15 aprile 2018: TERZA DI PASQUA
At 16,22-34; Col 1,24-29; Gv 14,1-11a
“Atti degli Apostoli”
Nel periodo pasquale, che va dal giorno di Pasqua fino alla Pentecoste esclusa, la Liturgia della Messa offre ai fedeli come primo brano una pagina, breve e talora più lunga, che fa parte del libro “Atti degli Apostoli”, scritto da Luca, autore anche del terzo Vangelo.
Ancora oggi questo libro, che, nell’elenco canonico dei testi del Nuovo Testamento, viene subito dopo il Vangelo di Giovanni, è poco conosciuto da parte anche dei cristiani più praticanti. E, a parte i brani offerti dalla Liturgia in questo periodo pasquale, non so quanti l’abbiano letto per intero.
Già il titolo “Atti” non aiuta a cogliere l’intento di Luca che, oltre a raccontare alcuni eventi relativi soprattutto ai due personaggi, Pietro e Paolo, ha voluto mettere in evidenza l’azione invisibile ma reale dello Spirito Santo, che attraversa la nascita e la crescita delle prime comunità cristiane.
“Atti”, ovvero fatti strepitosi o prodigi divini, ma anche peccati, tradimenti, persecuzioni, morti violente.
Non solo la parola “atti”, ma la specifica “degli apostoli” può essere fuorviante, come se Luca avesse scritto le imprese solo di alcuni apostoli all’inizio del cristianesimo. Niente di più falso. Casomai, gli apostoli non sempre fanno belle figure: litigano, manifestano le loro debolezze, le loro miserie amane.
Un altro titolo?
Forse bisognava inventare un altro titolo, ad esempio: “La misteriosa azione dello Spirito santo nel cristianesimo delle origini”. In realtà, anche un titolo così non sarebbe ancora esauriente: lo Spirito santo è sì il vero e unico protagonista, diciamo l’occulto regista dello sviluppo del cristianesimo, non indipendentemente, ma attraverso l’agire “peccaminoso”, anche nel senso di “difettosità”, di “manchevolezza”, da parte dei primi apostoli, dei primi missionari e del comune popolo di Dio.
Attenzione, dunque: Luca, nel suo libro, non racconta con enfasi le meraviglie compiute dagli apostoli; o, diciamo, non presenta gli apostoli come eroi, o santoni. Luca narra le difficoltà e i difetti già presenti nelle prime comunità cristiane e, nello stesso tempo, vuole descrivere l’azione dello Spirito santo che, nonostante le righe storte, scrive qualcosa di straordinario.
Non è, dunque, la capacità o bravura degli apostoli o le doti personali dei primi capi della Chiesa nascente a governare il cristianesimo, ma la loro fede nel Cristo risorto o, meglio, la loro fede nell’agire dello Spirito santo.
Quando dico Cristo risorto o Cristo della fede e parlo di Spirito santo, non parlo di due realtà diverse: o, meglio, non parlo di due realtà da distinguere l’una dall’altra. Ricordo che Cristo, mentre moriva sulla croce, ci ha donato il “suo” Spirito. Sottolineo: il “suo” Spirito.
Ho ritenuto opportuno fare questa lunga premessa, non solo per inquadrare il primo brano della Messa di oggi, ma anche tutti gli altri brani che la Liturgia ci presenterà in questo periodo pasquale.
“… completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo”
Passiamo al secondo brano della Messa. L’apostolo Paolo, nella lettera ai cristiani di Colosse, città dell’Asia Minore, non molto lontana da Efeso, tra altre cose interessanti scrive: «… sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa».
Su queste poche righe sono stati scritti commenti a non finire. Una cosa sembra chiara: Gesù di Nazaret, dunque il Cristo storico, pur patendo indicibili sofferenze anche fisiche (basta leggere i racconti evangelici della passione), non ha preso su di sé tutta la sofferenza del mondo. Anzi, dico di più: c’è stato, c’è e ci sarà sempre anche un solo essere umano che più di lui ha patito, patisce e patirà sofferenze disumane.
Dico di più. La cosa più assurda è che la Chiesa stessa, pensate ai periodi della Inquisizione, ha fatto patire agli innocenti sofferenze ben più atroci di quelle patite da Cristo.
Ad ogni modo, l’apostolo Paolo forse intendeva dire: quando soffro, non solo partecipo della sofferenza patita da Cristo, ma aggiungo “qualcosa” che è mancato alla sofferenza di Cristo, nel senso che questo qualcosa di aggiunto contribuisce alla salvezza ulteriore del mondo.
Secondo la concezione di Paolo, Cristo ci ha redento con la sua morte di croce. O, meglio, Cristo ci ha riscattato con la sua morte. Una concezione forse da rivedere e da superare in parte, anche perché la Chiesa ci ha marciato bene su questo concetto di una sofferenza redentiva.
Non mi dilungo. Dico solo che ogni sofferenza, anche fisica, è positiva, quando contribuisce al cosiddetto bene comune. Nessuno, sarebbe una assurdità!, chiede al Signore una malattia, o un tumore, ma a ognuno di noi è richiesto di “sacrificare”, nel senso positivo, tempo, energie e altro perché si raggiunga, tutti insieme, quel ben-essere che è la fonte della vera beatitudine.
Sacrificare comporta, anzitutto, rinunciare a qualcosa di quel falso ben-essere, che è in realtà un ben-avere, che è la vera fonte del male individuale e sociale, e che produce il vero mal-essere. .
“Io sono la via, la verità e la vita”
Una brevissima riflessione sul Vangelo di oggi, in particolare sulle parole di Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Non mi stancherò mai di far notare che queste parole le ha dette non tanto Gesù di Nazaret, quanto il Cristo risorto, il Cristo della fede o il Cristo mistico. In altre parole, è lo Spirito di Cristo a ripetere ancora oggi: “Io sono la via, la verità e la vita”.
La via, la verità e la vita non è la Chiesa di Cristo. E ogniqualvolta essa si è presa il diritto di auto-presentarsi come via, verità e vita ha sempre commesso enormi sbagli, portando l’umanità fuori strada.
È lo Spirito santo la via, la verità e la vita. E lo Spirito, come ha detto Gesù Cristo a Nicodemo: «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va».
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