito che significa? Non significa forse che si è soli ad amare una causa o, meglio, più che una causa in sé ad amare una umanità fatta di esistenze reali, una umanità che non si ferma ai presenti, ma anche ai lontani, ma pur sempre esseri umani, che vivono nella solitudine di una vita che non è vita, a cui manca l’essenziale che è il senso del vivere?
La sofferenza fisica del Cristo uomo non è paragonabile alla sofferenza morale del Figlio di Dio, che si è, come dice san Paolo, “svuotato” della sua stessa divinità per amare degli esseri umani inamabili, che fanno di tutto per non essere amati, che non si sentono più di essere amati. Non è vero che Cristo ha sofferto più di ogni altro essere umano. Basterebbe pensare a certe guerre, anche moderne, che hanno inferto agli innocenti tali mostruosità, al cui confronto la sofferenza fisica di Cristo è come una goccia di sangue! Quindi, attenzione: non dobbiamo puntare su questo aspetto, ma dobbiamo evidenziare la carica d’amore di Cristo, e qui, nella potenza d’amore, possiamo senz’altro dire che Cristo è insuperabile.
Sulla Risurrezione qualcuno dice che è stata una bella trovata della Chiesa per dare senso positivo a tutta una vicenda tragica che non doveva finire con la morte. Non è così. Indipendentemente dal fatto che a dircelo siano gli stessi Vangeli, la risurrezione è nella stessa natura dell’amore. Possiamo anche mettere in dubbio o, meglio, reinterpretare, dal punto di vista storico, le apparizioni del Cristo risorto (gli stessi esegeti mettono diversi puntini sulle i nei confronti delle narrazioni evangeliche), ma ciò che è naturale, ovvero risiede nella stessa natura delle cose, è che l’amore è indistruttibile, non può morire, è eterno. La risurrezione di Cristo sta a dimostrare questo. E non importa se noi, dopo la morte, non risorgeremo nel terzo giorno. La Chiesa con un dogma di fede ci assicura che risorgeremo. Quando? Non lo dice. Non lo può dire. Ciò che non potrà mai morire, e sarà eterno, è l’amore che saremo riusciti a dare alla nostra esistenza. Stiamo lottando per una nobile causa? La nostra lotta non finirà nel nulla. Tutto l’amore che abbiamo messo anche nelle più piccole cose non svanirà nella nebbia. Capiamo allora perché questo mondo, nonostante tutte le cattiverie umane, continua la sua storia? I catastrofici che vedono tutto nero e che pensano che la fine del mondo sia dietro l’angolo saranno sempre dei perdenti. E non solo il mondo non finirà nel nulla, perché Cristo è venuto sulla terra, è morto ed è risorto, ma anche per merito di quei santi e di quei giusti che hanno saputo e sanno tuttora riempire con il loro amore gratuito un pezzo della storia.

 

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