Omelie 2020 di don Giorgio: DELL’INCARNAZIONE

20 dicembre 2020: DELL’INCARNAZIONE
Is 62,10-63,3b; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a
Rallegrati, gioisci!
La sesta domenica di Avvento, a pochi giorni dalla Festività natalizia, la Liturgia ambrosiana la dedica alla Divina Maternità della beata sempre vergine Maria.
Dunque, Maria in attesa è già pronta a partorire il Figlio di Dio, fattosi carne nel suo grembo verginale, per opera dello Spirito santo.
Nei brani di oggi risuona forte un invito, ripetuto dall’apostolo Paolo: “Siate lieti”! In greco: Χαίρετε. Gioite! Rallegratevi!
Lo stesso invito, con lo stesso verbo in greco, è rivolto dall’arcangelo Gabriele a Maria di Nazaret: Χαῖρε, rallegrati, gioisci.
Banalmente veniva tradotto in latino con “Ave”, salve, ti saluto.
No, in greco c’è: Χαίρετε, gioite, rivolto ai cristiani, Χαῖρε, gioisci, rivolto a Maria di Nazaret.
Immaginate il senso che potrebbe avere la nostra attesa: attendere con gioia e nella gioia. Ma forse anche la parola “gioia” ha perso oggi ogni suggestione, ogni emozione, quella realtà profonda che ha le sue radici nell’essere divino.
È vero che l’attesa di Maria è differente dalla nostra: noi attendiamo la nascita di Gesù Cristo, mentre Maria attendeva di dare alla luce il Figlio di Dio concepito uomo nel suo grembo verginale.
Ma è proprio così? La gioia di Maria non è la stessa gioia nostra, se è vero che il Natale, nel suo Mistero divino, è la Ri-nascita del Figlio, il Logos di Dio, come ha scritto Giovanni nel Prologo del quarto Vangelo? Una Ri-nascita che non è la commemorazione storica di un evento del passato.
Ri-nascita significa che in realtà il Figlio di Dio, il Logos eterno, nasce di nuovo, realmente, non tanto come ricordo di un evento storico, ma ri-nasce nel nostro essere interiore.
E allora diciamo che la Ri-nascita del Figlio di Dio nel nostro essere è ancora più grande, diciamo più strepitosa, perché è ancor più gravida di gioia che non la nascita del Figlio di Dio nel grembo carnale di Maria di Nazaret.
Il Natale è una Ri-nascita mistica, al di là dunque di quella nascita fisica nel grembo di Maria.
E allora risentiamo dentro di noi l’invito pressante: Χαίρετε, gioite, rallegratevi, siate lieti!
Caro cristiano, non devi gioire perché arriva la festa di Natale, ma perché tu, io, noi siamo il Natale!
Io sono il Natale, ovvero la Ri-nascita nel mio spirito interiore del Figlio di Dio.
E allora anche io sono in attesa, in attesa come Maria, più di Maria di Nazaret, pronto per mettere al mondo non tanto fisicamente, come Maria di Nazaret, ma misticamente il Figlio Dio, il Logos eterno.
La Mistica va al di là della storia intesa come un insieme di eventi carnali.
La nascita di Cristo è più che un evento storico. La parola “evento” vuol dire “viene da”, proviene dal passato. Il Natale è avvento, perennemente avvento, va verso… un futuro che si fa presente, eternamente presente.
Afferrate la differenza tra la gioia per un evento del passato e la gioia per una realtà che viene sempre?
Il Natale come Mistero divino non è qualcosa di già sgravato, ma una realtà sempre gravida pronta a partorire figli divini.
Figli di Dio si è già, certo, quando siamo stati concepiti nel grembo di nostra madre, ma figli di Dio si ridiventa nell’Eternità, come un ininterrotto fluire dal seno trinitario.
Dunque, il Mistero natalizio è qualcosa di sconvolgente, proprio perché è sempre gravido di Vita perenne.
E noi siamo riusciti a creare attorno al Natale una coreografia di emozioni carnali, tutte legate al corpo o al massimo alla psiche, lasciando lo spirito del nostro essere quasi mortificato, al massimo accarezzato banalmente da qualche rito sacramentale, come se vivere il Natale fosse solo confessarsi e fare la comunione, partecipare alla Messa più solenne, e poi immergersi nella gioia conviviale che si esaurisce in un solo giorno o al massimo in pochi giorni.
Non credo che l’apostolo Paolo ci dicesse: Siate lieti, immergendovi nell’atmosfera natalizia, fatta di colori, di suoni, di musiche, di danze, di cibi e di poesie di bambini.
Χαίρετε, gioite, rallegratevi!, ci ripete san Paolo.
Χαῖρε, rallegrati, gioisci, ripete l’angelo a Maria, e in Maria a ciascuno di noi.
In greco, grazia è χάρις. Non c’è bisogno di una laurea per capire che tra il verbo χαίρω (io gioisco) e χάρις (grazia) ci sia un legame. Solo la grazia è gioia piena, e la grazia richiama ciò che è gratuito, il dono per eccellenza che è il Bene Sommo.
La gioia è legata alla grazia, al gratuito.
Ecco perché quando mi chiedono quali sono le due parole più appropriate per il Mistero natalizio, rispondo: essenzialità e gratuità, da qui la bellezza della gioia più profonda.
Il consumismo toglie al Mistero del Natale la sua essenzialità e la sua gratuità. Già lo scambio di doni è qualcosa di interessato: do per ricevere in cambio.
Ogni essenzialità è nudità: non c’è scambio, non è possibile; ciò che mi è richiesto è che io svuoti il mio essere delle cose per lasciare il posto al Dono. Il dono di Dio è esigente: vuole in noi il vuoto perché il dono possa farsi pienezza di Grazia divina.
Essenzialità è distacco, ecco il nostro impegno, se vogliamo vivere in pienezza il Mistero della Nascita di Dio in noi.
Certo, anche le cose danno dei piaceri, ma passano velocemente, perché sono sensazioni carnali, come passa velocemente anche quel senso di felicità, legata a emozioni della nostra psiche.
La gioia mistica è tutt’altra cosa. Gesù stesso parla di beatitudine dello spirito. Beato è il nobile, colui che vive nella grazia divina, che è essenzialità e gratuità.
Forse i primi a non saper gustare (passi il verbo che sa di senso carnale) la gioia del Mistero natalizio sono proprio quei credenti che hanno tra le mani un tesoro, e lo barattano con un piatto di lenticchie, e ora capisco perché già San Paolo ha sentito il bisogno di invitare i primi cristiani a essere lieti. Χαίρετε, gioite, rallegratevi!
Da allora forse la Chiesa ha cessato di invitare i cristiani a gioire, perdendo via via le due parole più appropriate per vivere il Mistero natalizio: essenzialità e gratuità.

1 Commento

  1. simone ha detto:

    Caro don,
    ho visto il video sulla serata penitenziale tenuta dall’arcivescovo. Ci tengo a dire che la proposta ha cambiato forma in corso d’opera: annunciata come una confessione comunitaria (applicazione della terza forma) è poi stata completamente stravolta e a mio avviso ha perso qualsiasi senso. Poteva esser vista come un momento iniziale per la seconda forma ma non essendoci possibilità di confessione e assoluzione individuale è rimasta una funzione appesa, che non ha trovato ancora un senso. Il senso potrebbe essere un tentativo di giustificare la non possibilità di applicare la terza forma: c’è bisogno di una funzione in Duomo per farlo? Il centro è quando dice che non avendo potuto confessarsi a Pasqua non possiamo saltare anche l’occasione del Natale. A me sembra proprio che la situazione delicata della pandemia avrebbe dovuto imporre una apertura a forme meno “rischiose” con l’unico intento di riavvicinare l’uomo a Dio. C’è troppa confusione nella chiesa oggi, soprattutto in quella milanese e poco coraggio. Paura di cosa mi vien da chiedere? Nella regione ecclesiale del triveneto è stata concessa e promossa da metà dicembre a dopo l’epifania la riconciliazione secondo la forma terza. Una forma che è espressamente voluta per periodi epidemici o di gravi calamità.
    Ma oltre a questo io vedo un evidente disinteresse verso la possibilità di favorire l’incontro tra l’uomo e Dio. Mi pare evidente, e me ne prendo ogni responsabilità, che spesso la chiesa diventa ostacolo per questo incontro.
    Vogliamo parlare di come, negli ultimi 10 anni, nelle parrocchie si amministra il sacramento della riconciliazione in prossimità delle grandi solennità? I preti son pochi, il tempo sempre meno e allora si pagano preti di ogni nazionalità che risiedono a Roma per studi, si ospitano per una decina di giorni e questi confessano 8h di seguito capendo poco o niente della nostra lingua. Che senso ha?

    Parlando di forma seconda, ossia di un cammino di riconciliazione all’interno della chiesa perchè non promuoverla con costanza? Una sera al mese dove una meditazione introduce l’esame di coscienza personale con la possibilità di riflettere sui tanti peccati che si fanno senza nemmeno averne percezione. Confessione individuale e poi un momento finale di ringraziamento e impegno comunitario. Insieme, nella chiesa, col supporto di tutti ci sforziamo di superare i nostri limiti con l’aiuto della Grazia. Quanti bei progetti di bene potrebbero nascere come semi di riconciliazione. Segni di carità.
    Invece spesso chiedere di confessarsi e dilungarsi nel confronto sembra quasi un fastidio arrecato al sacerdote.

    A me sembra che manchi in maniera evidente la volontà di favorire l’incontro tra l’uomo e Dio. Si potrebbero fare tantissime cose ma non le si fanno. Si preferisce dare la priorità a feste e cene.

    Poi, dal punto di vista del penitente quando ci si può sentire realmente assolti? Basta la formula che applica il sacerdote? Oppure serve rispettare il proposito di non peccare più? Questo è un passo fondamentale, a mio avviso, del sacramento della confessione. Puoi andare ogni mese a raccontare sempre le stesse cose ma che assoluzione stai ricevendo se tra poche ore ricadrai nello stesso peccato senza nemmeno provare a resistere? Dov’è il cuore pentito, contrito che desidera il cambiamento?
    Il sacramento della riconciliazione va spiegato da zero.
    Per me deve avvenire nella comunità con costanza, non amministrato abbondantemente solo a ridosso delle feste. Deve essere il segno di un cammino di crescita comunitario che ci aiuti a ricostruire l’identità della Chiesa.

    L’unica cosa che ho condiviso della serata è l’accenno al fatto che la carità (vera) cancella molti peccati. Il farsi prossimo a chi ha bisogno senza interesse o ricerca di visibilità. Quella è la via per una piena riconciliazione dalle nostre colpe. Peccato non ci siano cammini che favoriscano questo.

    Caro don, le auguro un santo Natale e grazie per le sue preziose riflessioni.

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