Omelie 2015 di don Giorgio: Ultima Domenica dopo l’Epifania

15 febbraio 2015: Ultima dopo l’Epifania
Is 54,5-10; Rm 14,9-13; Lc 18,9-14
Il primo brano della Messa è tolto dal Libro di Isaia: sono i primi versetti del capitolo 54. Perciò, secondo gli studiosi, si tratterebbe del Secondo o Deutero Isaia, ovvero della parte del libro che riguarda il periodo, in cui Israele era schiavo a Babilonia (587–538 a.C.).
Questa seconda parte del libro è caratterizzata dai quattro “Canti del Servo di Javhè”. Si tratta di quattro liriche, da qui la parola “canto”, che parlano di un personaggio misterioso, chiamato “il servo”, al quale viene affidata una missione importante e decisiva per la storia di Israele e per tutti gli uomini. Praticamente, gli viene affidato il compito di rifondare la religiosità autentica. Gli studiosi si sono divisi, per identificare il personaggio misterioso. A chi si riferiva l’autore anonimo? Secondo alcuni esegeti, il servo sarebbe Israele stesso, ora in esilio, ma che avrà il compito, proprio perché ha sofferto, di risorgere. Per altri esegeti il servo sarebbe un personaggio-simbolo o il deutero-Isaia stesso, o un profeta come Geremia, o un personaggio storico come Zorobabele.
Ma, prima di identificare il personaggio, bisognerebbe capire la sua fisionomia, il tipo di missione che gli viene affidato. Per certi aspetti, il “servo di Jahvè” presenta alcune caratteristiche regali: deve esercitare un potere che è anche universale; ma le sue caratteristiche sono principalmente profetiche, perché deve annunziare la parola di Dio, e per questo compito subisce derisione e persecuzione, che il servo accoglie in prospettiva positiva, come strumento di intercessione per i peccatori.
Ecco un aspetto importante: il servo è uno che intercede, cioè cerca di ottenere la salvezza di tutto il popolo, attraverso la sua preghiera, la sua persona e in particolare la sua sofferenza. Per capire meglio ciò che significa intercessione, non posso non citare Carlo Maria Martini. Così scrive: «Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Non si tratta quindi solo di articolare un bisogno davanti a Dio (Signore, dacci la pace!), stando al riparo. Si tratta di mettersi in mezzo. Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Cosi facendo, saremmo ancora nel campo della politica e delle sue poche risorse. Chi si comporta in questo modo rimane estraneo al conflitto, se ne può andare in qualunque momento, magari lamentando di non essere stato ascoltato. Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso. Intercedere è stare là, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione».
Tenendo anche presente ciò che ha detto Martini, il Servo di Jahvè assume delle caratteristiche che lo avvicinano a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, anzi Gesù e il Nuovo Testamento hanno interpretato la missione del Signore alla luce di questi canti. In particolare, nella passione di Cristo possiamo notare tutta una serie di riferimenti impliciti ai canti del servo, soprattutto al quarto canto.
Scusate questa lunga parentesi, che potrebbe sembrare fuori tema. Ma mi è sembrato doveroso non solo fare un po’ di catechesi biblica, ma soprattutto inquadrare il brano della Messa, che viene subito dopo il Quarto Canto del Servo di Jahvè, che occupa il capitolo 53. Dopo la descrizione, molto realistica, perfino urtante, del Servo che soffre, ecco una pagina di tonalità gioiosa, con imperativi festosi: «Esulta… prorompi in grida di giubilo e di gioia… non temere… non vergognarti…». Perché tutto questo invito a gioire? L’autore ricorre a un simbolo caro alla spiritualità profetica: quello del rapporto tra Dio e Israele raffigurato attraverso il segno dell’amore nuziale. Dopo la triste pausa del tradimento idolatrico del popolo infedele (notate: idolatria sta per tradimento dell’Alleanza!) e dopo il periodo breve della collera divina, in cui Dio ha tenuto nascosto il suo volto, ecco che si riaffaccia l’”eterno amore” del Signore che non ha ripudiato per sempre Israele, sua sposa amata, nonostante i suoi adulteri, ma la ricerca con passione per ricostruire il legame dell’Alleanza infranta e renderla ancora feconda, donandole un futuro di gloria e di pace.
Letto così, il primo brano ci apre alla speranza.
Il brano del Vangelo ci presenta la parabola del fariseo e del pubblicano, così stranota da creare qualche problema quando la si vuole commentare. Sembra quasi di essere ostaggio di un cliché, da cui uscirne appare dissacrante.
La cosa più grave sta nell’aver contrapposto due categorie, da una parte quella dei pubblici peccatori e dall’altra quella dei cosiddetti giusti, invertendo però l’intenzione di Cristo. E non ci si è accorti di essere caduti nel più grosso equivoco, coperto per di più da una ipocrisia, ovvero da una maschera blasfema. Ecco il vero peccato, condannato da Cristo.
Per essere chiaro. Con la nostra ipocrisia, ci siamo messi dalla parte dei “giusti”, ovvero dei peccatori, condannando i “peccatori”, ovvero i giusti. Questo è successo perché abbiamo frainteso il pensiero di Cristo, il quale non ha identificato il male o il bene in una categoria sociale o religiosa, ma ha colto il vero problema, che sta nel cuore dell’essere umano, indipendentemente dalla sua religione o dalla sua condizione razziale, culturale, sociale e socio-politica.
Certo, Cristo, nella parabola, ha preso come modello di ipocrisia un fariseo, e come modello di ravvedimento un pubblicano, senza tuttavia proporre un terzo modello, ovvero il giusto. Semplicemente perché sulla terra non esiste il giusto in sé.  Non esiste, cioè, la categoria dei giusti. Basterebbe leggere alcuni Salmi per rendercene conto.
Cristo, con la parabola, ha voluto insegnarci una cosa molto chiara: il male è innato nel cuore di ciascuno, ma attenzione: è possibile nasconderlo, proteggerlo, giustificarlo, facendone una maschera, e la maschera si chiama ipocrisia. Non dimentichiamo che gli attori greci, quando recitavano in teatro, mettevano una maschera sul volto, per rappresentare più personaggi. Erano chiamati, perciò, ipocriti. Da qui, la parola ipocrisia è passata a indicare l’inganno, la doppia faccia.
Cristo, dunque, come era solito fare, ha inteso denunciare l’ipocrisia, ovvero la doppia faccia, e quando l’ipocrisia si è identificata in modo particolare in una categoria, pensate agli scribi e ai farisei, allora Gesù si scagliava contro la maschera religiosa, senza tuttavia sparare nel mucchio.
Combattere l’ipocrisia del singolo può essere facile, anche se può avere conseguenze tragiche per chi la combatte, ma contestare l’ipocrisia che si è fatta categoria sociale o religiosa è molto più difficile, perché si va contro un sistema protettivo, toccando il quale è come toccare i fili della corrente.
È chiaro che non basta combattere l’ipocrisia-sistema, perché il sistema vive di persone, e le persone sono portate ad essere ipocrite.
Il vero peccato, dunque, sta, secondo il pensiero di Cristo, nel contrapporre tra loro il bene e il male, come se fossero due categorie distinte e separate. Cristo ha detto: ciò che va valutato è l’atteggiamento del singolo. E l’atteggiamento, prima mentale e poi pratico, non può essere diviso in categorie. Ma, aggiungo, l’atteggiamento del singolo può essere fortemente condizionato dalle strutture, sociali, politiche e religiose. Tra queste, la più pericolosa, è senz’altro la religione, perché dà la presunzione di essere più santi degli altri.
Ma, aggiungo ancora, non basta mettersi contro la religione, per sentirsi automaticamente a posto con la propria coscienza. L’ipocrisia moderna sta nel credersi giusti, semplicemente perché ci si mette contro l’ipocrisia-sistema, l’ipocrisia-partito, l’ipocrisia-religione. Non basta mettersi contro. Dobbiamo togliere la maschera che copre il nostro essere.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*