da www.valigiablu.it
Il regime di Putin dovrà fare i conti
con l’eredità di Navalny
17 Febbraio 2024
Giovanni Savino
È una gelida giornata di febbraio a Kharp, 60 chilometri a nord del Circolo polare artico, nel distretto di Yamalo-Nenets: in questo periodo le temperature sono fisse sotto i 20 gradi. Il villaggio è piccolo e ha una particolarità, perché è delimitato, a nord e a sud, da due colonie penali, rispettivamente la numero 3 e la 18, quest’ultima fino a qualche mese fa nota per essere il luogo di detenzione di serial killer e terroristi condannati all’ergastolo: qui c’è il maniaco del bosco di Bittsa, Aleksandr Pichushkin, autore di almeno 49 omicidi, e l’unico sopravvissuto del commando che assaltò la scuola di Beslan nel 2004, Nurpasha Kulayev. Ma la tetra e relativa celebrità del penitenziario alla periferia meridionale del villaggio è stata sorpassata dal suo equivalente a poco più di un chilometro e mezzo di distanza, quando nel dicembre 2023 è arrivato, dopo un lungo trasferimento tenuto nascosto, Alexey Navalny.
In quella gelida giornata di febbraio, venerdì 16, è l’oppositore di Vladimir Putin a sentirsi male e a perdere conoscenza mentre è a passeggio per l’ora d’aria. Arrivano i soccorsi, secondo quanto recita una nota breve del Servizio federale penitenziario russo pubblicata sul sito, ma non c’è nulla da fare: a 47 anni Navalny è morto, la notizia arriva da un capo all’altro del pianeta, e vi sono domande di cui, forse, non conosceremo mai la risposta: cosa è successo? Come mai un uomo che due giorni prima appariva in videoconferenza con la corte per un ulteriore processo ha potuto star così male da spegnersi improvvisamente?
Margarita Simonyan, a capo del media di propaganda Russia Today, ha fatto circolare la voce di un trombo colpevole di aver fermato il cuore del politico, ma la versione non convince: non vi erano state visite precedenti né ancora vi è stata l’autopsia, è impossibile poter credere a questo. Nei canali Z, come Rybar, addirittura si adombra un possibile intervento degli agenti occidentali, una storia ancor più assurda, perché vorrebbe dire che i penitenziari russi, persino nell’estremo nord del paese, hanno seri problemi di vigilanza, e Maria Zakharova, la portavoce del Ministero degli Esteri, dichiara “sospette” le reazioni all’estero alla notizia della morte.
Navalny, dei tre anni passati in galera dopo esser tornato dal ricovero a Berlino per riprendersi dall’avvelenamento subito nell’agosto del 2020, ha trascorso oltre trecento giorni in cella di rigore, in condizioni durissime d’isolamento, con pretesti d’ogni tipo utilizzati per evitare contatti con l’esterno e con gli altri detenuti, in un crescendo di punizioni culminato con il trasferimento a Kharp, circostanze in grado di poter piegare la salute di chiunque; ancor prima i suoi avvocati sono stati accusati di partecipazione ad organizzazione estremista e terrorista, segno di un’ulteriore stretta nei confronti delle possibilità di potersi difendere in un sistema giudiziario dove le assoluzioni in primo grado, secondo dati del 2021, sono pari allo 0,4%.
Yulia Navalnaya, anche lei quarantasettenne, è a Monaco di Baviera, invitata alla conferenza per la sicurezza, stesso summit dove, nel 2007, per la prima volta Vladimir Putin aveva polemizzato con i “partner occidentali”. Il volto descrive tutte le emozioni della donna, e si fa fatica a guardarla per il pudore verso il dolore da dover vivere davanti agli obiettivi dei media di mezzo mondo, ma non vi è un pianto forse liberatorio, risuonano le parole: “Forse siete già a conoscenza di questa orribile notizia”… lo sguardo per un momento si appanna, e poi continua: “Non sapevo se andare dai miei figli o restare qui, ma mi sono chiesta cosa avrebbe fatto lui e mi sono detta che sarebbe restato qui”. La voce è lì per rompersi, ma riprende dicendo di ritenere Putin e la sua cerchia responsabili delle atrocità commesse contro la Russia, la sua famiglia e suo marito, concludendo con un appello all’unità contro il regime.
Nelle piazze di tanti paesi si sono riunite dalle decine alle migliaia di persone, in gran parte cittadini russi scappati in questi lunghi due anni di guerra in Ucraina, portando candele, fiori, striscioni, cartelli, bandiere, per manifestare la propria partecipazione non solo al dolore ma anche per esprimere, ancora una volta, la propria rabbia nei confronti del Cremlino: in molti casi, come a Helsinki, a Londra, a Berlino, a Roma, l’appuntamento era davanti alle ambasciate della Federazione Russa, per rendere visibile la contrapposizione al potere; in altre città si è scelto di radunarsi nei pressi di monumenti alle vittime delle repressioni politiche o del fascismo o nei luoghi centrali di passaggio per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica a quanto avviene oggi in una patria spesso lasciata in fretta e furia, prendendo lo stretto necessario e sperando in un visto per l’Europa.
In Russia i fermi e gli arresti sono iniziati subito, appena si son presentati donne e uomini con fiori e candele in varie città: sono state portate nei commissariati 102 persone, di cui 64 solo a San Pietroburgo, 15 a Nizhny Novgorod, 11 a Mosca e il resto in altre parti del paese. Un sinistro bilancio inferiore alle prime proteste contro la guerra, ma con la differenza che, rispetto agli ultimi giorni del febbraio 2022, oggi vi sono leggi ben peggiori in grado di condannare a svariati anni di galera chi pubblica un post sui social, condivide una foto, fa una battuta, e con una parte di società, costituita dai cosiddetti zetniki, i sostenitori della guerra, pronta a denunciare e a terrorizzare chi si oppone. Nonostante questo, però, agenti di polizia e della Rosgvardiya hanno circondato alcuni monumenti e hanno provveduto, come nel caso di Mosca, alla rimozione dei fiori e delle candele più volte, per non lasciar traccia della solidarietà verso Navalny e i prigionieri politici, quando solo nella prossima settimana vi saranno 96 udienze per processi che vedono reati d’opinione.
La morte di Alexey Navalny si inserisce in un contesto che segna un passaggio di qualità nella battaglia a ogni tentativo d’opposizione e di dissenso intrapresa dal sistema putiniano ormai da più di un decennio. Si prova a reprimere e soffocare, con gli arresti o in altri modi, ogni possibilità di avere dei punti di riferimento in grado di proporre o semplicemente di pensare un’agenda diversa da quella del Cremlino, e si colpisce ad ampio raggio: nel settore oltranzista e nazionalista è stato arrestato Igor Girkin Strelkov, già condannato da una corte olandese all’ergastolo per aver partecipato all’abbattimento del volo MH17, e mandato in galera per quattro anni; l’aereo di Evgeny Prigozhin esplode in volo due mesi esatti dopo il tentato colpo di mano. A sinistra Boris Kagarlitsky, sociologo e intellettuale marxista, viene prima condannato a una multa di circa 600.000 rubli ma il verdetto viene rivisto in appello, dove gli vengono dati cinque anni di prigione; Sergei Udaltsov, già tra i protagonisti delle proteste contro i brogli elettorali per il rinnovo della Duma nel 2011/12, nonostante abbia sostenuto la guerra in Ucraina, è stato arrestato lo scorso 11 gennaio per incitazione al terrorismo. Infine, la mancata registrazione della candidatura di Boris Nadezhdin alle presidenziali, dopo aver visto file di persone in varie parti della Russia per sostenere l’unica voce contro la guerra senza dover rischiare la galera, permette di chiarire come il messaggio generale sia di non fornire alcuna possibilità d’espressione a chi non condivide la linea di Vladimir Putin, e non vi è alcuna remora nel ricorrere a mezzi sempre più forti. Un messaggio particolarmente preoccupante anche per l’esperienza delle donne dei cittadini mobilitati al fronte, riunite nel movimento Put domoi (La strada verso casa) per rivendicare il ritorno dei propri familiari e in grado di riuscire a mobilitare, in un contesto di questo tipo, energie e persone contro la guerra.
La guerra ha cambiato il potere e la società in Russia, e continuerà a farlo, perché la militarizzazione si avverte anche nelle amministrazioni regionali e locali, dove i funzionari mandati in trasferta nelle regioni occupate tornano da lì adottando una modalità di relazione basata sulla prevaricazione dei sottoposti; i detenuti mandati al fronte e liberati dopo almeno sei mesi di servizio da ormai un anno spesso tornano a casa, dove si rendono protagonisti di omicidi e atti di violenza di ogni genere; l’istruzione universitaria, dopo due decenni passati a investire su una sua integrazione globale, si trova ad essere posta sotto il controllo dei siloviki, ovvero degli ufficiali delle agenzie di intelligenze e dei militari, con l’introduzione di nuove materie di studio volte a “sviluppare lo spirito patriottico” e un controllo continuo di docenti e studenti; persino nella vita privata delle star dello spettacolo, colpevoli di comportamenti “disdicevoli”, si entra, costringendo cantanti e attrici a scusarsi pubblicamente per aver preso parte a feste trasgressive o non essersi espressi in sostegno alla guerra.
È lo stesso Vladimir Putin a promuovere questo processo di polarizzazione, salutando a più riprese la nascita di una nuova élite nella società russa, composta dai combattenti e dalle loro famiglie, nucleo della riscossa dei valori tradizionali e del patriottismo e avanguardia nella lotta sia all’interno del paese che fuori. Un processo che vede forse come sua prossima tappa una ulteriore generalizzazione della repressione, senza alcuna possibilità di far pressione dall’esterno: se nel 2020 l’iniziativa di Angela Merkel, allora cancelliera, riuscì a portare in salvo Navalny, oggi nessuno sembra in grado di poter ottenere un rallentamento della macchina repressiva dello Stato russo.
Immagine in anteprima generata da AI – Photoshop
Insomma mille volte peggio che al tempo degli zar, quelli veri (il che è già tutto dire) altro che questa sorta di Mussolini dell’Est