Razza, etnia e nazione, grande è la confusione sotto il cielo

Razza, etnia e nazione,

grande è la confusione sotto il cielo

di ALESSANDRO TROCINO
Se il ministro Francesco Lollobrigida sfoglia la Treccani per rispolverare l’amato concetto di etnia, ci si perdonerà se ci siamo permessi di estrarre dalla biblioteca il Dizionario di politica diretto da Norberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino per provare a capire meglio di che si tratta quando si parla di etnia.
La voce «etnia» è stata scritta da Lucio Levi, già docente di Scienza politica a Torino e a lungo presidente del Movimento federalista europeo. Partiamo dalla definizione: «Etnia è un gruppo sociale, la cui identità è definita dalla comunanza della lingua e della cultura, delle tradizioni e delle memorie storiche e del territorio». Per i cultori della materia, il termine fu usato la prima volta nel 1896 nel libro Les sélections sociales di Vacher de Lapouge, antropologo sociale, favorevole all’eugenetica e convinto che il destino del mondo dipendesse dalla vittoria degli ariani sugli ebrei.
De Lapouge a parte, Levi tiene prima di tutto a demolire il concetto di razza, negando che si possa distinguere un determinato gruppo sulla base di caratteri biologici: questi, trasmessi per via ereditaria, «confluiscono gradualmente nei gruppi contigui» e insomma si mischiano, si confondono, si modificano continuamente. L’evoluzione biologica dipende da molti fattori di natura storico-sociale. Di più, non c’è un rapporto diretto tra i caratteri biologici e quelli psicologici e per questo il concetto di razza è fuorviante e pericoloso.
Detto questo, Levi tiene a distinguere l’etnia dalla nazione. Esistono nazioni che hanno al loro interno molti gruppi etnici. Prendiamo la Francia: lì ci sono francesi, bretoni, baschi, alsaziani, corsi, occitani, catalani, fiamminghi. «Non esistono Stati — scrive Levi — i cui confini coincidono con quelli di un gruppo etnico: ciò prova l’arbitrarietà della pseudo teoria dei “caratteri nazionali”, la quale postula l’esistenza di un’affinità etnica tra i membri degli Stati nazionali, che distinguerebbe gli Italiani o i Francesi dal resto dell’umanità». Teoria che ha la funzione, dice lo studioso, di «dare un fondamento alla leggenda delle origini delle nazioni, secondo le quali le nazioni precedono lo Stato». È vero il contrario e cioè che è lo Stato a creare le nazioni. Le caratteristiche dell’etnia non dipendono dalle forme dell’organizzazione politica dello Stato. La nazione è invece «l’ideologia dello Stato burocratico e accentrato, che ha bisogno di uno Stato per mantenersi».
Concetto scivoloso, dunque, quello dell’etnia, da maneggiare con cura. Come quello della denatalità. Proviamo a capire cosa intende il ministro con i suoi continui riferimenti a sostituzione etnica ed etnia. Uscendo dal gorgo fatale delle parole «razza», «etnia» e «nazione», quel che si capisce è che Lollobrigida è preoccupato per la perdita di peso e di centralità dell’«italianità», cioè della «nostra identità culturale». Si tratta di difendere «con orgoglio la cultura italiana, il ceppo linguistico, il modo di vivere». E dice queste cose al convegno cattolico sulla (scarsa) «natalità». Che è un problema evidente e grave: lo scorso anno le nascite sono state solo 392 mila, contro 713 mila morti. Gli scompensi demografici avranno un impatto importante sul nostro sistema pensionistico e sociale. Come rimediare a questi numeri disastrosi? Facendo più figli, è la tesi dei convegnisti.
Ma Lollobrigida aggiunge un’altra frase significativa. Spiega che «esiste una cultura, un’etnia italiana, che immagino che in questo convegno si tenda a tutelare. Perché sennò non avrebbe senso». Dunque, la natalità servirebbe innanzitutto a preservare l’etnia italiana. Chiarisce ulteriormente il ministro: «La popolazione del mondo cresce e tanti di quelli che nascono nel mondo vorrebbero venire a vivere in Italia. E allora perché preoccuparsi delle nascite in Italia? Se la risposta è incrementare la natalità, è probabilmente per ragioni legate alla difesa di quell’appartenenza, a cui molti sono legati, io in particolare con orgoglio, a quella che è la cultura italiana, al nostro ceppo linguistico, al nostro modo di vivere».
Dunque, bisogna dare più figli alla Patria, alla Nazione, come ripete Giorgia Meloni. Servono bambini di etnia italiana, acquisita biologicamente, attraverso una discendenza ereditaria. Le preoccupazioni demografiche, in questa logica, non sono quindi più legate a questioni economiche, ma identitarie. E qui si torna al concetto di «sostituzione etnica» già evocato dal ministro (e in passato da Meloni), che ha detto di ignorare l’origine dell’espressione, usata volentieri dai suprematisti neonazisti e dai cospiratori del piano Kalergi.
Il ministro è preoccupato dal venir meno della nostra identità. E la sua preoccupazione non va ridicolizzata o derubricata a rigurgito del Ventennio. Perché tutti noi che viviamo in questa comunità, contrassegnata dallo Stato e dalle sue leggi (in primis, la Costituzione), siamo orgogliosi della nostra storia (non di tutta, del fascismo, per esempio, non siamo orgogliosi) e dei nostri valori. Che sono valori stratificati e condivisi da gran parte dell’Occidente, a cominciare dall’Europa. Siamo fieri delle nostre libertà acquisite: di espressione, di associazione, di religione. Della divisione tra Stato e Chiesa. Della divisione dei poteri. Delle garanzie giuridiche. Delle tutele dell’individuo di fronte allo Stato. Dell’abolizione della pena di morte. Del welfare. Dei diritti civili che abbiamo conquistato.
Siamo fieri, ma non al punto da non riconoscere i principi e i valori del resto del mondo. Non al punto da considerare l’identità culturale ed etica (per usare un’altra parola scivolosa) come un dato acquisito, immobile e appartenente a un solo gruppo «etnico». L’identità non è definita una volta per tutte e soprattutto non si acquisisce per sangue (qui entrerebbe in gioco più che l’etnia, la razza). La definisce ed elabora una comunità attraverso i comportamenti e le leggi.
Le collettività, e le etnie, si sono formate attraverso continui rimescolamenti di popoli. La storia è una centrifuga. Quello che dovrebbe fare una comunità fiera dei suoi principi è accogliere e integrare nel miglior modo possibile gli immigrati, in modo da farne non solo forza lavoro ma nerbo di quella nazione fluida e in continua evoluzione che siamo, piaccia o non piaccia. Non frenarne l’arrivo con blocchi navali e squalifiche etniche, ma fare in modo che entrino a far parte a pieno titolo della comunità che abita il territorio nel quale arrivano. Fare in modo che aderiscano al contratto sociale che ci lega e che lo rispettino e lo onorino. Altrimenti l’italianità diventa un dato metastorico, un baluardo identitario etnico da brandire contro lo straniero, un portato quasi sacrale della storia, immutabile e inevitabilmente nostalgico e reazionario.

1 Commento

  1. Giuseppe ha detto:

    Condivido in pieno

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