Il lupo cattivo e Cappuccetto rosso: papa Francesco tra Putin e la Nato

Rassegna Saggistica

Il lupo cattivo e Cappuccetto rosso:

papa Francesco tra Putin e la Nato

di MASSIMO FRANCO
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore Solferino, pubblichiamo il capitolo 13 del libro di Massimo Franco L’enigma Bergoglio, la cui riedizione aggiornata è uscita oggi.

Tra Putin e la Nato

Lo schema di Cappuccetto rosso
«Dobbiamo allontanarci dal normale schema di “Cappuccetto rosso”: Cappuccetto rosso era buona e il lupo cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto… Un paio di mesi prima dell’inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio. E dopo avere parlato delle cose di cui voleva parlare, mi ha detto che era molto preoccupato per il modo in cui si muoveva la Nato. Gli ho chiesto perché, e mi ha risposto: “Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro…”.» Era il 19 maggio del 2022, e papa Francesco parlava ai direttori di dieci riviste europee dei gesuiti sull’invasione russa dell’Ucraina. Ma le sue parole che additavano la complessità del conflitto provocato da Vladimir Putin e lo facevano apparire quasi equidistante tra aggressore e aggrediti si sarebbero ritorte contro di lui a lungo. Di più: sembrava quasi che l’invasione fosse stata provocata da un complotto dell’Alleanza atlantica; che Putin fosse caduto in una trappola tesagli subdolamente dai nemici occidentali.
Il papa stesso, durante il colloquio, si rese conto dei malintesi che avrebbero potuto provocare. «Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi…» Accusarlo di equidistanza tra gli aggressori e gli aggrediti era certamente una forzatura: il papa sapeva bene chi fosse il responsabile di quella che con un eufemismo sconcio in Russia si chiamava «operazione militare speciale», quasi si trattasse di liberare l’Ucraina. Ma quel rifiuto di classificare «buoni» e «cattivi» rischiava di farlo apparire in una posizione neutrale, esponendolo all’accusa di ambiguità. Il riferimento alla Nato che «abbaiava», oltretutto, confermava i sospetti dell’Occidente su un suo pregiudizio, molto sudamericano, sull’Alleanza atlantica e gli Stati Uniti. E di nuovo rischiava di fare apparire la Santa Sede come un’istituzione che rifiutava di prendere posizione di fronte all’invasione unilaterale e armata da parte della Federazione russa contro un Paese europeo che voleva entrare nell’Unione e aveva fame di democrazia.
Forse la Nato «abbaiava», ma Putin aveva morso dolorosamente la pace continentale. Si era portato con le sue truppe russe e mercenarie oltre i confini ucraini. Bombardava, torturava e uccideva. Magari Volodymir Zelensky, l’ex comico presidente del governo di Kiev, somigliava poco a Cappuccetto rosso. La Russia, però, in questo caso aveva molti tratti del lupo cattivo. E il fatto che il papa tendesse a non vedere una divisione «in termini metafisici» suonava alle orecchie dell’Ucraina come una sorta di insulto; e a quelle dell’Occidente come un atteggiamento poco comprensibile, se non con un afflato di mediazione e di pace che, questi sì, si sarebbero rivelati col passare dei mesi alquanto astratti. Ma già il giorno in cui fu pubblicata la conversazione con i direttori delle riviste della Compagnia di Gesù si registrarono reazioni perplesse. Avvenne circa un mese dopo l’incontro, il 15 giugno del 2022.
Sulla «Stampa», Mattia Feltri scrisse che quella divisione tra buoni e cattivi gli ricordava «la volta in cui, rientrando in volo dallo Sri Lanka, una settimana dopo la strage di “Charlie Hebdo” (dodici morti nella redazione del giornale satirico per mano di terroristi islamici), Francesco dichiarò sacre le libertà di religione e di espressione, ma né l’una né l’altra sono illimitate: se dici una parolaccia a mia madre, spiegò, aspettati un pugno». Era anche in quel caso «un invito alla complessità». Ma «parlare di buoni e di cattivi subito dopo o durante una mattanza, a Parigi o a Kiev, sarebbe inutile e infantile. Non sono buoni e cattivi, sono vittime e carnefici, e le ragioni dei carnefici sono qualcosa che diventa il nulla». «Charlie Hebdo» era il settimanale satirico francese nella cui redazione era entrato un commando di terroristi islamici il 7 gennaio del 2015, facendo una strage per alcune vignette ritenute offensive nei confronti del profeta Maometto.
Quelle della «Stampa» erano parole abrasive, taglienti, che però riflettevano uno sconcerto che avrebbe accompagnato Francesco a lungo. Le sue dichiarazioni sul conflitto in territorio ucraino venivano definite spiazzanti in senso virtuoso dai media cattolici, o almeno da alcuni. Le larvate sintonie con la propaganda pacifista del Movimento cinque stelle di alcune associazioni cattoliche, della sinistra radicale e anti-Nato ma anche di filoputiniani come Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, leader della destra di FI e Lega, si nobilitavano saldandosi all’immagine del pontefice impegnato per la pace. Ma a lasciare perplessa era l’analisi vaticana su quanto succedeva. L’ossessione di assumere un ruolo da protagonista e fermare un conflitto sempre più feroce e sanguinoso era evidente.
Eppure, la Santa Sede sembrava incapace di analizzare in profondità quanto stava accadendo; e dunque di capire che il tentativo di oscillare tra Cappuccetto rosso e il lupo finiva per consegnare un’immagine contraddittoria. Lo schema post-occidentale col quale era stato inaugurato il papato argentino non poteva non rimodularsi di fronte a una guerra dichiarata unilateralmente dalla Russia nel cuore dell’Europa.
La mediazione impossibile
Ma non era facile. La Santa Sede appariva spiazzata, di fronte a un’aggressione armata non prevista. E soprattutto, si trovava a muoversi di colpo su un terreno infido, perché mescolava al conflitto militare e con forti venature nazionalistiche una «guerra civile» di religione all’interno del mondo ortodosso. Nel 2016, Francesco era andato a Cuba ad abbracciare il patriarca di tutte le Russie, Kirill. Nel 2022, si ritrovava un Kirill schiacciato sulla propaganda putiniana; e odiato dal patriarcato ortodosso di Kiev e dai greco-cattolici ucraini. Comunque si muoveva, Francesco rischiava di irritare qualcuno. E dopo l’invasione, le sue prese di posizione hanno fatto infuriare in primo luogo gli ucraini, che come minimo non capivano l’insistenza del pontefice argentino nel tentare di mediare tra Mosca e Kiev. All’inizio, Francesco sembrava davvero convinto di avere spazi di manovra. Con un gesto a dir poco irrituale, andò a trovare l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Aleksandr Avdeev, nella sede in via della Conciliazione, a poche centinaia di metri dalla Città del Vaticano. Voleva mandare un messaggio distensivo a Putin, e farsi ricevere a Mosca.
Il messaggio fu prontamente recapitato, ma non ebbe seguito: fu una delle molte, imbarazzanti illusioni di una diplomazia papale tanto iperattiva quanto impotente. Quando, dopo un discorso davanti al Parlamento italiano, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha invitato il papa ad andare invece a Kiev, bombardata e assediata in quei giorni dalle truppe russe, è arrivato un avvertimento di fatto dal Cremlino. L’ambasciatore Avdeev ha incontrato per tre ore il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin. Ha dettato le condizioni per una mediazione vaticana, protestando per il silenzio che la Santa Sede aveva tenuto, a suo avviso, mentre il governo di Kiev aveva colpito negli anni precedenti il Donbass filorusso. E ha lanciato l’avvertimento di Putin a Francesco: se avesse accettato di visitare Kiev avrebbe fatto un favore ai nemici di Mosca; non a Zelensky ma a Joe Biden, presidente degli Stati Uniti. E a quel punto, i rapporti con Putin, coltivati con somma pazienza negli anni precedenti in nome del dialogo con l’ortodossia, sarebbero andati in pezzi. Perché l’Ucraina era «una costruzione americana» riferì Avdeev, incuneata ai confini della Santa Madre Russia.
La cornice tracciata dagli emissari di Putin era dunque ben delineata. E il fatto che l’invasione militare fosse scattata ingannando gran parte degli interlocutori, Santa Sede compresa e forse perfino l’ambasciata russa presso la Santa Sede, ma non i servizi segreti statunitensi, faceva capire quanto scivoloso fosse il terreno di una qualunque interlocuzione con la cerchia putiniana. Ma il papa insisteva. O perché non era informato abbastanza della situazione e delle forze in campo, o perché voleva comunque marcare il territorio della futura pace, ha continuato a mandare messaggi distensivi e insieme contraddittori, che hanno finito per deludere tutti e per rendere ancora più inverosimile qualunque trattativa affidata al Vaticano. L’invio in zona di guerra del suo elemosiniere, il cardinale polacco Konrad Krajewski, per portare aiuti umanitari in Ucraina, è apparso solo un tentativo di «esserci» ma non ha spostato di un millimetro i termini della guerra nel cuore dell’Europa. Krajewski ha deposto fiori in una fossa comune di Bucha, dove i russi avevano torturato e ucciso centinaia di civili. Ha portato maglie termiche e generatori. E queste nobili incursioni caritative si sono affiancate a ripetuti appelli a un «cessate il fuoco» e a un no all’invio di armi occidentali all’Ucraina, interpretate come un aiuto oggettivo, sebbene involontario, alla Federazione russa.
L’irritazione che arrivava da Kiev raccontava un’incomprensione crescente sia con l’episcopato cattolico ucraino, sia con gli ortodossi infuriati per la copertura morale che Kirill offriva alla guerra di Putin. Il 7 marzo del 2022 il patriarca di tutte le Russie disse che «questa guerra è contro chi sostiene i gay, come il mondo occidentale, e ha cercato di distruggere il Donbass solo perché questa terra oppone un fondamentale rifiuto dei cosiddetti valori di chi rivendica il potere mondiale». Il 25 marzo Francesco decise di consacrare alla Madonna sia la Russia sia l’Ucraina. E successivamente annunciò che per la Via Crucis pasquale avrebbe fatto portare la croce fino al Colosseo, a Roma, da due donne, una russa e una ucraina, Irina e Albina. L’avrebbero ricevuta da una famiglia che aveva perso un figlio. E, senza parlare, l’avrebbero poi consegnata a una famiglia di migranti.
Era, di nuovo, un gesto spiazzante e sconcertante, perché poteva far pensare a una sorta di equidistanza tra aggressori e aggrediti. L’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, disse che «l’ambasciata capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità, sull’idea di mettere insieme le donne ucraine e russe. Stiamo cercando di spiegare alla gente le difficoltà della sua realizzazione e le possibili conseguenze». Fuori dal linguaggio diplomatico, «per gli ucraini, che da 49 giorni vedono le proprie case rase al suolo, i bambini morire sotto le bombe e le donne stuprate dai soldati russi, forse questo approccio imparziale non poteva che avere l’effetto di un pugno nello stomaco» commentò Franca Giansoldati, vaticanista del «Messaggero». Ma i più infuriati erano gli ortodossi ucraini e i cattolici: anche perché il papa era stato invitato ad andare a Kiev. L’arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica in Ucraina, avvertì Roma con parole inequivocabili. Testi e gesti della Via Crucis «sono incomprensibili e persino offensivi, soprattutto in attesa del secondo, ancora più sanguinoso attacco delle truppe russe contro le nostre città e villaggi». Secondo Shevchuk, «i gesti di riconciliazione tra i nostri popoli saranno possibili solo quando la guerra sarà finita e i colpevoli dei crimini contro l’umanità saranno condannati secondo giustizia». Perfino il nunzio apostolico a Kiev, monsignor Visvaldas Kulbokas, prese le distanze dal modo in cui la Via Crucis era stata pensata dal papa. E ai giornali ucraini spiegò che la «riconciliazione deve arrivare quando si ferma l’aggressione. E quando gli ucraini potranno non solo salvarsi la vita, ma anche la libertà. E, naturalmente, sappiamo che la riconciliazione avviene quando l’aggressore ammette la sua colpa e si scusa».
A ruota, il vescovo romano-cattolico di Leopoli, Mieczysław Mokrzycki, il 6 aprile affermò che difendersi con le armi se si viene attaccati «è un dovere morale, anche il cristianesimo lo ammette». Un mese dopo, arrivò anche la reazione di Zelensky. Intervistato in Italia nella trasmissione Porta a Porta, recriminò senza mezzi termini sul fatto che «due persone che sfilano con la bandiera russa e ucraina insieme in questo momento non lo possiamo accettare»: anche se in realtà alla cerimonia non c’erano due bandiere ma due donne. Era l’atmosfera generale, tuttavia, a rendere l’atteggiamento papale ambiguo, più che enigmatico; a offrire un’impressione di sbilanciamento e di acrobazie per tenere fermo il punto della mediazione e della pace, in un contesto nel quale le responsabilità erano sempre più nette. E questo mentre Francesco parlava sì di guerra, usando la parola-tabù del Cremlino, ma aggiungendo che «la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni»; e sostenendo che si era «vergognato» quando aveva letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi in risposta a ciò che sta accadendo, «pazzi!».
«Kirill? Il chierichetto di Putin»
Eppure, più il conflitto avanzava, più la posizione papale risultava difficile da sostenere, quasi eccentrica. A fine aprile del 2022, si avvertì un cauto, contorto ripensamento. «La “neutralità” di Bergoglio si era protratta in verità per una decade, sino a constatare l’impossibilità di una mediazione super partes. Quindi è venuta meno» annotò lo studioso di geopolitica vaticana Piero Schiavazzi sull’«Huffington Post». L’idea, o l’illusione, di riuscire a piegare la dinamica del conflitto, tuttavia, ha continuato a ristagnare nella cerchia papale e in Francesco. Basta rileggere la lunga intervista che concesse il 3 maggio al direttore del «Corriere della Sera», Luciano Fontana. Uno sfogo sofferto, di un uomo provato dai muri di ostilità che la sua ostinazione incontrava. Disse che era pronto a incontrare Putin a Mosca. Assicurò Putin che non sarebbe andato a Kiev. «Io sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, devo incontrare Putin» spiegò. Ma sotto sotto forse presentiva che il suo era l’ennesimo tentativo destinato al fallimento. E senza riuscire a cancellare l’immagine di larvata equidistanza che aveva proiettato dall’inizio della guerra di aggressione.
Rimbalzava quella frase, «l’abbaiare della Nato alla porta della Russia». E Bergoglio ribadiva a proposito della reazione di Putin: «Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì». E le armi inviate a Kiev dall’Occidente? «Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini. La cosa chiara è che in questa terra si stanno provando le armi… Le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto…» Era una lettura piuttosto semplicistica delle guerre, frutto di un’elaborazione culturale e di una lettura della storia almeno opinabili. Ma, soprattutto, riaffiorava una resistenza a dare un giudizio definitivo su quell’invasione, che confliggeva con le prese di posizione dei vescovi europei e dell’episcopato ucraino. Era come se Bergoglio esitasse a recidere il cordone ombelicale diplomatico e psicologico con un Putin col quale aveva coltivato rapporti amichevoli a lungo: sia perché lo considerava il canale obbligato per la distensione tra cattolicesimo e ortodossia russa; sia perché il signore del Cremlino era stato utilissimo nei primi anni del pontificato come protettore delle minoranze cristiane in Siria.
Quella distensione georeligiosa, però, era finita. Tutto il dialogo sul quale Francesco e la Segreteria di Stato avevano puntato si era sbriciolato insieme con i primi palazzi di Kiev. E nell’intervista al «Corriere», Francesco usava toni sprezzanti, da interlocutore deluso, nei confronti di Kirill. «Ho parlato con Kirill quaranta minuti via Zoom» rivelò. «I primi venti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni della guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: “Di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di Stato… Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin”.» Tra loro era stato fissato un incontro a Gerusalemme per il 14 giugno successivo. Ma questa volta fu il papa a essere fermato dai suoi. Avrebbe acuito confusione e proteste. E così fu annullato. «Adesso anche lui è d’accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo.»
Purtroppo non sarebbe stato l’ultimo. E la credibilità del Vaticano come mediatore del conflitto ne sarebbe uscita lesionata. Intanto venivano congelati i rapporti con il Patriarcato moscovita. Anche se non si poteva pensare che il papa ignorasse il rapporto storico di dipendenza dell’ortodossia dal Cremlino: dai tempi dello zar e dell’Urss, quando Stalin utilizzò i patriarchi e la loro paura del proselitismo vaticano per usarli nelle discriminazioni contro i cattolici e accreditare la Santa Sede come «agente dell’imperialismo americano», come ha scritto in un bel libro lo storico Cesare Catananti. Non si era tornati a quel livello di scontro, ma certo la tensione era alta. Quando il 20 agosto del 2022 saltò in aria in un attentato terroristico a Mosca la giornalista Daria Dugina, trentenne, convinta sostenitrice dell’invasione russa in Ucraina e figlia di Aleksandr Dugin, «l’ideologo di Putin», uno dei massimi teorici della «guerra santa» contro l’Occidente corrotto, Francesco usò parole di compassione nei suoi confronti. La definì «una povera ragazza».
Ma nel contesto avvelenato della guerra, la sua affermazione di pietà urtò la sensibilità di un popolo che si stava difendendo da un’invasione armata: anche perché inizialmente non era chiaro chi l’avesse assassinata. Il 25 agosto il ministro degli Esteri di Kiev convocò il nunzio apostolico in Ucraina, Visvaldas Kulbokas. «Abbiamo studiato attentamente la citazione completa» sulla morte di Dugina e «abbiamo deciso di convocare il nunzio apostolico per esprimere il disappunto dell’Ucraina su queste parole» comunicò il ministro Dmytro Kuleba. A monsignor Visvaldas Kulbokas «è stato detto che l’Ucraina è profondamente delusa dalle parole del pontefice, che equiparano ingiustamente l’aggressore e la vittima». In una nota ufficiale si spiegava che «La decisione di papa Francesco di menzionare nel contesto della guerra russo-ucraina la morte di un cittadino russo sul territorio della Russia, con la quale l’Ucraina non ha nulla a che fare, provoca incomprensioni».
Imbarazzato, il portavoce vaticano Andrea Tornielli fu costretto a spiegare che Francesco non era mai stato «equidistante: ha condannato con parole nette l’aggressione perpetrata dalla Russia. È stato piuttosto “equivicino” cioè vicino a tutti coloro che soffrono le conseguenze della guerra…». Quanto all’attentato a Daria Dugina: «Ha parlato di lei definendola “povera ragazza”» si è giustificato Tornielli a nome di Francesco, «per riferirsi alle circostanze drammatiche della sua morte, per ribadire che mai niente può giustificare l’uccisione di un essere umano. Il papa ha parlato con il cuore del pastore, non del politico. Voleva esprimere la pietà cristiana per i morti, per tutti i morti, e non certo ferire i sentimenti della popolazione ucraina, che sperimenta l’orrore della guerra e continua ad avere tante vittime innocenti, e tra queste molti bambini. Bambini per i quali il papa ha pregato tante volte e continua a pregare». Era una difesa difficile, dato il contesto. E l’idea di un papa «equivicino» non chiariva certo meglio le cose. Si intuiva che la strategia vaticana era fonte di malintesi e di tensioni con gli ucraini, e di disorientamento con gli altri potenziali interlocutori. Sotto voce, il papa veniva accusato di reticenza, e di oscillazioni tra una posizione e l’altra.
«Sono stato frainteso»
Ne era consapevole lui stesso. Il 28 settembre del 2022 fu rilanciato uno dei colloqui periodici che aveva con i gesuiti, stavolta in Kazakistan. Nella conversazione, resa pubblica dal fido Spadaro su «La Civiltà Cattolica», si avvertiva un tono difensivo, perfino giustificatorio. «Dal primo giorno della guerra ho parlato costantemente di questo conflitto, facendo riferimento alle sofferenze dell’Ucraina» cominciò. E poi: «Il papa non si arrabbia se è frainteso» spiegò ai gesuiti, «perché conosco bene la sofferenza che c’è alle spalle». Ma dicendolo, fece anche una rivelazione significativa. «Quando è venuto in visita un vescovo cattolico ucraino» raccontò, «io gli ho consegnato un plico con le mie dichiarazioni sul tema. Ho definito l’invasione dell’Ucraina un’aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega. Leggete tutte le dichiarazioni. La sala stampa le ha raccolte.» Dunque, Francesco era stato indotto a presentare all’episcopato ucraino un dossier per dimostrare di non essersi mai contraddetto o essere stato ambiguo sull’aggressione russa; e già questo era un fatto piuttosto anomalo.
In più, era dovuto ritornare sui giudizi espressi dopo la morte di Dugina. E spiegare che l’aveva citata solo perché «la gente comune nelle guerre è la vera vittima». Dopo avere fatto riferimento «anche a quella ragazza che è saltata in aria, si è dimenticato tutto quello che avevo detto fino a quel momento e si è prestata attenzione soltanto a quel riferimento». Ma era già successo prima, quando a luglio aveva sostenuto con l’agenzia argentina Telam di essere stato manipolato dai media riguardo a quella frase sui «buoni e i cattivi». «Hanno preso quella dichiarazione da sola e hanno detto: il papa non condanna Putin!» Invece di chiedersi se le sue parole non fossero condannate a essere fraintese, Francesco elencò «i peccati capitali della comunicazione, del giornalismo»: disinformazione, calunnia, coprofilia, «e cioè amore per la cacca, amore per la sporcizia. Vale a dire cercare di infangare…».
Erano parole di un leader religioso in chiara difficoltà, che tendeva a scaricare all’esterno le proprie contraddizioni, colte non solo dai giornali ma dallo stesso episcopato cattolico. «Il papa ha bisogno di un editore?» si chiese il gesuita Thomas Reese, ex direttore della rivista dei gesuiti statunitensi, «America», dopo l’ennesima intervista con scie polemiche. Quando per difendersi dall’accusa di non chiamare direttamente in causa Putin disse che «non era necessario, già si sa», Reese sottolineò che avrebbe «anche potuto dire che Putin era il Nerone del XXI secolo». Eppure, anche nelle pieghe di queste giustificazioni si percepiva un tormento, una voglia di spiegarsi, di precisare; e al fondo si intuiva un ripensamento della strategia diplomatica del Vaticano; e la presa d’atto che tutti i tentativi fatti fino a quel momento erano stati un buco nell’acqua. Il potere religioso, anzi i poteri religiosi non potevano nulla per incidere sull’andamento della guerra e della pace. La religione non era al di sopra o al di fuori del conflitto, ma ne faceva parte: ortodossia divisa e cattolicesimo erano fazioni della contesa che mischiava nazionalismo, logiche imperiali e fedi religiose; con queste ultime, soprattutto le ortodosse, «strumento» nelle mani dello Stato.
I margini di manovra si erano ridotti, per tutti. L’aggressione all’Ucraina aveva sgualcito la sintonia pluriennale tra Mosca e la Roma papale. Dopo il 24 febbraio, l’architettura religioso-diplomatica costruita faticosamente per anni è crollata. E perfino in certe espressioni aspre di Francesco nei confronti delle truppe di invasione si è colta un’eco della delusione e della frustrazione di Bergoglio nei confronti del suo ex interlocutore. Proprio di ritorno dal Kazakistan, in aereo il papa spiegò ai giornalisti che continuava a non escludere «il dialogo con qualsiasi potenza che sia l’aggressore. Delle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare…». E sulle armi all’Ucraina, precisò, a differenza del passato, che «la decisione può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. Difendersi è non solo lecito, ma espressione di amore per la patria…».
Il papa rivendicò di essersi adoperato per uno scambio di prigionieri ed era vero. L’operazione era stata condotta con successo. Ma al di là di quell’ambito, le porte gli restavano ermeticamente chiuse. Il 3 ottobre il metropolita russo Antonij scolpì che le relazioni tra Roma e la Mosca ortodossa erano «realmente congelate». E a fine novembre, l’accusa di Francesco, nell’intervista del 22 novembre alla rivista «America», rivolta ai mercenari buriati e ceceni, arruolati da Putin in Ucraina, di avere commesso atrocità, provocò un altro cortocircuito. «Quando parlo dell’Ucraina» aveva detto il pontefice, «parlo di un popolo martoriato, hai qualcuno che lo martirizza. Ho molte informazioni sulle truppe che invadono… in genere i più crudeli sono forse quelli della Russia, che tuttavia non sono della tradizione russa, come i ceceni e i buriati e così via. Certamente chi invade è lo Stato russo. Questo è molto chiaro.»
Stavolta la reazione furiosa fu di Mosca, non di Kiev. Accusare i soldati di due minoranze della Siberia e del Caucaso rappresentava una provocazione, tuonò il ministero degli Esteri russo con la portavoce Maria Zakharova. «Le parole del papa sulla crudeltà dei ceceni e dei buriati non sono più una prova di russofobia, ma una perversione della verità.» Alexey Tsydenov, il governatore della Buriazia, piccola repubblica ai confini della Mongolia, infierì: «Sentire il capo della Chiesa cattolica parlare della crudeltà di specifiche nazionalità, cioè i buriati e i ceceni, è a dir poco strano. I nostri soldati compiono il loro dovere con onore». Di colpo, la situazione appariva rovesciata rispetto all’inizio del conflitto. Francesco si ritrovava accusato di essere filoucraino e dunque filoccidentale: un paradosso, per lui che aveva sempre puntato su un superamento della contrapposizione da Guerra fredda del passato. E la conseguenza immediata fu che al Vaticano fu negato da Mosca il ruolo di mediatore. Pietro Parolin aveva ipotizzato negoziati a Roma tra Mosca e Kiev. «Temo che i fratelli ceceni e buriati, oltre a me, non lo apprezzerebbero. Per quanto ricordo, non ci sono state parole di scusa dal Vaticano» fece sapere ineffabile la Zakharova.
E le scuse arrivarono. A metà dicembre del 2022 si seppe che la Segreteria di Stato aveva avuto «contatti diplomatici» a proposito delle scuse di Francesco. Trionfante, la portavoce Zakharova comunicò di avere «ricevuto una comunicazione del cardinale Pietro Parolin nella quale «si presentavano le scuse alla parte russa». «La Santa Sede» precisò l’ufficio stampa del ministro Sergej Lavrov «mostra un gran rispetto per tutti i popoli della Russia, il suo onore, la sua fede e cultura, come con altri Paesi e con i loro popoli…».

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