dal Corriere della Sera
Milano come stai?
Giovanni Azzone: «Aiuti agli oratori e ai più fragili:
questa città ha le risorse contro le diseguaglianze»
di Venanzio Postiglione
Il presidente della Fondazione Cariplo: «Ci preoccupano i working poor, che lavorano ma fanno fatica a sopravvivere»
Un po’ fa strano. Parlare di disagio nei giorni del Salone e del Fuorisalone, con la città colorata, gli appassionati da mezzo pianeta, le passeggiate tra feste e aperitivi. Una Milano amica del mondo, aperta e internazionale, che ci riempie di orgoglio. Ma allo stesso tempo, e proprio per questo, fa bene un salto nell’altra città. La sede della Fondazione Cariplo, di fronte ai Giardini Montanelli. Dove il presidente è Giovanni Azzone, che è stato rettore del Politecnico. Ingegnere e filantropo.
Come sta Milano?
«Difficile rispondere con una parola sola, perché siamo immersi in una realtà molto complessa come per tutte le città. Sicuramente mantiene una forte capacità di attrazione internazionale, come le metropoli più vivaci e innovative. Ma risente dei problemi del nostro tempo, a partire dalle disuguaglianze crescenti».
Com’era la città quando lei era ragazzo?
«Ho ricordi di Milano da provinciale. Da bambino si andava a messa a Santa Maria delle Grazie. La città poi è diventata la mia vita al Politecnico e ricordo ancora le notti nebbiose in cui si usciva dalle aule gradevoli dell’università e si tornava verso casa».
Ecco. Un legame speciale con il Politecnico: studente e poi rettore.
«Dovrei dire che… sono un prodotto quasi negativo: come succede a volte nelle università italiane, non sono mai uscito dal Politecnico. Ma ho partecipato a una serie di avventure che hanno rappresentato il cambiamento stesso dell’ateneo, come la nascita di Ingegneria gestionale. E poi, via via, la crescente apertura internazionale».
Si parlava di città scintillante. Ora è un po’ cambiata la narrazione, forse anche la sostanza. C’è un malessere della città?
«Come per altre metropoli le disuguaglianze aumentano, ma rimane una parte fortemente brillante. È un crocevia internazionale tra i più importanti nel mondo. Poi, come sempre, arrivano persone che hanno difficoltà a trovare un loro progetto di vita».
E quali problemi vede, in particolare, da un osservatorio straordinario quale è la Fondazione Cariplo?
«È davvero un osservatorio speciale, perché consente di entrare in contatto con realtà molto diverse e percorsi individuali differenti. Alcuni problemi li conosciamo tutti, a cominciare dal caro affitti e dalla difficoltà di arrivare alla fine del mese per alcune famiglie. E poi ce ne sono altri che stanno emergendo oggi. Ne cito uno su tutti: il tema dei “working poor” cioè persone che hanno un posto di lavoro, e quindi sono potenzialmente integrate nella società, ma fanno fatica a sopravvivere in modo decoroso con il proprio stipendio».
Lei è ingegnere e filantropo. Serve anche un approccio scientifico per immaginare la beneficenza e fare del bene?
«L’ingegnere è qualcuno che vuole cambiare il mondo, ha in animo di rendere il contesto diverso, migliore rispetto a quello che ha trovato. Vuole innovare, non solo studiare. Ecco, il filantropo ha un po’ lo stesso obiettivo, ovviamente su un piano diverso e anche più ampio. Se poi parliamo di un ingegnere dei sistemi, che è il mio campo, allora c’è un modo di esaminare i problemi che può servire per la filantropia».
File al Pane quotidiano anche nei giorni di Pasqua. Immagini che feriscono.
«Credo si debbano trovare tante soluzioni diverse, perché le persone in coda hanno storie diverse. Non c’è un’unica ricetta. Noi come Fondazione Cariplo andiamo a sostenere progetti differenziati: per qualcuno, per esempio, un supporto per i figli in modo da avere un’attività lavorativa continuativa. I doposcuola sovvenzionati sono un obiettivo importante».
C’è un progetto che le sta particolarmente a cuore?
«Uno che stiamo lanciando adesso: il sostegno significativo agli oratori. Perché sono un luogo di integrazione forte, forse quello più forte nel nostro territorio: sostenerne lo sviluppo è un passaggio chiave. Sono spazi inclusivi, che spesso accolgono i più fragili e danno un’opportunità di relazioni. Il rapporto con gli adolescenti credo sia vitale per il futuro. E poi vogliamo lavorare sempre di più sull’inclusione lavorativa».
Com’è il rapporto delle università con la città?
«Oggi gli atenei sono una risorsa riconosciuta. Il legame è diventato più stabile e sinergico rispetto al passato».
E gli studenti? La metropoli inclusiva per eccellenza sta diventando esclusiva?
«La città dà ancora opportunità, riesce sempre ad attrarre risorse. Non sempre queste risorse vengono usate per generare uguaglianza: è un tema su cui credo dovremo lavorare molto».
Nel suo incarico vede l’effetto delle scelte.
«Sì, un effetto più diretto rispetto all’università. In base alle decisioni cambierà la vita di alcune persone. È un aspetto che porta ad appassionarti e ti dà anche una grande responsabilità».
Qual è la vera vocazione della città?
«Non avere una sola vocazione. La sua flessibilità. È una città che è riuscita a passare dalle industrie ai servizi. Oggi l’università e il sistema sanitario sono una fonte di attrazione come non erano 10, 20, 40 anni fa. La capacità di adattamento è forse il talento migliore della città».
Milano ha ancora il cuore in mano?
«Sì. Non esiste un problema per il quale non ci sia già qualcuno che se ne sta occupando. Il terzo settore, la sussidiarietà, hanno arricchito la città: un punto di forza per il presente e il futuro».
Il Salone del Mobile che accende le piazze, una fetta della città che chiede aiuto. Ci sarà un modo, un passo alla volta, per tenere assieme tutto.
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