Omelie 2023 di don Giorgio: DELLA INCARNAZIONE

17 dicembre 2023: DELLA INCARNAZIONE
o della Divina Maternità della b. sempre Vergine Maria
Is 62,10-63,3b; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a
Qualcuno si sarà chiesto o si chiederà che senso possa avere questa domenica, chiamata della Incarnazione o della Divina Maternità della Beata sempre Vergine Maria.
Chiariamo. Già nei più antichi manoscritti troviamo che il rito ambrosiano, alla sesta domenica di Avvento, ha una festa mariana, la prima – e per molti secoli anche l’unica – solennità, che non intende celebrare un episodio particolare della vita della Madre di Dio, ma il grande Mistero della divina e verginale maternità di Maria santissima, celebrata nel rito romano il primo di gennaio.
Giustamente la ricorrenza si denomina “solennità del Signore”, perché il vero protagonista è il Logos eterno del Padre, che prende carne nel grembo purissimo della Vergine, aperto dal suo “fiat” al disegno di Dio, che la voleva Madre di Cristo.
La sesta domenica di Avvento precede immediatamente il Natale, e ci propone la contemplazione del Mistero che associa strettamente la Madre e il Figlio che da lei sta per nascere: una Vergine che diventa Madre pur rimanendo vergine, e un Dio che si fa uomo conservando la sua Divinità.
Essendo la festa attestata verso l’anno 434, alcuni studiosi pensano che essa sia stata voluta dai Padri del Concilio di Efeso, che si tenne nel 431, e in cui si definì solennemente il dogma della Divina maternità di Maria, chiamata quindi Teotòkos, Madre di Dio.
Il primo brano della Messa è un testo di Isaia, anonimo profeta chiamato dagli studiosi Terzo Isaia, vissuto nel periodo dopo il ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese e durante la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e negli anni successivi (dal 520 a.C. in poi)
Il testo fa parte di alcuni brani, a iniziare dal capitolo 60, che proclamano lo splendore di Gerusalemme, che il Signore riveste di luce. Così invita il profeta: «Àlzati, rivestiti di luce, poiché… la gloria del Signore risplende su di te!».
Già quell’invito ad alzarsi, a staccarsi dalla carnalità di cose che ci tengono legati alla terra, rendendoci proni, pancia a terra, in venerazione di idoli carnali, è particolarmente stimolante e doveroso per un credente che vuole rivestirsi di Luce divina, e non, come fanno gli incalliti miscredenti, farsi abbagliare dalle false luci di una società immersa nelle tenebre, e, appunto per coprire le tenebre, si fa di tutto per illuminare con luci artificiali facciate di case, negozi, strade, e anche campanili e chiese. Si tiene il proprio interiore avvolto nel buio facendo credere che la vita sia godersi, almeno in certe ricorrenze cariche di emotività, un effimero sfavillio di lucine a intermittenza per attirare maggiormente la nostra attenzione.
Che significa rivestirsi di luce? Significa lasciarsi avvolgere dalla luce dell’intelletto divino, di quello Spirito che ha fecondato il grembo verginale di Maria: non è stato un privilegio per una donna scelta da Dio ad essere Madre del Figlio: ripeto le parole di Angelus Silesius: «Devo esser Maria, e da me far nascere Dio perch’egli mi conceda beatitudine eterna».
Solo l’Intelletto divina ci mette in piedi, con la testa alta verso l’Alto, così da immergerci nel fondo di quel Pozzo divino, dove, nel totale buio del tipo carnale, c’è la Luce divina.
Passiamo al secondo brano. San Paolo, nella finale della lettera ai Filippesi, dopo alcune esortazioni, consigli pratici e raccomandazioni, invita alla gioia: “Rallegratevi nel Signore”.
L’Apostolo, che si trovava in carcere con la prospettiva di una sentenza capitale, non ha abbandonato la gioia, soprattutto nella consapevolezza che il suo sacrificio può aiutare a far crescere la fede ai credenti di Filippi.
Ed ecco l’invito: “Non angustiatevi”, che ricorda lo stesso verbo del discorso delle Beatitudini e impegna un giusto rapporto con le cose. Il cristiano di fronte alle difficoltà non può disperarsi, ma deve fidarsi di Dio Provvidenza e deve chiedere ciò che gli serve per il proprio mantenimento. E nel momento stesso che chiede, secondo lo stile ebraico, deve anche ringraziare poiché il ringraziamento è costitutivo della preghiera, indipendentemente che si faccia una richiesta e che questa sia esaudita. Se Dio non soddisfa una nostra richiesta lo fa per il nostro bene, e perciò va in ogni caso ringraziato.
Poi l’apostolo Paolo fa un elenco di valori, precisamente otto (il numero otto secondo richiamerebbe la Risurrezione), i quali sono: «quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode», e l’Apostolo conclude: «Questo sia oggetto dei vostri pensieri… e il Dio della pace sarà con voi!».
Passiamo al terzo brano. L’apostolo Paolo, invitando a rallegrarsi nel Signore che viene, non poteva non ricordare le parole dell’arcangelo Gabriele, quando, nel profondo dell’animo di Maria, la invitava alla gioia: “Rallegrati”, che finalmente la nuova traduzione della Cei ha restituito nel suo significa originale, che non era un semplice saluto, come dire “Ave”, ti saluto.
La prima parola dell’Onnipotente, trasmessa dal suo arcangelo, è in greco: “Kaire”, “gioisci”, “sii piena di gioia”, chiamando la ragazza di Nazaret non con il proprio nome, Maria, che viene sostituto con “kekaritomène”, “la piena di grazia”.
Il nostro pensiero, e i relativi sentimenti, volano nell’Infinito Pensiero di Dio, che noi purtroppo banalizziamo anche con parole che si svuotano del loro pieno significato.
Già iniziare la nostra preghiera quotidiana, nota come “Ave, Maria…”, dando alle parole quel significato mistico che l’angelo Gabriele ha trasmesso nel cuore di Maria, basterebbe a cambiare certe idee che ci siamo fatti anche sulla Madonna.
E se ha ragione Angelus Silesius, quando scrive: “Devo esser Maria, e da me far nascere Dio perch’egli mi conceda beatitudine eterna», allora non possiamo anche noi non rallegrarci e chiamarci “pienezza di grazia divina”.,
Tra noi e Dio non vi è un semplice ciao, salve, ma un rapporto, parola comunque poco adatta, tra il nostro grembo spirituale e quel purissimo Spirito che invade il nostro essere.
A noi, come è stato per Maria, tocca dire “sì” all’Unione mistica. Un “sì” non a parole, ma un “sì” impegnativo, tenendo presenti i valori elencati dall’apostolo Paolo: dobbiamo tendere, con tutte le nostre forze, a: «quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode».
Solo così “il Dio della pace sarà con noi!”.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*