Il Capitale Umano e la Brianza

capitale umano

di don Giorgio De Capitani
Dopo che alcuni vertici della Lega Nord sono stati presi con le mani nel sacco, sul modello di “Roma ladrona” (e non poteva essere diversamente, secondo il detto: Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei!), con un consenso popolare sempre più in discesa, gli attuali caporioni – rimasti oramai in “mutande verdi” – non sanno più che pesci pigliare e inventano ogni occasione pur di stare a galla. A loro interessa la visibilità. E ogni panzana è buona a far parlare di sé. Adesso ce l’hanno con la Kyenge, ministro dell’integrazione del governo Letta: non la mollano di un centimetro, la curano, la pedinano, la inseguono, la perseguitano. Questo non è stolking? Sicuramente, è pura idiozia. O si tratta di qualche complesso di natura neurologica nei riguardi di tutto ciò che è “altro da noi”. Il “noi” per un leghista è “tutto ciò che è nostro”. Attenzione: la parola “integrazione” fa paura anche alla Lega per quanto riguarda il “nostro”: anzitutto c’è il “mio”. L’ideologia (parola grossa!) leghista si fonda sull’egoismo, ed è per questo che ha messo le radici soprattutto nella bella Brianza, dove la fede religiosa va a nozze con l’individualismo più tenace. Ve lo dice uno che è brianzolo di nascita, ma che ha avuto la fortuna di risiedere per cinquant’anni al di fuori della Brianza, e, quando vi è tornato, ha constatato sul campo di battaglia quanto fosse vero il detto: brianzoli si nasce e brianzoli si muore! Grandi lavoratori sì, ma chiusi in un mondo pragmatico e gretto, socialmente egoista, culturalmente refrattario, religiosamente tradizionalista per comodo.
Anche per coprire le sue magagne, vedi il caso Roberto Cota, la Lega adesso se l’è presa, suscitando un po’ di polverone, con il regista Paolo Virzì, per il suo ultimo film “Il Capitale Umano”. Il guaio è che il regista l’ha ambientato nel nord d’Italia, e a qualcuno è sembrato di vedere i luoghi della Brianza e perciò di sentirsi offeso, soprattutto a causa di un’espressione “ambigua” dello stesso Vìrzì, il quale in un’intervista ha parlato di “paesaggio gelido, ostile e minaccioso”, di “grumi di villette pretenziose”, di “ville sontuose dai cancelli invalicabili”. Prima, l’assessore al Turismo della Provincia di Monza e Brianza, Andrea Monti (Lega Nord), e poi, lo stesso presidente della Provincia di Monza e Brianza, Dario Allevi (Lega Nord), hanno contestato il film (magari senza vederlo!) come se il regista avesse preso di mira la gente brianzola, e anche buttandolo in politica (“la Brianza identificata come terra del nemico politico»).
Onde evitare equivoci, diciamo subito che il film ha preso l’ispirazione da un romanzo dello scrittore americano Stephen Amidon, il quale l’ha ambientato in Connecticut. La Brianza dunque sarebbe solo un’entità “immaginaria”.
Chi l’ha già visto sostiene che si tratta di un film molto interessante e provocatorio, non tanto nei riguardi del mondo brianzolo, ma, come dice lo stesso regista, «racconta le conseguenze sulle persone della grande ansia del denaro nell’epoca dei grandi crolli finanziari e la disinvoltura con cui si sono fatti i denari con i derivati finanziari. Nel film c’è dell’ironia beffarda verso una borghesia che vuole fare il passo più lungo della gamba, ma soprattutto c’è un viaggio nel conflitto tra genitori e figli. Anzi proprio tra padri e figli… Vedo la situazione proprio male, per la politica di cui mi spaventano i faciloni che seguono chi grida di più e semplificano tutto in uno slogan o in una battuta. Per la società dove gli adulti non aiutano i giovani a maturare».
«È un film esistenzialista», come scrive in un articolo su l’Espresso Alessandro Gilioli. È un film, cioè, che «parla del valore dell’esistenza umana, da vivi e da morti. Del valore che sappiamo o non sappiamo dargli, finché siamo in questo mondo e dopo. È un film che ci avverte su come stiamo agendo – ciascuno di noi, brianzolo o siciliano o norvegese che sia – e ci chiede quanto siamo capaci di guardarci dentro e chiederci: “ma sto facendo la cosa giusta?”… È un film sul nostro buttare via il tempo che ci è dato costruendo castelli di ipocrisie… un film sui vincenti anche loro drammaticamente senza felicità… un film sulla dignità perduta… un film generazionale, nel senso del disastro valoriale trasmesso dalla mia generazione a quella successiva, senza una risposta certa sulle sue possibilità di riscatto morale… È anche un film politico, forse, ma solo se per politica non si intende scegliere un simbolo alle urne o tifare per il proprio leader del cuore, ma lavorare ogni giorno su noi stessi e su chi ci circonda per dare un senso all’esistenza individuale e collettiva: un senso completamente diverso da quello che ci propone il modello unico fatto di estensione dell’io… Ma “quanto vale davvero la tua vita” è la domanda che uscendo dal cinema ciascuno finisce inevitabilmente per porsi. E così, forse, alla fine questo è un film che ci aiuta un po’ a fermarci, a riflettere per provare a dare nelle pratiche di ogni giorno valore, appunto, al tempo che ci resta, quello che passiamo con noi stessi e con gli altri».
Sotto accusa, dunque, è tutto il mondo italiano, e non italiano. E noi brianzoli smettiamola di vantarci per il nostro pragmatismo volontaristico e imprenditoriale. Il film di Virzì potrebbe aiutare a risvegliare anche in noi una maggiore coscienza umana e di responsabilità sociale, uscendo da quell’egoismo fatto di case e di cose, che anche la Lega ha contribuito e continua ad alimentare.
da L’Espresso
Piovono Rane
di Alessandro Gilioli
 13 gennaio 2014

E quanto vale la tua vita?

 Va beh, prima di tutto facciamo fuori la sciocchezza più sesquipedale: “Il capitale umano” non è un film sulla Brianza, come ha scritto qualcuno. D’altro canto il libro da cui è tratto è ambientato nel Connecticut e lì Serena si chiamava Shannon. Insomma il dubbio che parli un po’ di tutto l’Occidente contemporaneo, e non solo di quello, poteva forse venire pure ai leghisti. Che poi uno scenario di ville miliardarie in collina e teatri di provincia dismessi serva ad ambientare meglio la storia, è tutto un altro discorso: ma si tratta appunto di uno strumento narrativo.
Dopodiché, attenzione però, perché non è nemmeno un film di denuncia contro la finanza selvaggia (tra l’altro, il libro è stato scritto quattro anni prima della crisi dei subprime): anche questa serve soprattutto come appiglio per raccontare l’umanità di oggi, o almeno un pezzo dell’umanità di oggi.
Appunto: “Il capitale umano” è un film esistenzialista.
Che parla cioè del valore dell’esistenza umana, da vivi e da morti. Del valore che sappiamo o non sappiamo dargli, finché siamo in questo mondo e dopo.
È un film che ci avverte su come stiamo agendo – ciascuno di noi, brianzolo o siciliano o norvegese che sia – e ci chiede quanto siamo capaci di guardarci dentro e chiederci: “ma sto facendo la cosa giusta?”, “ma sto facendo la vita giusta per me e per gli altri?”.
È un film sul nostro buttare via il tempo che ci è dato costruendo castelli di ipocrisie (che fallimento totale è il bilancio come attrice, come madre, come moglie, come mecenate e perfino come amante di Carla Bernaschi?); è un film sui vincenti anche loro drammaticamente senza felicità (quanto è cupo e precario il dominio del finanziere anaffettivo interpretato da Gifuni?); è un film sulla dignità perduta (quanta ne manca, cazzo, all’immobiliarista ridens Dino Ossola?); è un film generazionale, nel senso del disastro valoriale trasmesso dalla mia generazione a quella successiva, senza una risposta certa sulle sue possibilità di riscatto morale (le scelte e i destini diversi di Serena, Luca e Massimiliano).
È anche un film politico, forse, ma solo se per politica non si intende scegliere un simbolo alle urne o tifare per il proprio leader del cuore, ma lavorare ogni giorno su noi stessi e su chi ci circonda per dare un senso all’esistenza individuale e collettiva: un senso completamente diverso da quello che ci propone il modello unico fatto di estensione dell’io.
Quanto vale, insomma, la nostra vita?
Virzì ce lo chiede con una ruvidezza che nel finale non è più nemmeno metaforica: diventa la monetizzazione standard delle compagnie di assicurazione basata sull’età, le prospettive di reddito e le relazioni sociali del ciclista ammazzato, lo “sfigato di merda” attorno alla cui morte ruota tutta la vicenda.
Ma “quanto vale davvero la tua vita” è la domanda che uscendo dal cinema ciascuno finisce inevitabilmente per porsi.
E così, forse, alla fine questo è un film che ci aiuta un po’ a fermarci, a riflettere per provare a dare nelle pratiche di ogni giorno valore, appunto, al tempo che ci resta, quello che passiamo con noi stessi e con gli altri

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