VERSO UNA NUOVA COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE: Al Dio ignoto/3

 

di don Giorgio De Capitani

Potrei anche perdermi nei meandri della ricerca di Dio, ma preferisco correre questo rischio, piuttosto che accontentarmi di una religione, che impone le sue strade, pur di garantire la conoscenza di un dio, che è lì davanti a noi come una statua immobile. Sì, davanti, sempre davanti, perché la strada che ci separa è lunga, sempre lunga: il dio-idolo è sempre irraggiungibile, per paura che qualcuno, avvicinandosi troppo e toccandolo, scopra poi l’inganno.

Ed ecco che la religione ai più dotti parla di ascetica, di mistica, di maturità di fede, di dogmi, e al popolino chiede solo di praticare assiduamente la fede, di obbedire pedissequamente alle tradizioni, di vivere ciecamente secondo le regole del gioco. In palio, c’è il paradiso. Meglio non sbagliare. Perché rischiare?

La ricerca del Dio Assoluto non vuole regole, non sopporta vie già battute. Certamente, anch’io faccio tesoro dei grandi maestri del passato, ma senza doverli imitare per filo e per segno. Leggo anch’io libri e articoli che ritengo interessanti, che stimolano la mia ricerca, che aprono orizzonti nuovi. La mia gioia sta nel venire a conoscenza che già altri sono usciti dalla prigione, hanno aperto porte e finestre di casa, ma poi lascio al mio spirito di poter spaziare in tutta libertà. Colgo negli spiriti liberi intuizioni profonde, ma poi mi prendo la responsabilità di andare oltre. La ricerca di Dio continua ininterrottamente, su strade sempre nuove, anche se ognuna di esse parte da lontano. Ognuno ha il diritto e il dovere di sperimentare il Divino.

Una cosa so con certezza, ovvero che più scendo nel profondo del mio essere, più scopro il Divino. Non è del tutto vero che siamo esseri finiti, limitati. Parlo dell’essere, non dell’involucro che è la nostra crosta esistenziale su questa terra. È chiaro che ogni giorno tocchiamo la realtà, in tutte le sue precarietà terrene. Ci sentiamo stretti da condizionamenti che ci opprimono, anche se preferiamo non pensarci, anche se impariamo l’arte di accettarci per quello che “apparentemente” siamo, per non crearci ulteriori problemi. Ci prendiamo, se possiamo, il nostro angolino di sopravvivenza, e qui risediamo, mettendoci qualche radice, per sentirci più garantiti nei nostri diritti di possesso. E vegetiamo, in superficie.

Ma “siamo”, ben più di ciò che sembra costituire la nostra reale esistenza. “Siamo”, e non lo sappiamo. Ci sfugge il nostro “essere”. Siamo “fuori” del nostro essere. L’esteriorità è ancora la caratteristica generale del genere umano. E non basta parlare di banalità del nostro vivere, perché in tal modo preferiamo sentirci fuori da tale banalità che ci offende, mentre in realtà dire banalità non rende ancora bene l’idea di ciò che “non” siamo.

Sembra che l’”essere” sia il perditempo dei filosofi, che, tra l’altro, ci ragionano sopra, senza venire mai a capo di qualcosa. Ma, più che dai filosofi, a cui piace distinguersi prendendo l’”essere” come un oggetto di competizione accademica, mi lascio affascinare dai mistici che, più che concedersi al filosofare, si addentrano nel cuore dell’”essere”, per sperimentarne i brividi del Divino. Non ci sono parole disponibili nel linguaggio umano per esprimere anche solo qualcosa delle esperienze cosiddette mistiche. Le parole tacciono, quando i confini tra noi e Dio si confondono, misteriosamente si uniscono. Alcuni mistici tentano di scrivere qualcosa della loro esperienza, ma poi preferiscono distruggere i loro scritti, per paura di essere fraintesi o, meglio, perché il mondo dell’”essere” non mai è afferrabile, perché è sempre soggetto a esperienze nuove.

Pensate alla difficoltà di declinare la parola “essere”, senza usare il verbo “avere”. Pensate al rischio di cadere nell’eresia di stampo cattolico, ogniqualvolta ci si avvicina a Dio, senza tenere le debite distanze. Ma se c’è una religione che ha fatto di Dio un oggetto di culto idolatrico, da usare a piacimento da parte del potere religioso, questa è la Chiesa cattolica, che si è sentita in diritto e in dovere di imporre la propria dottrina e la propria morale, in forza di una rivelazione auto-referenziale, supportata da presunte rivelazioni di visionari e da apparizioni di madonne d’ogni gusto, ma sempre comunque piangenti o tanto incazzate da minacciare guerre o altro, se l’umanità non si convertirà (naturalmente alla Chiesa cattolica) sottoponendosi a dura penitenza, come se questa vita non fosse già una quotidiana penitenza.

Perché ricorrere a presunte apparizioni del Divino tramite esseri umani, talora mentalmente fragili o psicopatici, quando Dio sceglie un’altra via, ordinaria e semplice, quella dell’essere se stesso, il che significa: Io valgo non per quello che ho, ma per quello che sono? Per avere non s’intende solo il denaro, o i beni terreni: l’avere è anche quel di più, di superfluo di potere o di cultura, di religiosità formale, di sovrastrutture dottrinali, morali e materiali, che costituiscono la struttura di una Chiesa che vive di se stessa, nascondendosi dietro la religione.

Il nostro essere se stessi, l’io sono, come direbbero i mistici più radicali, precede ogni struttura già formulata, culturalizzata, ideologizzata, sistematizzata. Tanto per chiarirci meglio: l’esperienza autentica del Divino è dentro di noi, naturaliter, ovvero per la nostra stessa natura umana, indipendentemente o precedentemente ogni formulazione religiosa. L’uomo non nasce religioso, ma sacro. La sacralità fa parte del nostro essere e non va identificata con la religiosità, che è una pallida talora traditrice espressione della sacralità.

La sapienza del Divino è radicalmente nell’Io sono, nella identità vera del mio essere umano, è antecedente ogni dogmatizzazione della religione, che vorrebbe far suo la sacralità “naturale” dell’essere umano.

Potrei citare diversi mistici a conferma di quanto sto dicendo. Mi limito a citare il pensiero di un grande monaco benedettino francese: Henri Le Saux, morto nel 1973, noto con il nome indiano Abhishiktananda (“La gioia del consacrato”), che ha contribuito molto al dialogo tra cristianesimo e induismo. Nel corso dei lunghi anni vissuti in India (ci andò per la prima volta nel 1948, aveva 38 anni, e ci rimase per tutta la vita) fece esperienza della più alta mistica indù: quella a-dualista dell’advaita vedanta. Sull’advaita vedanta, che ha ispirato anche il pensiero di Raimoin Panikkar, vorrei tornare in seguito. Sono sicuro che farete grandi scoperte, e aprirete grandi orizzonti nella vostra vita.

Qual è la rivelazione della verità più intima dell’uomo? Henri Le Saux risponde: è il suo essere. L’uomo è. Prima di qualsiasi sedimentazione e sovrastruttura sociali, storiche, culturali, religiose, ideologiche, l’uomo è. Questo è il centro del messaggio evangelico, questa è la parola di Gesù, parola che realizza l’uomo: «La buona novella portata da Gesù al mondo è che l’uomo veramente è. Senza la rivelazione del Vangelo l’uomo non avrebbe mai potuto essere sicuro che egli è. Ciò che il Vangelo aggiunge all’advaita non è innanzitutto una rivelazione su Dio, ma una rivelazione sull’uomo. Il Vangelo insegna all’uomo che egli è». In altre parole, commenta Gianfranco Bertagni, secondo Henri Le Saux non c’è una teologia nell’insegnamento di Gesù, ma una rivelazione della verità spirituale-antropologica per l’uomo. Il Vangelo non aggiunge una teologia, rispetto all’advaita. Ovvero: il Vangelo non aggiunge proprio nulla all’advaita. Rispetto a tutto questo, qualsiasi altra interpretazione è relativa, falsa nel proporsi come assoluta. Se ogni esperienza si dà nel tempo, bisogna però ritornare a un esperire fuori dalle strutture sedimentate nel tempo: «Ogni esperienza, scrive Le Saux, è già elaborata a livello della coscienza fenomenologica. Invece l’esperienza dell’advaita si trova a un grado assolutamente minimo d’elaborazione. Quanto all’esperienza trinitaria, è molto elaborata».

Ecco, questo molto attraeva Le Saux dell’advaita: la minimale elaborazione, rispetto alla quale quasi fare teologia è già dire troppo. Bisogna invece fare pulizia, tabula rasa, togliere tutto il superfluo, incarnare la “kenosis” di Cristo e farsi vuoti. (“Kenosis” è una parola greca che significa “svuotamento”: nella sua Lettera ai Filippesi, l’apostolo Paolo scrisse: «Cristo spogliò se stesso» facendo uso del verbo “kenóō”, che significa "svuotare". Un esempio celebre di “kenosis” è la Notte Oscura dell’Anima raccontata dal mistico Giovanni della Croce. Da notare infine che il concetto di “kenosis”, tanto nell’etimologia quanto nell’uso che ne viene fatto, richiama il concetto orientale di “vacuità” e, nel Buddismo, del Nirvana).

Dunque la mistica di Le Saux è un togliere, togliere, togliere. Se c’è qualcosa di determinato, di detto, di aggiunto, di sedimentato, togli: «L’opera “yogica” consiste essenzialmente nello sgomberare il terreno, nel fare il vuoto, nel ridurre, nel respingere fino ai suoi ultimi recessi l’ahamkara (l’ego) che occupa indebitamente il posto».

Ecco, liberato l’ego, l’uomo finalmente è. Solo questa è la verità cristiana, per Le Saux: Io sono. «Ognuno può testimoniare solo la propria esperienza. Io so sono una cosa: che “io sono”.

Le conseguenze di questa verità sono sorprendenti e affascinanti, e a dir poco fortemente rivoluzionarie. La struttura della Chiesa trema, come trema la teologia. E a tremare è la fede del cristiano. Come vedremo.  

(3/continua) 

 

5 Commenti

  1. GIANNI ha detto:

    Il misticismo, come esperienza diretta di una dimensione metafisica, oltrepassa tutte le interpretazioni che religioni o filosofie possono darci di tale aspetto.
    Ognuno poi può viverla diversamente rispetto ad altri mistici.
    Nulla è scontato, nulla è negato, neppure un’esperienza conforme alla visione tradizionale del cattolicesimo.
    Invece la religione, avendo a disposizione solo dei testi e delle narrazioni, non può che cercare di colmare il vuoto conoscitivo in cui si imbatte la comune esperienza umana con il proprio dogmatismo.

  2. Giuseppe ha detto:

    Mi sembra evidente che le cosiddette “religioni” orientali, come buddismo ed induismo, che tendono alla sublimazione dell’essere, hanno molto da insegnare ai nostri bravi ministri della chiesa, ancora avvinghiati alle loro regolette e alla loro dottrina a cui il credente deve attenersi più o meno pedissequamente, nella convinzione di possedere il monopolio della verità.

    • trevize ha detto:

      @Giuseppe
      Senza andare in oriente, basterebbe cercare nel periodo paleocristiano… ma come giustificare le scelte e le persecuzioni ormai scritte nella storia?

  3. linda ha detto:

    salve don, oggi non ci siamo potuti fermare a salutarla, così lo faccio ora.
    Io mi sto salvando tutti gli scritti della comunità di base, in attesa di poterne discutere!
    p.s. secondo me dovrebbe mettere sul sito in modo molto più “diretto” il link per scaricare il testo delle omelie domenicali… sono molti quelli che me lo hanno chiesto.

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