Omelie 2021 di don Giorgio: OTTAVA DOPO PENTECOSTE

18 luglio 2021: OTTAVA DOPO PENTECOSTE
Gdc 2,6-17; 1Ts 2,1-2.4-12; Mc 10,35-45
Le occasioni di Gesù
Vorrei partire dal terzo brano, tratto dal Vangelo secondo Marco. Facciamo subito una riflessione di carattere generale.
Nei Vangeli noi troviamo le cosiddette parabole, ovvero racconti che Gesù narrava alle folle, prendendo lo spunto dalla natura o da fatti della vita quotidiana o anche da eventi drammatici (pensate alla parabola del buon samaritano).
Troviamo anche affermazioni di Gesù che prendevano invece lo spunto da alcuni comportamenti dei suoi discepoli. E allora possiamo dire che questi comportamenti servivano a Gesù per fare dichiarazioni importanti.
In altre parole, il male può servire per provocare il bene, che magari sonnecchia nella indifferenza. Forse senza il male la vita sarebbe monotona e piatta. Senza il peggio non ci sarebbe il meglio.
Il problema sta nel saper sfruttare ogni occasione, anche di male, per cogliere il bene o nel proporre il bene che è provocato da una società che di per sé provoca al male. Il male provocato da una società carnale a sua volta provoca il bene. Il male provoca il bene, e il bene provoca il male. Sembra tutto un gioco di provocazioni, ma a trarne il vantaggio dovrebbe essere alla fine il bene.
Possiamo anche dire: guai se il male non provocasse e non suscitasse quindi una nostra reazione. Invece che vedere nella lotta quasi una inutile o fastidiosa provocazione, perché non ringraziare chi dissente, il cui intento consiste nel cogliere quel bene maggiore, là dove l’indifferenza o la struttura troppo vincolante vorrebbero addomesticare o impedire, che non sarebbe possibile se tutto fosse una omologazione di rassegnazione.
La Chiesa istituzionale non ha mai voluto capire la lezione della provocazione dei suoi spiriti migliori. Migliori proprio perché dissentivano contro quel male che si chiama rassegnazione. E tale rassegnazione era ed è tuttora vista come una virtù sotto le vesti dell’obbedienza: obbedienza cieca a una ortodossia imposta per proteggere la stessa istituzione religiosa.
Prima di passare a qualche riflessione più specifica sul brano del Vangelo, vorrei fare un’altra considerazione generale.
Alla ricerca del senso originario delle parole
Ci sono parole nei Vangeli che andrebbero recuperate nel loro senso originario, al di là dell’uso e abuso che se ne è fatto. Una di queste parole è: servizio, o servo, o servitore.
Da notare subito che tra servo e servitore c’è una sfumatura non indifferente. Si può essere servi, ma costretti a eseguire gli ordini di un padrone. E si può essere servi nel senso di servire in libertà interiore un dovere. Dunque, nel primo caso si è schiavi, nel secondo si è liberi.
Servire un padrone perché si è costretti è tipico di colui che non si pone il problema della libertà. In fondo, è anche comodo stare agli ordini di qualcuno, soprattutto se costui è un leader carismatico: si obbedisce senza il problema di far funzionare la propria coscienza. La sudditanza è l’atteggiamento tipico di chi appartiene ai Movimenti ecclesiali, nessuno escluso.
Ma servire una società di schiavi non significa farne parte, ma mettersi al servizio di quella parte più in difficoltà, per toglierla dalla schiavitù di fondo, che rende anche i miseri degli schiavi di una società che li domina e li sfrutta.
In altre parole, non dobbiamo accontentarci di dare qualcosa per rendere meno pesante una situazione drammatica, ma tentare di togliere quella persona in difficoltà dal suo precariato di necessità, che la terrà sempre schiava se la persona non riuscirà capire il valore della libertà.
Certo, non mi illudo, la massa sarà sempre massa e poi la miseria riduce la gente a uno stato di quasi inferiorità umana, per cui parlare loro di valori dello spirito potrebbe suscitare reazioni scomposte.
Ci sono anche persone che vivono in uno stato di miseria materiale, ma che sognano cose impossibili da raggiungere almeno per il momento, o che vivono di desideri per cose assurde. Poveri che, nei loro sogni e nei loro desideri, sono stimolati da gente che vive nel lusso e tra beni eccessivi e inutili.
Servire perciò gli ultimi non significa solo dar loro qualcosa, e tanto meno suscitare in loro sogni o desideri sbagliati di un avere smodato, offrendo loro come modello l’attuale società occidentale immersa nel consumismo più spietato.
Ci si mette al servizio, non per soddisfare o favorire le esigenze sbagliate dei poveri. Bisogna saperli educare alla essenzialità, per evitare che cadano in schiavitù peggiori di chi dipende da un padrone, facendosi schiavo.
“Tra voi però non è così…”
Il brano del Vangelo va letto nel suo contesto, e il contesto è quello del viaggio di Gesù a Gerusalemme, viaggio verso la sua passione e la croce. I Vangeli parlano di tre preannunci della passione di Gesù, e ogni volta i discepoli si comportano come se a loro importasse ben altro: o salvarsi la pelle, o discutere su chi fosse il più grande fra loro o ponendosi la questione dei primi posti nel nuovo regno di Dio.
Questo è l’assurdo: una Chiesa che lungo i secoli e tuttora non ha fatto e non fa altro che predicare bene e razzolare male. Certo, la Chiesa parla di servizio, ma come lo intende? Parla di povertà e di distacco, ma come li intende? Parla di predilezione per gli ultimi, ma come intende questa predilezione? Parla di croce, e poi talora mette in croce chi, come Gesù, parla chiaro per il bene di un cristianesimo che fin dall’inizio è stato lasciato ai margini di una Chiesa istituzionale che ha preso tutt’altra strada.
Se mi chiedete quale parola oggi bisognerebbe ricuperare suggerirei “distacco”. La Chiesa è troppo attaccata ad una struttura ricca di ogni ben di dio. Con la scusa che tutto serve per il Regno di Dio, si finisce per non capire più la differenza tra il regno carnale e il regno spirituale.
Distacco significa togliere per ricuperare. Togliere il superfluo per ricuperare l’essenziale.
Togliere la carne per ricuperare lo spirito. Non siamo servitori della carnalità, ma dello spirito. Ci si inginocchia davanti a Dio per servire al Meglio l’essere umano, perché l’essere umano non si inginocchi davanti agli idoli più spietati.

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