Anonimo vescovo per anonimi milanesi…

Anonimo vescovo per anonimi milanesi…

Non contesto mai nessuno a priori, ma solo dopo essermi reso conto di ciò che caio tizio sempronio ha detto o scritto o sta facendo o ha già fatto.
Certo, ci vuole coraggio a guardare in faccia quel tizio o ad ascoltarlo, quando da tempo conosco il suo modo di fare e di pensare, e perciò è nata in me una incallita reazione anche istintiva.
E la cosa diventa sempre più grottesca, paradossale, allucinante se si prolunga nel tempo una ostinazione diciamo diabolica del tizio preso di mira.
Qualcuno mi chiede perché mi diverta a farmi del male, perché in realtà è così: sto male, perché non mi abituo mai a convivere (siamo della stessa nazione o della stessa chiesa, in particolare della stessa diocesi) con quanti hanno delle responsabilità, ma che le fanno pesare sulla coscienza degli spiriti liberi, che per forza di cose, in tempi di grave emergenza, non possono non far sentire la loro acuta dissidenza.
Ed è proprio su questo aspetto che vorrei già soffermarmi per far capire quanto soffra nel vedere il vescovo di Milano (che chiamare “mio” mi pone qualche disagio interiore) svolgere la sua missione in modo così frammentario e superficiale da chiedermi se chi ha una responsabilità così grande non faccia mai un serio esame di coscienza. Mi sto accorgendo quanto sia difficile conciliare l’umiltà con il ruolo, eppure Cristo ha insistito nel dire che ogni carica nella Chiesa è di servizio, a servizio del regno di Dio, e non è mai fine a se stessa.
Non voglio entrare in questo argomento che mi porterebbe lontano: mi limito a fare alcune riflessioni sull’intervista, altra intervista, rilasciata da Mario Delpini al “Corriere della Sera”, che sembra avere (non saprei per quali motivi!) un particolare feeling con la curia milanese. Eccome c’è, ben visibile, troppo sfacciata!
Non mi soffermo su ogni risposta di Delpini al giornalista, tutto miele e buonista nel porre le domande.
Una premessa. A me sinceramente queste interviste annoiano, e anche mi irritano. Non vorrei neanche pensare a quelle che rilascia Papa Francesco, perché direi cose anche oscene. E tanto meno vorrei dire qualcosa sulle autobiografie, ad esempio quella recente del Papa, dove dice cose anche private (che bisognerebbe evitare per non cadere nel ridicolo), evitando però di dire la verità quando era arcivescovo di Buenos Aires, in Argentina.
Una cosa che mi ha fatto subito incazzare è quando Mario Delpini dice: «Milano è sempre in movimento…. Corre, corre, corre sempre, ma spesso non sa dove va…».
A parte il fatto che è anche un modo di dire che le città sono frenetiche, di gente sempre di corsa, in agitazione, ma, ecco la domanda: Delpini, che fa? Non lo definisco forse “una trottola”? Sempre in giro… certo non per fare compere o per fare affari, ma vuole essere là dove lo chiamano, senza porsi il problema di fare delle scelte, per non essere appunto sempre in giro. Ogni giorno ha due o tre comparse chiamiamole pastorali, ma ecco un’altra domanda: che cosa dice di “buono”? Sembra che gli interessi solo “esserci”, dando al verbo “essere” un significato carnale, eppure dire “essere” dovrebbe già invitare a una risposta: si “è” in un posto come faceva Gesù, per dire una Parola che conti, che lasci un “segno”, un “qualcosa di Divino”. A me sembra che quel “tocca e fuggi! per andare altrove, sempre altrove, sia una ossessione che prende chi si sente inferiore, e vorrebbe essere qualcuno.
Delpini accusa i milanesi di frenesia, di essere sempre di corsa, e lui che fa? Come trova il tempo per preparare i discorsi tra l’altro noiosi e senza sugo? Discorsi senza buon senso, come quelli tenuti durante le Vie Crucis zonali. Ma non basterebbero in certi casi due parole che nascono dal cuore, supposto che il cuore ci sia? Due parole che facciano riflettere. Basterebbe uno spunto, senza tanti orpelli. No, ci si incasina in riflessioni anche contorti che lasciano il pubblico non solo indifferente, ma privo della possibilità di avere un’altra occasione onde cogliere qualche seme della Grazia divina.
E poi sinceramente non capisco cosa Delpini intenda dire quando parla di mistica o di spiritualità. Alla domanda: «Perché le sta così a cuore il Soul Festival di spiritualità cominciato mercoledì e in corso a Milano fino a domenica?”, Delpini risponde: «Ci si domanda se la nostra non sia anche la città dei versi, quanti poeti ci siano, quanto sia forte la mistica, quanti pregano, quanti sanno ancora sognare e fantasticare. L’obiettivo è far emergere le risposte a queste domande. C’è bisogno di spiritualità, c’è bisogno di dare un nome a quello che sentiamo. Non esiste solo il benessere soggettivo ma anche uno sguardo più su».
Avete capito qualcosa? È vero che oggi è tornato di moda parlare di mistica e di spiritualità, magari pensando a una accozzaglia di filosofie orientali, ma per Delpini che cos’è la Mistica e che cos’è la Spiritualità? Parole vuote, o, per essere più galanti, parole che dicono e non dicono, che non scendono a toccare il fondo dell’essere umano. Non so che cosa sia il “Soul Festival di spiritualità”, ma già mettere insieme festival e spiritualità è un segno di delicatezza di un rinoceronte o di un elefante, con tutto il rispetto per i due animali, che, come dice la parola “animale”, se non altro hanno almeno un’anima.
Adesso ci si gasa parlando di mistica o di spiritualità, pur ignorandone gli elementi essenziali. Certo, c’è anche la mistica del cibo, e siamo sempre nel campo del ventre. Anche certi politici parlano di mistica, dimenticando che Raimon Panikkar aveva coniato il termine “meta-politica”, il che significa una Politica oltre, super: per essere politici dell’essere o mistici bisogna andare oltre la politica demente che oggi predomina in tutti i campi.
Certo, l’essere non è né maschio né femmina, né di destra né di sinistra, né cattolico né buddista né musulmano né ebreo, l’essere è al di fuori di ogni sesso o schema o ideologia o partito o struttura religiosa. L’essere non ha alcuna parvenza di esteriorità. Non sta in periferia. Mai, mai, mai sento dire da Delpini, neppure dal papa o da altri vescovi, e tanto meno dai preti, che bisogna rientrare in noi stessi, e che solo dentro di noi si può scoprire la scintilla dell’intelletto puro. No, si guarda alla bellezza estetica, quella delle belle forme carnali. E ci si limita a organizzare il “Soul Festival di spiritualità”: siamo ancora nella pura carnalità, che dirà sempre poco, che deluderà gli spiriti puri. “Festival della spiritualità”: oscenità già nell’accostare due parole, festival e spiritualità, che non stanno insieme.
Già era stato scioccante, quando Carlo Maria Martini aveva scritto la sua prima Lettera pastorale sulla “Dimensione contemplativa della vita”: era l’anno 1980. Un inizio, ma è stata anche la fine. Bisognava percorrere questa strada, per non trovarsi oggi nella carnalità putrefatta, e poi ci si lamenta, si discute, si fanno incontri, si tengono dotte relazioni per capire come mai il mondo è così mal dirotto. A che serve, se non si apre nel cervello almeno una fessura che aiuti a trovare la via giusta?
E si rimane sempre nel solito giro carnale di cose da fare, di strutture da far rivivere…
Ma questa Diocesi milanese, forse perché è ancora la più grande o una tra le più grandi del mondo, è anche il più “grosso animale” dal punto di vista ecclesiastico/strutturale, e perciò avrebbe bisogno di più anima, di più spirito, un plus maggiore di spiritualità e di mistica, ma quando si parla di spiritualità e di mistica, bisogna essere seri, e non fare il balengo che finge e inganna, che si aggrappa anche ai Festival (qualcuno dovrà spiegarmi il significato della parola) pur di dare una verniciatura di interiorità senza mai uscire dal mondo carnale. “Ipocriti!”, urlerebbe ancora Cristo.
Che ne sa Delpini di mistica o di spiritualità? Lo vorrei mettere alla prova, in un confronto, ma, ecco l’ultimo mio strale, egli fugge da ogni confronto con gli spiriti dissidenti, lui ama incontrare la gente, quella anonima che non sa né di me né di te, farsi circondare da collaboratori galoppini costretti a dire di sì ad ogni suo desiderio di apparire in ogni dove, in ogni buco, ad ogni angolo, e poi si lamenta che i milanesi corrono e corrono, frenetici, almeno loro forse qualcosa di concreto raggiungono, ma quando un vescovo corre e corre a vuoto, allora mi chiedo quando si accorgerà di essere del tutto inutile (non nel senso evangelico del termine).
Ma bisogna essere veramente umili per mettersi da parte, e lasciare il posto a un altro pastore, suggerito però dallo Spirito e non imposto da un papa che ama distruggere le grandi diocesi per rivalutare quelle minori, e così sentirsi sempre il maggiore senza avere rivali.
***
dal Corriere della Sera

Monsignor Delpini:

«A Milano troppe diseguaglianze.

L’eccellenza per chi può

e soltanto le briciole a chi non può»

di Venanzio Postiglione
L’incontro con l’arcivescovo sulle guglie del Duomo è il primo della serie «Milano come stai?» per raccontare la città
Sulle guglie. La Madonnina lì, a pochi metri. I grattacieli che hanno cambiato la città. La folla che passa nella piazza, senza tregua. Le montagne sullo sfondo, c’è ancora un po’ di neve. La Fabbrica del Duomo sempre aperta, un’attività continua che sembra la metafora di Milano.
Monsignor Mario Delpini, classe 1951, è arcivescovo da quasi sette anni. Nel discorso di Sant’Ambrogio ha detto che «il coraggio uno se lo può dare». Un rimprovero a don Abbondio (che se lo merita) e ai suoi numerosi fan, ma anche un concetto che è perfetto per il momento della città: «Per una pratica della fiducia». L’incontro con Delpini sulle guglie è il primo della serie “Milano come stai?”, con i video sul web e i colloqui sulla carta: nei luoghi dove l’intervistato si sente a casa, alla ricerca di voci. E di idee. Una metropoli è viva se discute e si divide. Con coraggio: appunto.
Monsignor Delpini, come sta Milano?
«Milano è sempre in movimento. Gente che viene, gente che va, gente che resta, gente che arriva da lontano. Tu prendi un’istantanea e, quando l’hai scattata, la scena è già cambiata. È la sua forza ma forse anche la sua fragilità».
Avverte un malessere della città? E quale?
«Corre, corre, corre sempre, ma spesso non sa dove va. Decidere la meta fa parte della nostra sapienza, il sogno è costruire un umanesimo riconciliato tra le persone, con la Terra, ripartire dal desiderio di avere bambini. Che vuol dire fiducia nel futuro».
Da qui, dalle guglie del Duomo, che effetto le fa la metropoli?
«Da qui Milano è bellissima. Si vede la distesa di case e subito ci colpiscono i nuovi grattacieli, un po’ vanitosi, devo dire, più preoccupati di apparire originali che interessanti. Gli stessi palazzi antichi sembrano più vetrine che case da abitare: ma chi ci vive? Cosa pensa?»
E le montagne?
«Lo scenario che preferisco. Non la città a perdita d’occhio, come quelle metropoli infinite che generano smarrimento, ma l’idea di un confine, di un posto vero e reale».
Ormai Milano con il cuore in mano sembra un luogo comune. Una frase antica e superata.
«E invece è ancora così».
Perché?
«Non finisco mai di stupirmi del bene che nasce a Milano, di quanta gente faccia volontariato, di quante persone siano sempre pronte ad aiutare gli altri».
E meno male…
«Sì. La povertà e l’emarginazione ci sono, ma abbiamo anche tante buone risposte. Io dico che Milano ha sempre il cuore in mano. È ancora vero».
Lei incontra molti giovani: cosa le dicono?
«Non li vedo tutti, come vorrei, ma tanti. Per fortuna c’è spesso un motivo per farlo. La verità? Non ho mai incontrato una persona che non fosse interessante. Il punto è avere il tempo di fermarsi. Non si immagina neppure quanta poesia, quanta mistica, quanta musica portino con sé le ragazze e i ragazzi».
È uno dei pochi che parla bene dei giovani. I miei complimenti.
«Sono come Ferrari che potrebbero correre a velocità fortissima, con potenzialità straordinarie, ma costrette a girare in un antico borgo o in un labirinto, con la massima cautela, senza conoscere la direzione da seguire. È come se li avessimo tutti parcheggiati da qualche parte».
Qual è la cosa che le piace di più di Milano?
«La gente».
E quello che le piace meno? Il vero problema?
«La diseguaglianza, le diseguaglianze, nella città. Qui si offre l’eccellenza a chi può e le briciole a chi non può. Differenze così grandi portano disagio. E mancanza di speranza. Poi aggiungo la fretta, che non consente di godersi la bellezza, in tutte le sue sfumature e in tutte le sue accezioni».
La città delle opportunità, la città inclusiva che è nella testa (e nel cuore) dell’Italia da sempre, è diventata esclusiva?
«Milano… mi sembra che accoglie tutti ma non ama nessuno. Tanti servizi ma non tanta compagnia. Dà l’idea che ti puoi rendere utile ma poi non sempre ti ringrazia. Non è affettuosa come potrebbe».
E come sta la Chiesa ambrosiana?
«Appare un po’ come le madri di famiglia sempre occupate, che corrono, sono a disposizione, fanno anche volontariato, ma qualche volta si fermano con malinconia e si domandano: ho ancora un marito? Come se trascurassero sé stesse. Ecco. La Chiesa di Milano è tanto indaffarata ma non sempre aspetta il suo Signore».
Cosa suggerisce ai sacerdoti nelle periferie?
«Contesto il termine periferie, è un concetto negativo. Parliamo di quartieri. Ai sacerdoti suggerisco le stesse cose, dal centro alle zone più lontane: presenti tra la gente, punto di rifermento, come quelle chiese sempre con la porta aperta. Bussare e subito entrare. Vorrei trasmettessero parole che aiutino a sperare».
Perché le sta così a cuore il Soul Festival di spiritualità cominciato mercoledì e in corso a Milano fino a domenica?
«Ci si domanda se la nostra non sia anche la città dei versi, quanti poeti ci siano, quanto sia forte la mistica, quanti pregano, quanti sanno ancora sognare e fantasticare. L’obiettivo è far emergere le risposte a queste domande. C’è bisogno di spiritualità, c’è bisogno di dare un nome a quello che sentiamo. Non esiste solo il benessere soggettivo ma anche uno sguardo più su».
Torniamo alle diseguaglianze. Cosa si può fare?
«Vedo due percorsi irrinunciabili. Il primo è una politica lungimirante, una visione complessiva della città. Il secondo è il buon vicinato, parlo di rapporti spiccioli, quotidiani, così come del senso di comunità, dove nessuno è abbandonato ai suoi problemi».
La Madonnina è ancora il simbolo della città?
«Il Duomo stesso è l’immagine di Milano. La Madonnina è qui sulle guglie, più su di tutto, come un perenne invito a guardare in alto, come una raccomandazione alla città: non si può soltanto vendere e comprare. Bisogna cercare il senso. E i motivi per sperare».

 

3 Commenti

  1. luigi ha detto:

    Ha ragione don Giorgio a definire “anonimi” vescovo e diocesani milanesi per quello che riguarda la mistica in particolare uscita dalla bocca del vescovo. Bastano queste parole di una grande mistico come Origene:
    “diventa ed è un Anticristo ogni uomo che non è passato per la morte dell’anima e per la rinascita dello spirito”.
    Origene non dà dell’Anticristo ad ogni uomo che non cambia mentalità (metanoeite sulla quale insiste don Giorgio) togliendogli la caratteristica di personaggio reale? Non gli fa assumere il significato simbolico della contraffazione della verità?
    Non ha ragione Marco Vannini nel definire anticristi gli esseri umani che mentono?
    Non ci sono anticristi nelle parrocchie in Brianza o nella chiesa milanese?
    Non è grazie all’anonimato del vescovo e dei preti? La mistica menzognera non è quella delle visionarie e dei visionari a livello nazionale?
    Non lo sono nella politica Salvini e Meloni (soy cristiana) che si professano tali?
    E Putin rieletto e benedetto da Kyrill?
    Mi fermo qui. Penso che basti per una seria riflessione in questo tempo quaresimale anche per chi come me è sempre alla ricerca di quell’anima smarrita che altro non è che lo “Spirito santo che dal Padre e dal Figlio discende sempre a dare la forza per fare nuove in noi tutte le cose e pentecoste vivente la chiesa” (Turoldo)

  2. Martina ha detto:

    Ascoltando il Vescovo mi chiedo sempre: come posso credergli? Come posso credere a un vescovo che lascia un suo prete solo, con provvedimenti che durano da più di 10 anni, isolato e condannato? Ognuno ha le sue colpe, certamente, ma ciò non giustifica certi atteggiamenti da parte di un vescovo che dovrebbe invece dare il buon esempio.
    Non mi interessa se don Giorgio in qualche occasione dice parolacce, non mi interessa, perché don Giorgio vuole bene e vive per il Bene.
    Solo, sta aprendo da anni una strada e che adesso ci si riempia la bocca di parole come mistica e spiritualità, fa sorridere.
    Probabilmente c’è proprio bisogno di salire in alto, sulle guglie del Duomo, per sentirsi qualcuno perché stando tra la gente l’ego non è appagato.
    Mi sembra che il vescovo Mario conosca Milano quanto conosca don Giorgio, ovvero poco e niente. Solo in superficie.
    Quelle persone maledette dalla società, dalla Chiesa, sono quelle in cui Dio è più presente.
    Ho pienamente fiducia in don Giorgio perché so che tutto è trasparente in lui e non mette maschere, e forse è proprio questo il punto: si amano gli ipocriti perché viviamo nella ipocrisia totale di una società che ama solo ingannare e auto-ingannarsi.
    Umilmente, ci si mette in ascolto della verità e si tende a essa e so che con don Giorgio posso ascoltarla e comprenderla.
    Questo spirito critico non è incasellabile.
    Ho trovate queste parole che vengono attribuite a Platone:
    “Coloro che sono capaci di vedere oltre le ombre e le bugie della propria cultura non saranno mai capiti, tanto meno creduti, dalle masse.”

    • simone ha detto:

      Ormai penso quotidianamente che tutti questi titoli non servono proprio a nulla. Se una persona non è padre nella carne non può essere chiamata padre. Così vale anche per il Vescovo che anzitutto dovrebbe essere padre ed esempio nel cammino di fede. Io non trovo nulla in questo Vescovo che ama tanto essere presente, in vista, chiacchierare, sapere sempre tutto e avere una soluzione pronta per tutto ma non aiuta a crescere. Un pò come i preti ambrosiani che amano correre, faticare, riempire di parole le omelie ma spesso non hanno tempo per pensare e ascoltare. Ma soprattutto non hanno la LIBERTA’ per seguire Dio. Castrati e incatenati nel loro ministero. Perchè, lo ripeteva sempre il card. Scola, conta anzitutto l’obbedienza ma non allo Spirito ma al Vescovo. Questo è il problema di comunità spesso bastonate da preti depressi e frustrati che non hanno nemmeno più la forza di alzare il capo verso Dio. Così, anche le pecorelle imparano dal pastore, e pure loro iniziano a bastonarsi a vicenda creando quel popolo pessimista, criticone e triste che popola abitudinariamente le nostre chiese. Gente che si sente amata da Dio per quello che fa e non per il fatto di essere figli. Gente che rivendica i propri meriti, la propria superiorità e perfezione nella fede e rispetto ai fratelli.
      Delpini inizi a pensare alle sue parrocchie, ai suoi fedeli che vengono in veste di agnelli ma sono lupi rapaci. Poi potrà parlare di Milano…ma prima risolva i troppi problemi della sua diocesi. Il primo problema è lui…ed è anche il più grosso.
      Ripiegato ad un passato che non tornerà ed incapace di immaginare un futuro e un cammino nuovo…per questo vivono preoccupati di difendere quello che hanno già perduto.

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