VERSO UNA NUOVA COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE: Al Dio ignoto/6

base3 - Copia

 

di don Giorgio De Capitani

Tutti lo vedono. Tutti quanti lo constatiamo. Più il tempo passa, più ci sembra di diventare degli alieni, fuori di sé, altri da Noi, chiusi paradossalmente nel proprio ego, che è l’involucro di quel Sé che è l’intima unione col divino. Impariamo a distinguere il Sé dall’Ego. Forse per questo, perché li confondiamo, non riusciamo più a capire chi realmente siamo. Siamo o non siamo? E così siamo diventati estranei a noi stessi, ma crediamo di essere noi stessi. E, allora, la coscienza che cos’è, se non il riflesso del nostro essere estranei. E, in nome della coscienza, decidiamo da estranei. Pensate alle conseguenze!

È vero: l’uomo moderno progredisce, si sente sempre più padrone dell’universo. I mezzi ci sono che possono aiutarlo. La tecnica sembra inarrestabile e ci sembra provvidenziale in quel suo offrirci una varietà di possibilità sempre più sofisticate, potenti e veloci, e alla portata di mano, da entusiasmarci fino alla nausea, da legarci ad una dipendenza psicologica ancor più schiavizzante di quella che produce qualsiasi altra droga. 

Ma… chi stiamo diventando? Robot o esseri Umani alla ricerca del proprio sé Quale sé?

Ce lo stiamo chiedendo tutti: cittadini e credenti. Quale Umanità è mai la nostra, di gente allo sballo di istituzioni civili malate e di strutture religiose che hanno perso l’anima?

Non è questa la vera domanda che deve porsi qualsiasi cittadino e qualsiasi credente che vorrebbe una Società più Umana e una Chiesa di Cristo più evangelica?

Sembra quasi che proporre, da parte di spiriti liberi, una società più giusta e una Chiesa più evangelica sia qualcosa di a-strutturale o di a-sistematico per partito preso. Non si è ancora capito che ribaltare questa società e riportare la Chiesa alle sue origini non è tanto l’accondiscendere ad una protesta di chi grida: Adesso basta! e poi si adegua, per forza di cose, a riforme solo apparenti o a qualche rinnovamento strutturale o di facciata.  

L’essere umano è uscito di sé. Siamo arrivati al punto da non essere più Noi. Torna qui il vero problema di fondo.

Basta, allora, quel “supplemento d’anima”, che il filosofo francese Henri-Louis Bergson si augurava, per bilanciare per così dire l’ingrossamento a dismisura del corpo, a causa anche di una tecnica dis-Umana?

Secondo me, ci vuole ben più di “un supplemento d’anima”. Non si tratta solo di bilanciare le proporzioni. Occorre tornare in quel Sé, che è sempre tentato, e non solo da oggi, di farsi tradito, offuscare, coprire da esigenze che non hanno nulla a che fare con l’essere. 

In occasione di un anniversario (non mi ricordo esattamente quale) della strage di Hiroshima e Nagasaki, ho sentito uno scienziato lanciare l’appello, affinché l’uomo moderno si fermasse, per aspettare l’anima rimasta indietro da anni e anni. Anche questo, secondo me, non basta. Non basta aspettare che il corpo si riprenda l’anima, rimasta indietro. Altrimenti, quando ripartiamo può succedere ancora, e succederà, che il corpo acceleri la corsa, e l’anima rimanga di nuovo indietro. Bisogna d’ora in avanti evitare che ciò possa sempre succedere, e ciò sarà possibile solo ad una condizione: che l’uomo impari, giorno dopo giorno, a conoscere Se stesso.

Ma ciò sarà possibile, fino a quando noi moderni viviamo da alieni, per il semplice fatto che è di nostro gradimento vivere fuori di noi, condizionati tra l’altro da un sistema ideologico e pragmatistico che noi stessi, comunque, favoriamo? Come romperne il cerchio? Come uscire da questo mondo? Andare forse nel deserto, e qui riflettere su noi stessi, nel silenzio dell’”essere” e lontani dai rumori assordanti della società alienata e alienante?

Oggi, chi sono i veri vincenti? Gli eremiti o coloro che si danno da fare, senza però capire che il problema non è tanto la struttura della società, quanto l’alienazione dei comuni cittadini? L’alienazione tocca tutti, anche i teologi o gli ideologi che si credono al di sopra della banalità di una società arenata nel deserto dello spirito.

È chiaro che parlare solo di “essere” non sembra convincere nessuno di quanti vorrebbero una società diversa e nemmeno quel mondo cristiano che si appella alla incarnazione del Cristo per giustificare il dovere di impegnarsi nel proprio ambiente, per cambiare qualcosa.

Ancora oggi sono attuali le accuse nei confronti degli eremiti di estraniarsi, magari “comodamente”, dal mondo. Se tutti i cristiani facessero così, il mondo che cosa diventerebbe? E la colpa di chi sarebbe? Del resto, Cristo non ha detto: “Uscite dal mondo, ritiratevi a vita privata in un eremo”, ma ha detto: “Non siate del mondo”, che è un’altra cosa. Ed è qui forse il segreto, che potrebbe aiutare a risolvere il dilemma: fuori o dentro il mondo.

Una cosa comunque va detta: gli eremiti o anacoreti, pur vivendo fuori dal mondo, sono un forte stimolo per tutti, soprattutto per coloro che vivono nel mondo e si lasciano tentare di omologarsi a questo mondo.

Pur lasciando libertà di scelta, ovvero che ognuno segua anche la strada dell’eremo, si isoli dal mondo, cerchi il ben-essere nel silenzio più assoluto e nel distacco da ogni forma di appesantimento dell’essere, ciò non deve significare che, viceversa, uno che sceglie di vivere in questo mondo debba per forza tradire la purezza del proprio essere. Si è, anche nel far parte di questo mondo. Si è, anche a contatto con l’avere. Si è, anche quando ci si sente addossati di cariche istituzionali.

Non dico che sia più comodo e più facile ritirarsi in un deserto, e qui riscoprire la propria vera identità, lontano dalle distrazioni o dallo stress di una esistenza fortemente problematica, dico solo che immergere l’essere nell’avere o incarnarlo nella realtà quotidiana, in una società che non sarà mai ideale convivenza di contemplativi del proprio essere, è una impresa molto difficile, ma non per questo del tutto impossibile.

Raimon Panikkar, che ha conosciuto personalmente Henri Le Saux e con lui ha fatto un pellegrinaggio alle sorgenti del Gange, ha scritto un saggio sul tema “Parivrajaka: la tradizione del monaco in India”, che termina con una “sfida” verso la cultura odierna, affidando al monachesimo un compito altissimo di sintesi tra la tradizione spirituale di “santa semplicità” e l’ideale moderno della “complessità armoniosa”. Mentre nel primitivo monachesimo occidentale, la convivenza delle quattro specie di monaci (i girovaghi, i sarabaiti, gli anacoreti o eremici e i cenobiti) non era per nulla pacifica, tanto è vero che San Benedetto, nella famosa “Regola del Maestro”, mentre rispetta gli eremiti e simpatizza per i cenobiti, critica con disprezzo i girovaghi e i sarabaiti (perché ambedue, pur vivendo in modo diverso, non avevano regole né superiori), al contrario il mondo spirituale dell’India, scrive Panikkar, ha permesso la coesistenza delle quattro classi. La tendenza di mettere ordine o regole è la caratteristica dell’occidente, anche a rischio di soffocare lo spirito. E questo è successo non solo nel campo monastico da parte della Chiesa, ma in qualsiasi campo sia dottrinale che morale. I movimenti che sorgevano al di fuori delle strutture e tali restavano, liberi da ogni condizionamento di potere, erano mal visti, taluni di essi vennero repressi.  

Per maggior semplicità, Panikkar riduce a due le quattro specie, e preferisce parlare di un duplice archetipo della spiritualità monacale, senza entrare a dare giudizi etici o sociologici. In particolare, si sofferma sul monaco più indipendente, libero da ogni struttura: è il monaco che viene definito «ribelle, folle, non-conformista, colui che infrange tutte le regole del gioco e aspira ad essere totalmente libero; colui che se ne ride del mondo come pure degli uomini; colui che i benpensanti tratteranno da folle e la cui caratteristica è precisamente la follia cosciente. Non è una follia finta, bensì una follia reale… La sua follia è la sua arma e la sua identità. È per questo che, invece di ritirarsi in una grotta ove dedicarsi alla meditazione, egli scende nelle pubbliche piazze, grida e gesticola, insulta e maledice, denuncia la follia della ragione e l’ipocrisia della civiltà, porta scompiglio nel “gioco” grave degli uomini. Anche l’occidente cristiano conosceva i “folli di Cristo” e i monaci girovaghi. San Paolo stesso aveva scritto su “la follia della croce” e aveva denigrato la “filosofia”. Comunque, il nostro monaco spezza tute le convenzioni. Qui il jivan-mukta (il realizzato) non è colui che ha liberato la sua anima da tutti gli attaccamenti, bensì colui che si è liberato dalla sua (propria) anima, colui che non ha più anima». Interessante l’analisi che ne fa Panikkar, per poi arrivare alla conclusione: «È qui che appare la differenza tra la cultura occidentale, soprattutto quella moderna, che mette ai margini questo monaco, e la cultura indiana tradizionale, che gli apre uno spazio ben più vasto di quello accordato un tempo in occidente al matto del villaggio. Il monaco si trova allora in una sorta di simbiosi soprattutto con il popolo, ma anche con i potenti, che vedono in lui ciò che loro stessi non sono stati in grado di realizzare… Vi è anche un monaco in ogni uomo, un essere unico (monachós) e dunque incomparabile, irriducibile a un qualunque schema? Non sarà forse che la cultura tecnocratica contemporanea, invece, dietro la facciata di una democrazia egualitaria e di un ordine suscettibile di essere dettato dagli “ordinatori”, vuole ridurci ad un comune denominatore, considerarci semplici numeri? Non sarà piuttosto che quest’archetipo monastico di cui stiamo parlando è il seme dell’unico eroismo ancora presente in ciascuno di noi? Qualunque sia la risposta che si dà a queste domande è certo che la forza di questi monaci… è una sfida costante e un esempio che continua a ispirare “los pocos sabios que en el mundo han sido”, i pochi saggi che il mondo ha annoverato (fra Luis de León)».

(6/continua)

1 Commento

  1. GIANNI ha detto:

    Come dicevo in altro commento, posteriore al periodo in cui non era possibile commentare, nel frattempo devo dire, in generale, che avevo trovato interessanti un po’ tutti gli articoli.
    Tra questi, ho trovato particolarmente interessante il presente, su cui mi ero salvato su foglio word questo commento, che posto di seguito con copia ed incolla, facendolo precedere dall’osservazione che noto un forte collegamento tra questo articolo e quello pubblicato ieri sera sulla comunità di base.
    Ecco il commento salvato all’epoca sul presente articolo:
    Rispetto alla dogmatica, alla razionalità, all’ordine gerarchico precostituito, una visione che richiama la follia come categoria interpretativa basata sulla libertà dello spirito ed anche di quell’io più profondo, connaturato con l’essenza stessa della dimensione metafisica.
    Si colgono quindi due possibili atteggiamenti, quello ossequioso e cerimonioso di chi non sfida l’ordine precostituito e si accontenta di far proprie vedute eterodirette ed imposte, e quello folle che rompe ogni schema precostituito acquisendo la libertà della ricerca autonoma.
    Sicuramente vero quanto dice Panikkar, sul ruolo assegnato al secondo nella cultura orientale, e spesso disatteso in occidente, ma non dimentichiamo precedenti famosi anche in tale contesto, tra cui L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, non a caso autore che rifiutò di assumere posizioni rigidamente dogmatiche e che anzi le criticava, non a caso considerato esponente di primo piano di quell’umanesimo cristiano, imperniato anche sull’analisi filologica del testo sacro, sotto tanti profili antesignano del contemporaneo cristianesimo radicale.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*