Depositate le motivazioni della sentenza “Don Giorgio/Graziadei”. La “battaglia” continua… arrivederci in Corte d’Appello!

Depositate le motivazioni della sentenza

“Don Giorgio/Graziadei”.

La “battaglia” continua…

arrivederci in Corte d’Appello!

(ecco gli atti del processo)

In data 24 dicembre 2016 il Giudice del Tribunale di Lecco, Dott.ssa Nora Lisa Passoni, ha depositato le motivazioni relative alla sentenza nel processo penale nei miei confronti per la denuncia-querela della Sig.ra Grazia Graziadei.
Ho deciso di appellare la sentenza e di proseguire la mia battaglia per la tutela del diritto alla libera manifestazione del pensiero: I miei legali hanno depositato l’atto di appello il giorno 18 gennaio 2017.
Lo stesso giorno del deposito dell’atto di appello i miei avvocati hanno ricevuto la notifica dell’appello, avverso la stessa sentenza, da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Lecco.
In sostanza secondo il Pubblico Ministero, dott. Del Grosso, la sentenza del Tribunale di Lecco sarebbe errata perché avrei dovuto essere condannato, oltre che per l’articolo del 31 maggio 2011, anche per aver pubblicato il 6 ottobre 2010 sul mio sito l’articolo di Vittorio  Arrigoni.
Pubblico oltre che il testo integrale delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Lecco anche copia del mio atto di appello nonché l’atto di appello della Procura della Repubblica di Lecco.

RIFLESSIONI PERSONALI DI DON GIORGIO

Non entro nel merito del diritto di libertà di espressione/opinione, su cui con le loro arringhe i miei avvocati, Tamburini Emiliano e Rigamonti Marco, si sono magistralmente e a lungo soffermati, citando anche articoli della Costituzione italiana, sia per la parte  positiva che per quella implicita nella libertà di coscienza di ogni individuo: interventi che, pur avendo, come sembra, scosso il Giudice nella sua più che comprensibile formazione tradizionalmente in linea con gli ordinamenti giuridici italiani, non l’hanno però spinto a fare quel passo in avanti, assolvendomi per il diritto di libertà di espressione/opinione.
E neppure entro nel merito delle motivazioni per cui il Giudice per un verso mi ha assolto e per l’altro mi ha condannato: assolto per la parte che riguarda la citazione sul mio sito dell’articolo di Vittorio Arrigoni, e condannato per il successivo articolo, scritto di mio pugno dopo la tragica morte di Vittorio. Ci hanno già pensato i miei avvocati, che nella lunga e dettagliata dichiarazione per la Corte d’Appello di Milano, hanno chiaramente messo in luce le numerose incongruenze delle motivazioni della sentenza emessa nei miei confronti dal Giudice monocratico Dott.ssa Nora Lisa Passoni in data 26 ottobre 2016.
Vorrei invece fare alcune personalissime riflessioni.
Anzitutto, non posso accettare che il Giudice abbia scritto nelle motivazioni che il mio articolo (pubblicato sul mio sito gli ultimi giorni di aprile del 2011, pochi giorni dopo i funerali di Vittorio Arrigoni), contenga calunnie, offese o maledizioni del tutto “gratuite”, quasi prodotte per pura vendetta personale o altro, sganciando perciò l’articolo da ogni riferimento alla vera genesi della condanna da parte di Vittorio e da parte mia di uno scandaloso servizio giornalistico della signora Grazia Graziadei. Il Giudice ha frainteso, accettando così anche l’impressione avuta dalla stessa giornalista, il titolo del mio articolo: “Ora a noi due…”, e pensare che durante il mio interrogatorio lo avevo ben chiarito. Appare più che evidente anche davanti agli occhi di un bambino che, dopo la morte di Vittorio, eravamo rimasti solo noi due: il sottoscritto e la giornalista, tanto più che il papà di Vittorio, davanti alla salma del figlio a Bulciago, mi aveva “quasi” fatto giurare di portare avanti la battaglia per difendere l’onore di Vittorio che non c’era più.
Inoltre, il Giudice non ha voluto accettare ciò che più volte avevo sostenuto nei miei spontanei interventi in tribunale, ovvero la distinzione per me fondamentale tra la persona e il suo comportamento. Quando me la prendo per qualcosa che non va, il mio intento non è quello di colpire la persona in quanto tale, ma i suoi comportamenti, le sue prese di posizioni, le sue ideologie. Ora mi chiedo: è possibile parlare di offesa nei riguardi di un comportamento, è possibile dire che si possano offendere le ideologie, il modo di pensare o di valutare gli eventi? Se dico che una certa persona è schiava del potere, non intendo offendere la persona in quanto tale, ma il fatto che agisca in un certo modo.
Infine, non ho capito veramente il giudizio negativo da parte del Giudice sulla mia volontà di non chiudere la bocca, nemmeno di fronte alle condanne. Per me è grave quanto scrive alla fine del punto 6: “… dalle dichiarazioni più volte rese da Giorgio De Capitani nel corso del dibattimento è emerso che in estrema sintesi costui non percepisce alcun disvalore nelle sue forme espressive e, a parere di questo giudice, confonde la libertà di espressione con l’arbitrio (e financo con la violenza) verbale. Tali considerazioni inducono a ritenere che non possa formularsi una prognosi positiva in ordine alla futura astensione di don Giorgio De Capitani da fatti analoghi a quello per il quale si procede”.
Questi sì che sono giudizi perentori da farmi star male per la loro gravità lesiva della mia persona e dei miei principi.
Nessuna sentenza di condanna avrà mai l’effetto di tappare la mia bocca! Ho speso gran parte della mia vita a combattere le ingiustizie sociali e le menzogne del potere, non salvando certo dalle mie dure critiche neppure la manovalanza, responsabile secondo me di connivenza, dal momento che il potere da solo non potrebbe fare ciò che vorrebbe, se non avesse al suo fianco collaboratori ciecamente devoti e fedeli.
Non mi farò certo intimorire da una condanna che, tra l’altro, ancora una volta ha inteso mettere un bavaglio alla libertà di opinione, in nome di chissà quale principio ontologico di dignità della persona umana, astratto però, ed ecco l’equivoco, dal suo agire sociale o politico, per non parlare di quello religioso, dando così corda almeno indirettamente a quanti si aggrappano alle querele con lo scopo di minacciare o per lo meno di zittire le voci critiche.
Questo può succedere con per le persone alle prime armi, anche se mosse da tanta buona intenzione di lottare per un mondo più giusto, ma non succederà con chi, come il sottoscritto, non ha mai ritenuto importante la carriera o il quieto vivere, e per questo ha dovuto subire vessazioni ed emarginazioni.
Lei, signora Giudice, ha preso un grosso abbaglio, giudicando la mia ostinazione a non demordere come incapacità o non volontà di “capire il disvalore” del mio modo di esprimermi o di emettere giudizi implacabili, come se confondessi “la libertà di espressione con l’arbitrio…. verbale”. L’ho già detto e lo ripeto: queste espressioni sono pregiudizialmente lesive della mia persona, i cui diritti sono scritti nella Costituzione, ma prima ancora nella mia coscienza, la quale non teme condanne o querele.
Prometto che d’ora in poi, nei pochi o tanti anni che mi rimangono da vivere, mi impegnerò ancora di più a dire e a scrivere ciò che penso, fregandomene di eventuali querele, purché l’intento sia quello di onorare la verità e la giustizia, colpendo non la persona in quanto tale, ma i suoi eventuali errati comportamenti.
In un passo del Nuovo Testamento (Atti 5,29) c’è scritto: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Per me Dio è la coscienza di ciascuno, gli uomini sono le leggi imperfette o restrittive della libertà di coscienza. Non sono un anarchico, ma neppure un cieco servitore di uno Stato o di una Chiesa che, in quanto strutture, sono sempre soggetti ad una conversione, possibilmente radicale. Ma ciò sarà possibile, anche sfidando le istituzioni terrene, quando imbavagliano la libertà della coscienza nei suoi diritti inalienabili, proprio perché scritti nel profondo della caverna del cuore umano.
⇒⇒ testo integrale motivazioni sentenza tribunale lecco
⇒⇒ atto appello don giorgio e avvocati difensori
⇒⇒ atto appello procura repubblica lecco

1 Commento

  1. GIANNI ha detto:

    Dopo aver attentamente letto gli atti linkati, posso arrivare alle seguenti conclusioni.
    Solo dalla lettura di questi atti ho potuto comprendere certi aspetti.
    Intanto vengono riconfermati alcuni punti, già oggetto di precedenti commenti.
    In effetti, come pensavo, in diversa opinione rispetto all’avvocato sulle motivazioni all’epoca solo presunte ( in aula, come di consueto, era stato letto solo il dispositivo), è stato accolto il principio che una certa fattispecie, riconducibile al riportare intervento/articolo di altri, non costituisce reato, del resto conformemente alla più consolidata giurisprudenza internazionale sul tema.
    Di divero avviso la procura, che ha impugnato la sentenza.
    Sul resto dei temi ci sarebbe molto da dire, in effetti, peraltro essendo argomenti su cui ampiamente si è espressa la dottrina e la giusprudenza.
    Opportuno, quindi, anche da parte mia, un indice degli argomenti, per una migliore esposizione:
    SCRIMINANTE PUTATIVA O SCRIMINANTE REALE?
    USO DEL LINGUAGGIO CONTINENTE COME LIMITE AL DIRITTO DI ESPRESSIONE?
    SCRIMINANTE TIPICA O ATIPICA?
    ART. 21 COST. E SUE IMPLICAZIONI
    ART. 3 COSTITUZIONE E SUE IMPLICAZIONI SULLA DEPENALIZZAZIONE
    INGIURIA E NON DIFFAMAZIONE
    IL DIRITTO NATURALE E IL DIRITTO POSITIVO
    ART. 550 CPP E SUE IMPLICAZIONI PROCESSUALI

    SCRIMINANTE PUTATIVA O SCRIMINANTE REALE?
    Chiarito, quindi, un aspetto essenziale del processo, relativamente al primo articolo pubblicato, quello di Arrigoni, come appunto davo abbastanza per scontato, viene in considerazione un aspetto essenziale della vicenda.
    La presenza di una scriminante che, prima ancora che putativa, è, anzi, proprio reale.
    Come evidenzierò nel prossimo capitolo, è invalso infatti da tempo l’uso di criticare ALCUNI COMPORTAMENTI, tramite espressioni, nel linguaggio relativo a temi politici e sociali, di un certo tipo, per meglio far risaltere quello che è tradizionalmente considerato un diritto non solo di espressione del pensiero, ma di critica.
    E’ quindi palese come in tale ambito chi intenda occuparsi di certe tematiche, e voglia esprimere con la stessa efficacia comunicativa certi concetti, si avvale dello stesso linguaggio.
    A prescindere dalle considerazioni relative a un’eventuale valutazione in termini di disvalore di questa prassi, non va dimenticato, come elemento di fatto, che questa prassi esiste.
    Pertanto potrebbe essere considerata una scriminante reale.
    Infatti si ha il diritto ad intervenire su un tema, con la stessa efficacia comunicativa usata da altri, e quindi anche sotto tale aspetto, si profila l’esercizio di un diritto.
    Anche a volere, per più ampio tuziorismo della tesi esposta, voler considerare inesistente tale diritto (come parrebbe dalla sentenza), non di meno va sottolineata la rilevanza che l’uso di un tale linguaggio ha nel caso in questione.
    Infatti, a fronte dell’uso invalso, non si può non ritenere che questo rappresenti almeno un giustificato motivo per ritenere sussistente l’esercizio di un diritto.
    Pertanto, anche a voler negare la valenza oggettivamente scriminante dell’uso invalso di una certa tipologia di linguaggio su certi temi, va quanto meno riconosciuta la sua valenza soggettiva, quale scriminante putativa.
    Purtroppo, sotto tale profio, la sentenza si rivela per un verso contraddittoria, a mio giudizio, e per altro verso carente di motivazione.
    SI afferma, infatti, che don GIorgio avrebbe agito nella convinzione di esercitare un diritto, ma nulla, neppure una parola, si dice circa l’eventuale valenza di tale elemento sotto il profilo di una scriminante putativa.
    Sembra quasi che per il giudice le scriminanti siano da considerare solo qualora oggettivamente esistenti, in tal modo in violazione della norma del c. p. che impone di considerarle sussistenti anche qualora erroneamente ritenute esistenti da parte dell’imputato.
    Neppure una parola, peraltro, sul fatto che il giudice ritenesse sussistere o meno fondati motivi, per ritenere essersi verificata o meno una scriminante putativa.
    SI appalesa, quindi, in modo lapalissiano, una grave carenza di motivazione, peraltro legata a filo diretto con la contraddizione nell’aver citato proprio la scriminante dell’esercizio di un diritto, cui la stessa sentenza si riferisce.

    USO DI UN LINGUAGGIO CONTINENTE COME LIMITE AL DIRITTO DI ESPRESSIONE?
    Questa tesi, sostenuta dal giudice, non riconduce ad alcun appiglio normativo, essendo il diritto di espressione riconosciuto in costituzione come tale, senza quel vincolo della continenza, che solo, per il giudice, varrebbe a rendere lecito l’esercizio del diritto.
    Dal momento che, come già detto, in certi ambiti l’uso di un certo linguaggio è ormai largamente diffuso da tempo (basti verificare le comunicazioni di Salvini ed altri, politici e non), a voler ccogliere la tesi esposta in sentenza, si arriva all’assurda conseguenza che il diritto di manifestazione del pensiero non sarebbe, in realtà, possibile nella sua concreta possibilità di espressione.
    Infatti, per poter manifestare con efficacia un certo pensiero, occorre avvalersi di un linguaggio dotato della stessa risonanza e della stessa valenza semantica e financo emotiva, invalso appunto in certi ambiti.
    SOpratutto su internet, strumento che consente all’utente di lasciare la pagina, se non di suo interesse, usare talora una certa continenza equivarrebbe a non destare quel vivo interesse che, invece, viene destato da chi quel linguaggio utilizza.
    In altri termini, rinunciare ad una possibilità espressiva, offerta invece proprio dalla costituzione.

    SCRIMINANTE TIPICA O ATIPICA?
    Vale appena il caso di ricordare che, per consolidata giurisprudenza, le scriminanti non sono solo quelle tipiche, definite dal codice penale, o da leggi penali integrative, ma anche quelle cosiddette atipiche, che l’evolversi dei costumi hanno portato a riconoscere come tali dai giudici.
    Nel caso di specie, come si è detto, è invalso su certe tematiche (invero non solo su queste) l’uso di un certo linguaggio, che nessuno ha pensato di sanzionare.
    E, quindi, l’uso del medesimo viene in considerazione anche sotto altro profilo.
    E cioè non solo come possibile esercizio di un diritto, scriminante effettiva o putativa, ma anche proprio come scriminante atipica, riconducibile al più generale concetto di liceità della forma espressiva.
    Liceità, quindi, consentita proprio dal tipo di argomento e dal riferimento a comportamenti che hanno valenza in quel tipo di argomento.
    L’articolo della Graziadei riguardava, indubbiamente, aspetti giudiziari e politici, e da tale circostanza non si può prescindere, il che consente proprio di affermare che è stato usato un linguaggio, invalso ormai da tempo, in certi ambiti.

    ART 21 COST. E SUE IMPLICAZIONI
    Per consolidata giurisprudenza, vi sono norme costituzionali immediatamente cogenti ed applicabili nel nostro ordinamento.
    Tra queste sicuramente l’art. 21 cost. che, a differenza di altre norme costituzionali, non rinvia ad altre norme di legge per la sua applicazione.
    L’art. 21 non dice, ad esempio, che l’esercizio del diritto di espressione del pensiero si svolge nei limiti di quanto il legislatore definisca con legge ordinaria.
    Pertanto, nel contrasto tra questa norma costituzionale e la norma, gerarchicamente subordinata tra le fonti di diritto, di cui al c.p., prevale sicuramente la norma di rango costituzionale.
    Se anche si ritiene che per essere abrogata una norma, in quanto ritenuta incostituzione, deve essere soggetta al vaglio obbligatorio della corte costituzionale, tuttavia nel contrasto il giudice poteva disapplicarla.
    Invece la sentenza non tiene minimamente conto di tali rilievi, e si riferisce ad un art. 21 cost. in realtà in una formulazione assolutamente inesistente, come, appunto, se tale norma rinviasse a limiti di legge o di altro tipo nell’affermazione del diritto di espressione.
    Dello stesso tipo è poi il ragionamento (che tratto qui per connessione di argomentazione), relativo alla supposta esistenza di diritti, che avrebbero pari rango di tutela costituzionale, e che sarebbero limiti naturali per l’esercizio di altri diritti.
    Come noto, il diritto naturale è, se non espressamente richiamato in un ordinamento giuridico tra le fonti di diritto, una mera astrazione filosofica.
    Esiste solo il diritto positivo, e la nostra costituzione non ammette riferimento a concezioni giusnaturalistiche di sorta.
    Del resto, anche a voler ammettere una siffatta interpretazione giusnaturalistica della costituzione, si rischia poi di riempire il concetto di diritto naturale, identificandolo con i deliberata dell’interprete di turno.
    Nel caso di specie, quello che il giudice pensa sia il diritto naturale configurabile sul tema.
    Si rischia, quindi, una completa anarchia giudirica, atteso che il giudice A potrebbe ritenere che in un caso il diritto naturale dica una cosa, mentre il giudice B sullo stesso caso potrebbe affermare che il diritto naturale esprima concetti e regole diametralmente opposti.

    ART. 3 E SUE IMPLICAZIONI SULLA DEPENALIZZAZIONE
    Sempre in tema di diritto costituzionale, la sentenza afferma un principio, negletto invece da consolidata giurisprudenza costituzionale.
    Afferma, infatti, che l’operato del legislatore sulle diverse fattispecie sarebbe insindacabile.
    All luce anche solo dell’art. 3 costituzione, questa testi va nettamente contrastata.
    Come infatti dichiarato da autorevole giurisprudenza della consulta, l’art 3 vieta l’ingiustificata disparità di trattamento, come limite logico all’opera del legislatore.
    Quest’ultimo, quindi, non può nè trattare in modo uguale fattispecie diverse, nè normare in modo diverso fattispecie uguali.
    Vi sarebbe, in emtrabi i casi, un’ingiustificata disparità di trattamento
    Sotto tale profilo, la recente depenalizzazione pare essere, infatti, proprio caratterizzata da un’incostituzionalità di questo tipo.
    COnsiderando l’opera dottrinaria e giurisprudenziale prevalente in tema di ingiuria e di diffamazione, va rimarcato come entrambe le fattispecie siano considerate a tutela degli stessi interessi e diritti, l’onore, la reputazione….
    In altri termini, le due diverse fattispecie non tutelano beni diversi, e differiscono solo per le concrete modalità di realizzione.
    In un caso, perchè sussiste la presenza del soggetto passivo, invece asseente nell’altro caso.
    Pertanto, anche a voler non ritenere incompatibile il reato di diffamazione con l’art. 21 cost. , sotto altro profilo è invece evidente l’incostituzionalità della legge di depenalizzazione, nel momento in cui ricomprenda sotto i propri effetti solo una delle due fattispecie, poichè tratta diversamente due fattispecie, invece ingiustificamente diversificate.

    INGIURIA E NON DIFFAMAZIONE
    Proprio per i motivi dianzi esposti, a ben vedere, nel caso di specie non si potrebbe comunque ravvisare una diffamazione, al limite un’ingiuria.
    Il termine discriminante tra le due fattispecie è la presenza o meno dell’offeso.
    All’epoca in cui entrò in vigore il cp, ovviamente non erano ancora disposibili i mezzi elettronici e telematici, oggi di uso comune, come internet.
    Pertanto il legislatore pensò essenzialmente a come poteva commettersi, allora, la fattispecie.
    Evidentemente, pensava ad offese in presenza fisica, o assenza fisica, dell’offeso.
    Ma proprio le modalità del web hanno evidenziato come il venir offeso direttamente, tramite una conoscenza diretta dei fatti, possa avvenire anche in assenza di presenza fisica.
    Il soggetto offeso, in questo caso, non viene a conoscenza del fatto di essere offeso tramite terzi, che gli riportano le offese ricevute, ma direttamente da parte dell’offensore.
    Del resto, la fattispecie non sarebbe diversa dalla seguente: l’offensore, in una stanza, invece di offendere a voce, fa girare un video preregistrato e con pagine videoregistrate sui cui sono presenti le offese.
    Chiarito che di stampa non si tratta, in questo caso la fattispecie che differenze presenta, rispetto all’ipotesi testè formulata?
    Nessuna.
    Pertanto, è evidente trattarsi, al più. di ingiuria, non di diffamazione, e quindi, come illecito depenalizzato, neppure doveva aprirsi sul caso un processo, e la querela avrebbe dovuto essere archiviata.
    Il riferimento all’elemento cronologico è invece del tutto destituito di fondamento, non essendovi alcun riferimento, nella normativa in materia.
    A meno, ancora una volta, di indulgere a ipotizzate previsioni da parte di un diritto naturale applicabile nel nostro ordinamento, con contenuti definibili dal giudice di turno.

    DIRITTO NATURALE E DIRITTO POSITIVO
    Come richiamato in precedenza, pur implicitamente, il giudice pare voler affermare la presenza di principi di diritto naturale, espressi con riferimento ad una normtiva non richiamata in base all’effettivo annunciato della stessa, ma filtrata tramite un’integrazione con principi, ritenuti dal giudice esistenti, e non espressi, invece, dalle norme.
    SI perviene, anche in tal guisa, ad una fattispecie indeterminata, la cui imputazione è vietata in base al principio di tassatività della tassispecie penale.
    Quando si afferma, ad esempio, che la diffamazione sarebbe quella riconducibile ad una espressa forma, insita in specifico linguaggio e specifica terminologia, si afferma l’esistenza ontologica di una fattispecie di reato, che invece non è prevista dal codice penale.
    IL codice penale vieta comportamenti, solo in relazione all’idoneità che hanno di ledere certi beni, giuridicamente tutelati.
    Non afferma che la tal o tal’altra espressione siano da considerare, in quanto tali, offensive.
    Occorre quindi considerare se, nel caso concreto, vi sia stata una condotta che integri, o meno, gli estremi della fattispecie.
    Invece il giudice afferma che in quanto tali, talune espressionni…..in tal modo del tutto disattendendo l’espressa formulazione codicistica della fattispecie, e dando luogo ad una violazione del principio di tassatività della medesima.
    In altri termini, se vogliamo, anche questa un’applicazione di una sorta di diritto penale giusnaturalisticamente inteso.

    ART. 550 CPP E SUE IMPLICAZIONI
    In base al detto articolo, viene stabilita una serie di casi, in base all’entità della pena, in cui è prevista la citazione diretta in giudizio, saltando la fase dell’udienza preliminare.
    Tuttavia occorre considerare che in alcuni casi si commette l’errore di procedere in tal modo, per reati che esulerebbero da tale procedura.
    Nel caso di specie, risultando un’interlineatura che riguardava una specifica ipotesi di reato aggravato, con conseguente aggravio di pena, tale da sottrarlo ai casi di citazione diretta a giudizio, si rientrava, sotto altro profilo, tra i casi che esorbitano dalla competenza di un giudice di prima nomina.
    Pertanto, a fronte anche solo dell’indeterminatezza della contestazione, a mio avviso si sarebbe dovuta rinviare la pratica al giudice competente, non di prima nomina.
    La questione non è peraltro irrilevanto sotto altro profilo, ben più cogente in relazione alla possibilità di esercitare effettivamente il diritto di difesa.
    Per avere certezze sull’effettiva imputazione, una interlineatura avrebbe ben dovuto essere supportata dalla sottoscrizione, o quanto meno sigla, dell’autore, in modo da rendere chiara la sua autentiticità ed effettività.
    Diversamente, neppure si può conoscere dell’effettiva imputazione mossa dalla procura.
    L’ordinanza e la sentenza ritengono comunque conforme alle disposizioni del cpp la prassi seguita, ma non è irrilevante la consecutio temporum.
    Infatti il diritto di difesa, per essere tale, dovrebbe poter essere esercitato sin dal primo momento in cui si riceve la notifica.
    Ma in quel momento, anche solo l’nterlineatura poneva seri dubbi sul reato effettivamente contestato, il che ovviamente non consente l’esercizio pieno del diritto di difesa come replica dialettica alle SPECIFICHE accuse rivolte.
    Anche solo tale elemento, unitamente agli altri elementi di indeterminatezza della fattispecie, ben commentati nell’atto d’appello, ha, a mio modesto avviso, impedito un effettivo e pieno diritto di difesa, che, ripeto, è tale se può esseere esercitato dal primo momento in cui interviene la notifica dell’atto.
    Anche sotto tale profilo si configura pertanto, a mio avviso, un ulteriore vizio del procedimento, riconducibile alla mancata possibilità di esercizio pieno della difesa.

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