Omelie 2013 di don Giorgio: Quarta di Pasqua

21 aprile 2013: Quarta di Pasqua

At 21,8b-14; Fil 1,8-14; Gv 15,9-17

Tra le prime due letture vedo un certo collegamento. La prima è desunta dal libro “Atti degli Appostoli”, la seconda dalla lettera di Paolo ai cristiani di Filippi. Nel primo brano Luca e i cristiani tentano di dissuadère l’apostolo dal recarsi a Gerusalemme, perché, dietro i cattivi presagi di Àgapo, temevano per la sua morte, mentre nel secondo brano, proprio a causa dalla prigionia romana di Paolo, i primi cristiani si sentivano ancora più incoraggiati ad annunciare apertamente il Vangelo di Cristo. Da una parte, dunque, notiamo il timore di perdere l’apostolo, dall’altra, invece, la sua intrepida testimonianza trascinava i cristiani ad essere più coraggiosi.
Paolo sta compiendo il suo terzo viaggio apostolico, anche questo è stato lungo e complesso. Pensate che era partito da Antiochia, ha attraversato l’Asia Minore, la Galazia, la Macedonia, l’Acaia, il Mar Egeo, il Mediterraneo per raggiungere infine Gerusalemme. Un viaggio che è durato più di cinque anni: dal 52 al 57 d.C. Da notare che allora non esistevano i mezzi di trasporto di oggi: non c’erano gli aerei, i treni o le auto. Si viaggiava a piedi, o a cavallo, o su delle imbarcazioni che non erano sempre sicure. Pensate, quindi, ai pericoli, ai rischi e alla stanchezza fisica e morale.
Paolo aveva sempre qualche difficoltà da superare. Non è vero che tutto funzionava a meraviglia, neppure tra i primi cristiani. Pensate ai contrasti tra ebrei e cristiani provenienti dal mondo pagano, tra ex ebrei convertiti e i loro connazionali. C’erano contrasti perfino tra gli stessi apostoli: litigavano, si dividevano, ognuno andava per la sua strada. Discutevano anche animatamente, non tanto per questioni personali o per gelosie, quanto invece per diverse vedute. Paolo era un tipo duro, molto deciso, determinato, anche autoritario. Non era facile collaborare con lui. E soprattutto era infaticabile e coraggioso: metteva in difficoltà qualsiasi collaboratore che fosse timido, pauroso, non abituato alla fatica. Lui andava: chi lo seguiva bene, altrimenti era libero di staccarsi e di seguire un’altra strada. Paolo non si lasciava condizionare: se si prefiggeva uno scopo, lo raggiungeva a tutti i costi, mettendo a rischio anche la propria vita.
È quanto è avvenuto nel brano di oggi. Per capire meglio lo svolgersi degli avvenimenti, dovremmo leggere anche i primi sette versetti del capitolo 21. Paolo e compagni lasciano la città di Mileto, dove l’apostolo ha tenuto un lungo discorso agli anziani della Chiesa di Efeso, che aveva fatto chiamare, non potendo di persona andare da loro. Si dirigono verso le isole di Cos e di Rodi, per poi fare rotta verso il porto di Pàtara, nella Licia. Successivamente si imbarcano su una nave mercantile che fa scala sulla costa fenicia, precisamente a Tiro. Qui giunti, si recano a visitare i cristiani del luogo. Alcuni di loro, dotati del carisma profetico, sconsigliano l’apostolo di andare a Gerusalemme. Ecco un primo avvertimento a Paolo. Ma l’apostolo non si lascia convincere a desistere e prosegue il suo viaggio alla volta di Tolemaide, dove gli apostoli trovano alloggio per vari giorni presso il diacono Filippo, uno dei sette incaricati di assistere i poveri a Gerusalemme, padre di quattro figlie che vivono in casa da vergini, cioè consacrate a Dio, dotate del carisma della profezia.
Tra parentesi. Ogni tanto si trovano persone “dotate del dono della profezia”. In realtà non dimentichiamo che lo Spirito santo, il giorno della Pentecoste, aveva fatto alla Chiesa il dono della profezia, che perciò è di tutti, dovrebbe essere di tutti i credenti. Ancora oggi fatichiamo a distinguere la profezia come dono dello Spirito santo dalla profezia come predizione di qualcosa che riguarda il futuro. Di per sé profezia non è predizione del futuro. Anzi, la profezia, dono dello Spirito santo, riguarda il presente, un presente che è già futuro. Noi solitamente diciamo: quel tale sa prevedere il futuro nel senso che quel fatto poi capiterà. La profezia anticipa in un certo senso il futuro. La profezia fa sì che non si perda troppo tempo posticipando ciò che oggi potremmo già fare. Noi, purtroppo, arriviamo sempre tardi: ciò succede un po’ in tutti i campi, da quello socio-politico a quello ecclesiastico. Il profeta è colui che cammina col passo di Dio, il quale sempre anticipa i tempi che, per vari motivi, ritardano in confronto all’orologio di Dio; e ciò può succedere per vari motivi: per pigrizia, per poca saggezza, per poca oculatezza, per poco discernimento delle varie situazioni. Senza offesa, purtroppo, anche noi cristiani, siamo dei ritardati: arriviamo sempre in ritardo alla tabella di marcia di Dio.
Ed ecco, mentre Paolo e i compagni si trovano a Cesarea in casa di Filippo, giunge dalla Giudea Àgapo, profeta di Gerusalemme, il quale compie un’azione simbolica. Ricordiamo che i profeti non solo profetizzavano con le parole, ma anche con dei gesti. Nell’Antico Testamento troviamo diverse azioni simboliche. Anche la maledizione del fico da parte di Gesù è stata un’azione simbolica.
Che cosa fa Àgapo? Si fa dare da Paolo la sua cintura, poi con questa si lega i piedi e le mani e annunzia la profezia: allo stesso modo l’apostolo sarà legato a Gerusalemme dagli ebrei e consegnato ai pagani. Come era successo a Tiro, anche i cristiani di Cesarea e gli stessi compagni di Paolo lo scongiurano, questa volta tra gemiti e singhiozzi, di non esporsi al pericolo. Ma l’apostolo, pur vivamente commosso, non si lascia convincere: intende compiere la volontà di Dio, anche a prezzo della vita stessa. I compagni e i fedeli, alla fine, si rassegnano.
Il tentativo dei primi cristiani e degli stessi collaboratori di Paolo di dissuaderlo dal recarsi a Gerusalemme per paura di perderlo è più che comprensibile. Nessuno di noi vorrebbe perdere un amico, un maestro, un profeta o un leader carismatico. Non solo per motivi affettivi, ma anche perché lo si ritiene quasi indispensabile. Ricordo ancora la commozione alla morte di Gandhi (ucciso da un fanatico indù nel 1948: avevo appena dieci anni, ma non per questo rimasi indifferente), alla morte di Martin Luther King (ucciso nel 1968), alla morte di Oscar Romero (vescovo di San Salvador, ucciso nel 1980 da un cecchino mentre stava celebrando la Messa), alla morte di Enrico Berlinguer (morto nel 1984 in seguito ad un ictus cerebrale) e, citando due casi vicini a noi, come possiamo dimenticare la commozione alla morte di Vittorio Arrigoni (ucciso il 15 aprile del 2011, perché difendeva a Gaza i diritti dei più deboli tra i palestinesi) e alla morte di Padre Fausto Tentorio (ucciso il 17 ottobre 2011, perché difendeva gli indigeni della tormentata isola di Mindanao, nel Sud delle Filippine)? Potrei citare altri casi.
Questo per dire come nessuno di noi vorrebbe che il proprio leader ci venisse tolto all’improvviso e neppure che egli si esponesse troppo, col rischio di essere fatto fuori. Siamo gelosi, giustamente gelosi. Ci teniamo cari i migliori.
Talora e spesso è proprio quando ci viene tolta che ci accorgiamo del valore di una persona. Ed è proprio il suo martirio a risvegliare la coscienza degli indifferenti. Magari per poco, giusto il tempo delle emozioni. Ma chi rischia la vita merita sempre la nostra ammirazione.
Ora, non posso non fare un richiamo alla attuale situazione politica italiana. Vedete: perché ci sia una buona politica occorrono due cose: l’intelligenza e l’amore spassionato per il bene comune. Ancora una volta, vorrei specificare. Per intelligenza (deriva dal latino intus+legere) intendo la capacità di saper leggere in profondità soprattutto il presente, ovvero il momento storico in cui viviamo, nelle sue varie sfaccettature ed evenienze.
Noi credenti sappiamo che, dopo Dio, l’essere più intelligente è proprio il Principe del male. Perciò stiamo attenti: l’intelligenza non è prerogativa assoluta del bene. Il Maligno sa leggere realisticamente il presente, e che cosa fa? Inocula al momento opportuno ogni sorta di male. E, per fare questo, usa tutti i mezzi a sua disposizione: la calunnia, la menzogna, la corruzione. La cosa peggiore, dunque, è quando l’intelligenza fa corpo unico con la volontà di fare del male. Questa è la cattiva politica.
La buona politica, invece, si ha quando l’intelligenza si unisce all’amore spassionato per il bene comune. Non bastano, dunque, le migliori intenzioni, la buona volontà, e neppure la rettitudine morale. Non può mancare assolutamente l’intelligenza, ovvero quel saper leggere il momento presente per poter poi trovare le soluzioni migliori.
Quando si tratta di fare scelte importanti per il bene comune, occorre anzitutto l’intelligenza di saper cogliere la realtà. È ciò che è mancato alla politica diella sinistra italiana che doveva proporre come presidente della repubblica l’uomo o la donna migliore, in vista del bene comune del paese, senza fare i soliti giochi o giochetti politici in vista di chissà quali alleanze.
In Italia, purtroppo, l’intelligenza è di casa nel campo politico più corrotto, mentre sembra mancare tra le persone più oneste. Oggi la sinistra italiana difetta di “intelligenza”, ovvero di capacità di cogliere il momento presente. Non bastano più (certo, ci vogliono!) le buone intenzioni o la rettitudine morale. La destra italiana è più opportunistica, perché sa trovare la strategia giusta per colpire il cuore della Democrazia.
È triste dirlo: siamo nelle mani di politici corrotti che sanno usare più intelligenza dei politici onesti. Non sembra che possiamo al momento uscire da questa tragica situazione.
Nel campo ecclesiale, parliamo di profeti. Nel campo politico, a che cosa corrisponde la profezia? Per me è l’”intelligenza” del bene comune.

 

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