La morte di un uomo solo

da www.huffingtonpost.it
IL BLOG
20/05/2020

La morte di un uomo solo

Gian Carlo Caselli
Magistrato
Il 23 maggio di 28 anni fa, a Capaci, polverizzando un Km e mezzo di autostrada e mirando dritto al cuore dello Stato, Cosa nostra sterminava Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i ragazzi della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
La storia di Falcone è il paradigma di una tendenza del nostro Paese a disegnare la reputazione – anche delle persone migliori – con gli alti e i bassi di un otto volante, in ragione di polemiche scatenate ad arte e/o prive di reale consistenza. Falcone è stato sulla cresta dell’onda quando il capolavoro del “Maxi-processo” ( costruito con gli altri giudici istruttori del pool antimafia di Palermo diretto da Nino Caponnetto) fece emergere – squarciando la cortina di impunità e complicità fin lì dominante – le responsabilità di oltre 450 mafiosi, per un migliaio di delitti distribuiti su decine e decine di anni. Le condanne in primo grado furono 19 ergastoli e oltre 2600 anni di reclusione (16 dicembre 1987). Ma ancor più importante, si dimostrò che Cosa nostra non è affatto invulnerabile. Può essere contenuta e sconfitta, purché lo si voglia e si sappia ( così Falcone) “contrapporre organizzazione a organizzazione”.
Falcone aveva reso un servizio di incalcolabile portata al nostro Paese, ma fu ripagato con una serie di “schiaffoni” che gli italiani della mia generazione stanno dimmenticando mentre quasi tutti i giovani ne sanno poco o nulla. Il primo colpo fu il più doloroso. Dovendosi designare il successore di Caponnetto, con una decisione a dir poco sconcertante, la maggioranza del CSM (19 gennaio 1988) non nomina il più bravo dell’antimafia, il grande protagonista del maxi. Falcone viene scavalcato da Antonino Meli, un magistrato digiuno di processi di mafia, semplicemente più anziano.
Con questa nomina il pool è morto, il suo metodo di lavoro vincente cancellato. Le inchieste (come trent’anni prima) tornano a essere spezzettate e distribuite a pioggia. Il segnale politico è chiaro: anziché proseguire sulla strada del pool che stava portando alla sconfitta della mafia, si decide di fermarsi. Circondata la fortezza, lo Stato si ritira. Smette di combattere a un passo dalla vittoria. Un suicidio. Per Falcone anche un’umiliazione profonda. Dirà Paolo Borsellino, nel trigesimo della morte dell’amico, che “il paese, lo stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro cominciò proprio a farlo morire quel 19 gennaio”, con “motivazioni risibili” e “qualche Giuda che si impegnò subito a prenderlo in giro”. Intanto si sviluppa una furibonda campagna di delegittimazione nella quale Falcone viene accusato di nefandezze assortite; per esempio di “maccartismo”, per aver costruito col Maxi “un meccanismo spacciato come giuridico” ma utilizzato per altri fini “dai giudici capitanati” da lui (vedi “Il Giornale” del 19 novembre 1988).Falcone deve anche scontare la “colpa” di non essersi limitato a colpire l’ala militare di Cosa nostra; con lui il pool aveva osato indirizzare le indagini anche verso le complicità esterne ( Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania…), cioè verso quella “zona grigia” che è insieme spina dorsale e corazza protettiva dell’organizzazione criminale.
Nel 1989 si apre una torbida stagione di dossier, di corvi e di veleni. Cinque esposti anonimi accusano falsamente Falcone , insieme ad altri, di avere consentito al “pentito” Salvatore Contorno di tornare in Sicilia per commettere numerosi omicidi. Tra gli scogli antistanti una villetta all’Addaura affittata da Falcone per il periodo estivo, viene piazzata una borsa per colpirlo con un potentissimo ordigno esplosivo. L’attentato fallisce per puro caso, ma viene vigliaccamente fatta circolare la voce (perfino nei corridoi del CSM) che Falcone se l’era organizzato da solo per favorire la propria nomina ad Aggiunto nella Procura di Palermo. Qui Falcone subisce una penosa odissea di mortificazioni da parte di un capo che lo emargina e lo costringe ad imbarazzanti ed estenuanti anticamere sotto gli occhi di tutti. Il sindaco Orlando lo accusa pubblicamente di aver tenuto carte importanti in un cassetto. Falcone si candida al CSM ma i colleghi magistrati della sua corrente gli preferiscono un altro e non lo votano. Non mancano “probi cittadini” che scrivono ai giornali protestando per il fastidio causato alla quiete cittadina dalle auto a sirene spiegate di Falcone, invitato a togliere il disturbo relegandosi in qualche ghetto “fuori porta”. L’aria a Palermo si fa irrespirabile. Alla fine Falcone decide di “emigrare” e di chiedere una sorta di asilo politico-giudiziario al Ministero della giustizia di Roma, dove continua con determinazione il suo impegno antimafia. Le accuse e gli attacchi ingiusti riprendono con toni di inusitata asprezza quando si avvicina il giudizio definitivo della Cassazione sul maxiprocesso, mentre Falcone è candidato a dirigere l’istituenda Procura nazionale antimafia. Il 29 ottobre 1991, sul quotidiano Il Giornale di Napoli diretto daLino Jannuzzi compare un articolo (non firmato perciò riferibile al direttore) dal titolo Cosa nostra uno e due. In esso Falcone viene definito uno dei “maggiori responsabili della débacle dello Stato di fronte alla mafia”. E se Falcone fosse stato nominato PNA, sarebbe stato necessario “guardarsi da due ‘Cosa nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”.
Il 30 gennaio 1992 la Corte di cassazione conclude con sentenza definitiva l’iter processuale del “maxi” e sostanzialmente conferma le condanne del primo grado. Ripetiamolo: finalmente (dopo anni di tentativi giudiziari spesso vani) cessa la vergognosa stagione dell’impunità di Cosa nostra. Nessun risultato avevano ottenuto i pesanti tentativi di aggiustamento del processo posti in essere attraverso vari canali dai boss di Cosa nostra. Uno smacco e un affronto intollerabili. La lacerazione di un patto di scambio nel quale i boss avevano creduto, garantendo agli affiliati l’esito favorevole del processo.
Si apre, per Cosa nostra, la stagione della “resa dei conti”, sul versante “politico” e su quello “giudiziario”. Qui il furioso messaggio di rabbia di Cosa nostra inizia proprio con la strage di Capaci. E Giovanni Falcone torna ad essere considerato ( da molti con laida ipocrisia) un eroe: ma solo dopo morto, dimenticando con colpevole disinvoltura i torti che aveva dovuto sopportare in vita.

4 Commenti

  1. antonio ha detto:

    E se la mafia contemporanea fosse banalmente una funzione del capitalismo… ? Del resto la burocrazia, quella dei triliardi degli appalti, anche nei contesti macerati dal clientelismo più iniquo e osceno, senza le ‘mafie’ non potrebbe risolvere alla luce del giorno tutti i ‘problemi’ dei massoni…

    Non è ancora possibile, per fare solo un esempio banale, istituire una ‘terra dei fuochi’ per decreto, c’è dunque ancora bisogno delle mafie per avere il massone sazio, la seconda casa al mare per l’amministratore, il ‘posto’ per il figlio del tecnico comunale e, ultimo ma non ultimo, l’imprenditore competitivo sul mercato.

    Il cerchio del capitalismo si chiude solo perché esistono le mafie, altrimenti non potrebbe offrire ghiande a servetti e alle servette del materialismo consumistico. Che il capitalismo funzioni per regole non scritte… è fatto più certo dell’esistenza dei mari e dei monti.

    Per quanto riguarda invece i ‘bazooka’ dei capitalisti, i media di massa vecchi e nuovi, di certo sono strumento essenziale di asservimento e dominio, ma senza il determinante contributo dei sicari delle mafie a correggere alla cinese le ‘anomalie’, cioè facendole scomparire… potrebbero ciclicamente trasformarsi in ‘boomerang’.

    In definitiva, la lezione del 1789 ha insegnato molto ai massoni, troppo poco al popolino, ecco perché oggi i massoni non dicono più ai propri bravi ‘Abbiamo ospiti importanti! Stasera quattro minorenni, due maschietti e due femminucce’, ma fanno dire al popolino mendicante , in ammirata processione davanti a lussuose residenze e miraggi di stili di vita stracolmi di consumismo e materialismo: “lei, lei! prenda mia figlia tra le sue lenzuola stanotte signor massone!”

    Messo a cuccia il popolino, corrotto nei valori ed evirato di ogni dignità, agli ‘errori’ di sistema, ai Socrate ci pensa la mafia. La mafia dunque non è un dettaglio o un mero effetto collaterale, è a pieno titolo un elemento necessario, una pietra angolare del capitalismo…

    Falcone e Borsellino sono morti perché gli ‘uomini d’onore’ sono la ciurmaglia del capitalismo, i mafiosi non sanno neppure per chi lavorano… non sanno neppure di lavorare per qualcuno, hanno infatti colpito a morte due tecnici dello Stato delle leggi scritte, non sapendo chi altri colpire per la ‘revoca della licenza’… a favore naturalmente di altra organizzazione. Si sono trovati nel momento sbagliato nel posto sbagliato, quando cioè il capitalismo ordina il cambio dello stagista addetto alla fotocopiatrice.

  2. Luigi ha detto:

    Nei racconti di Antonino Caponnetto sul rapporto tra Falcone e Buscetta penso ci sia la verità della morte di Falcone. Le prime parole che si scambiarono furono queste: “L’avverto, signor giudice. Dopo quest’interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E’ sempre del parere di interrogarmi?” Per Falcone, Buscetta fu come un professore che gli insegnava una lingua straniera permettendogli di comunicare con le parole e non più con i gesti. Dopo la morte, Buscetta lo ricordò così: “Era il mio faro, ci capivamo senza parlare. Era intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a parlare con lui”. Buscetta aveva piena fiducia in Giovanni Falcone non si fidava di nessun altro perché era convinto che lo Stato italiano non avesse veramente l’intenzione di combattere la mafia. Oggi le cose sono cambiate rispetto al passato? Non saprei rispondere dopo il recente scontro tra Di Matteo e Bonafede. “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.” (Martin Luther King)

  3. Lanfranco consonni ha detto:

    Segnalo che questa sera su Rai1 trasmettono la storia di Felicita Impastato, mamma di Peppino, un telefilm per raccontare 20 anni di lotta alla mafia nella storia di una protagonista.

  4. Giuseppe ha detto:

    Troppo onesto per piacere ai “poteri forti”. Troppo bravo per fare carriera e andare a dirigere il “pool antimafia”.
    Purtroppo nel nostro paese c’è la cattiva sbitudine di far fare carriera ai mediocri, sacrificando così menti eccellenti e le persone realmente meritevoli.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*