Torture e violenze sui minori detenuti. Così funzionava il “sistema Beccaria”

da milano.repubblica.it
23 APRILE 2024

Torture e violenze sui minori detenuti.

Così funzionava il “sistema Beccaria”

di Rosario Di Raimondo
Le intercettazioni degli agenti arrestati e le percosse ai giovani: «Manco la mamma li riconosceva per quanti schiaffi hanno preso».
Il 18 novembre di due anni fa, il giovane detenuto S.Z. viene accusato dell’incendio scoppiato nella sua cella. Sette agenti vanno a prenderlo: mani dietro la schiena, manette, calci, pugni e sputi. Per dieci giorni va in isolamento. Durante i primi tre non ha un materasso, un cuscino, delle lenzuola. Un mese dopo, quattro divise pestano K.M.: «Perché hai rotto i coglioni?». Dopo il pestaggio sanguina dalla bocca: «Figlio di puttana, vedi di sciacquarti perché altrimenti te ne diamo altre». Prima di Natale tocca ad A.C.: «Ti sparo, ti ammazzo», le minacce. Un altro viene preso a cinghiate sui genitali fino a sanguinare mentre la colpa di A.H. è quella di essersi ribellato alle molestie sessuali di un poliziotto: in gruppo lo portano in una cella d’isolamento. Nudo, ammanettato. «Bastardo, arabo, zingaro».

Il sistema Beccaria

«Un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni, pestaggi di gruppo realizzati dai poliziotti a danno dei detenuti minorenni»: questo era, fino a poche settimane fa, il carcere minorile Beccaria di Milano, come scrive la gip Stefania Donadeo e come svelato dall’inchiesta della procura con le pm Rosaria Stagnaro, Cecilia Vassena e l’aggiunta Letizia Mannella che hanno coordinato il lavoro della squadra Mobile diretta da Adolfo Iadevaia e del nucleo investigativo della stessa Polizia penitenziaria, guidato da Mario Piramide. Venticinque poliziotti indagati, tredici in carcere, otto sospesi dal servizio dal giudice. Le accuse: tortura, lesioni, maltrattamenti, falso e, in un caso, tentata violenza sessuale. L’indagine è nata un anno fa dalla segnalazione del Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, che ha raccolto le informazioni dell’ex consigliere comunale David Gentili, a sua volta a contatto con una professionista del carcere.
Una dozzina le vittime, diversi i casi, spesso legati da un filo: le violenze avvenivano nell’ufficio del “capoposto” o nelle celle d’isolamento. Spazi senza telecamere. Anche se alcuni pestaggi sono finiti lo stesso sotto gli occhi elettronici e alcune immagini, a detta degli stessi indagati, sono «devastanti». I detenuti avevano paura di denunciare per timore di ritorsioni. Ma poi hanno parlato. Così come hanno testimoniato una psicologa e la mamma di un recluso che in videochiamata ha visto i segni delle botte al figlio.

Calci, sangue e sputi

Botte per tutto. L’accusa di aver fatto qualcosa di sbagliato. Una richiesta incessante per uscire dall’isolamento, avere l’accendino o un farmaco tranquillante. Botte anche se un giovane si “tagliava”. «Mi hanno messo le manette dietro, mi hanno fatto uscire la spalla — racconta a verbale S.Z. — prima uno schiaffo, poi un pugno e un terzo colpo alle parti intime. Da lì ho visto tutto nero. L’ultima cosa che ricordo è che mi hanno sputato addosso». D.M. del suo pestaggio ricorda: «Dalla bocca perdevo sangue, piangevo perché mi hanno dato tante botte. Quella notte non ho dormito, mi facevano male le costole, i denti, la testa. Mi hanno detto: ritira la denuncia o avrai problemi». «E poi dopo inizia a tirare pugni, bam, bam, bam, sentivo che si stava gonfiando tutto», dice A.C. di quei minuti chiuso nell’ufficio del capo. Del resto, conferma un compagno di detenzione, «è lì che picchiano i detenuti perché non ci sono telecamere», e il ragazzo ricorda ancora che «sentivo le sua urla di dolore e qualcuno che gli diceva “uomo di merda”».

La tentata violenza

Una mamma vede in videochiamata il figlio con l’occhio nero, scrive alla direzione del carcere, otto giorni dopo l’ex direttrice risponde rassicurandola sulla «adozione delle procedure previste». Eppure ci sono ragazzi che tornano in cella con «l’impronta degli stivali» in faccia, o che si cospargono il corpo di sapone per non farsi acciuffare quando sanno che le guardie sono in arrivo, o che subiscono quello che ha sopportato S.: «L’agente mi ha spogliato, mi ha ammanettato ai piedi del letto con le mani dietro la schiena facendo uscire gli altri agenti a cui diceva che ci avrebbe pensato lui a picchiarmi». Lo scorso novembre A.H. dorme quando sente una mano che lo tocca e una voce che dice: «Stai tranquillo, voglio solo fare l’amore con te». «Ho reagito in modo violento e l’ho colpito con diversi pugni». Così diventa vittima di una spedizione punitiva: preso dagli agenti, portato in isolamento, picchiato a sangue. Naturalmente, nelle relazioni appare che il poliziotto quella mattina aveva solo cercato di svegliarlo. M.C., davanti ai pm, racconta: «Quando hanno iniziato a picchiarmi, mi sono protetto raggomitolandomi con le braccia attorno al viso, per proteggermi dai colpi. Ho sentito i colpi sulla schiena, il bastone che si rompeva». F.N., dopo una botta in faccia, si è sentito dire: «Questo è uno schiaffo educativo».

Il panico fra gli agenti

«Questa è una conferenza stampa che non avremmo voluto tenere, una vicenda dolorosa, una brutta pagina per le istituzioni», dice il procuratore capo Marcello Viola. Tredici infatti i poliziotti finiti in carcere: Matteo Gusman, Mario Pisano, Roberto Mastronicola, Gennaro Mainolfi (detto «Mma perché picchiava forte», Federico Masci, Simone Talamo, Danilo Iacobucci, Giuseppe Di Cerbo, Christian Meccariello, Raffaele Salzano, Salvatore Imbimbo, Maurizio Cimino e Giovanni Blandino. Tra gli indagati, Francesco Ferone, ex comandante della penitenziaria al Beccaria, che avrebbe «agevolato, contribuito, favorito e coperto le condotte violente integranti i ripetuti maltrattamenti anche attraverso false relazioni di servizio». Picchiare e nascondere, è la regola. Finché la musica non cambia: al Beccaria arrivano un nuovo direttore, una nuova comandante degli agenti, le immagini delle telecamere e le segnalazioni finiscono in procura.
L’agente Talamo si stupisce al telefono con un collega indagato che i vertici del carcere vogliano «fare sul serio»: «Tu sei il direttore, ci devi proteggere, punto. Per un marocchino di merda che manco parla l’italiano…». Due indagati parlano di un paio di detenuti in attesa di trasferimento: «Manco la mamma li riconosceva per quanti schiaffi hanno preso». Però hanno un metodo per cercare di nascondere i pestaggi: «Io so com’è che non gli devo lasciare un cazzo, infatti non hanno un segno addosso». Tra loro al telefono si chiedono: «Mi fa male la mano, c’ho la mano gonfia». Risposta: «Hai già battezzato qualcuno?». E quando tira aria di punizioni, promettono: «Lo facciamo crollare sto cazzo di carcere se si permettono».

“L’hanno scassato di mazzate”

Ancora, una guardia parla di un detenuto che sta per essere trasferito: «Per tutelarlo, perché sennò hanno capito che io lo scasso…qualche sera glielo faccio trovare impiccato». Ma alcuni lo sanno che «le immagini che ho visto sono devastanti». Lo sanno che un detenuto «lo hanno preso da sopra e l’hanno scassato di mazzate, le telecamere parlano chiaro, si vede tutto e bene», e che alcuni agenti vanno in carcere per sfogare la rabbia: «Oggi qualcuno qualche schiaffo lo prende». Lentamente, qualcosa si muove, i fatti emergono, c’è chi non si gira dall’altra parte. Cambia il vento, si scatena il panico. Un agente oggi indagato parla al telefono con Francesco Pennisi, dirigente sindacale del Sappe (non indagato). Si discute dell’idea di presentare certificati di malattia di massa per protestare contro le azioni intraprese nei confronti di un poliziotto. L’agente dice che il vecchio comandante, quando accadevano episodi «spiacevoli», «salvava» le guardie mentre la nuova capa «non guarda in faccia nessuno». Pennisi risponde: «Vabbè, adesso faccio chiamare, gli dico di cacciarla via subito perché sennò qua succede l’inferno». Perché pure i giovani detenuti lo sapevano: «È normale essere picchiati al Beccaria».

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da milano.repubblica.it/
23 APRILE 2024

Don Rigoldi e le violenze

nel carcere minorile Beccaria:

“Non ho visto nulla ma mi sento in colpa.

Avrei dovuto capire”

L’ex cappellano dell’istituto: a volte mi parlavano di qualche schiaffo, ma questi sono fatti gravi e i responsabili minacciavano i ragazzi
di Zita Dazzi
Don Gino Rigoldi, lei ha 84 anni, è stato cappellano del carcere Beccaria per 50. Quasi ogni giorno entra ancora nel penitenziario per ascoltare i giovani detenuti. Non aveva mai avuto sentore di quel che è accaduto?
«Mi sento in colpa, forse devo fare mea culpa per essere stato meno attento del dovuto, per non essere stato in grado di farmi dire quel che davvero succedeva in quelle celle, di notte, quando il carcere era buio e vuoto. Solo loro, i ragazzi e gli agenti».
Non si è mai accorto che qualcuno era stato picchiato, addirittura seviziato?
«Certi giorni li vedevo insofferenti e sofferenti. Ma non sapevo che li menassero in quella maniera lì. Non me lo dicevano, i ragazzi. Il loro racconto era sempre molto superficiale. A volte mi hanno parlato di uno schiaffo. Si può capire che, in mezzo a tanti problemi, possa succedere un incidente, una volta. Ma qui si parla di fatti gravi, e sicuro i responsabili minacciavano i ragazzi per paura che parlassero».
Ma lei conosce questi agenti sotto accusa?
«Li conosco tutti, certo. Alcuni sembravano sbrigativi, altri si diceva che avessero un brutto carattere. Non ho visto con i miei occhi nulla di grave, altrimenti avrei denunciato. Magari nel gruppo, questi comportamenti violenti sono venuti fuori. Però è gravissimo che in ambito penale minorile, qualche agente si accanisca su ragazzetti già sfortunati di loro, che sono in carcere, che stanno scontando una pena. Dovrò in futuro stare molto più attento».
Ma che situazione può aver scatenato la polizia penitenziaria in quel modo?
«Io e l’altro sacerdote che oggi è diventato cappellano, don Claudio Burgio, lo denunciamo da anni: il Beccaria è stato abbandonato per un tempo lunghissimo. Per vent’anni non abbiamo avuto un direttore stabile, ci sono sempre stati problemi di organici, sia fra gli agenti, sia fra gli educatori. Questo i ragazzi lo hanno sentito, considerato anche che non si tratta di fraticelli».
Cioè? Erano loro stessi ingestibili?
«Sono giovani che vengono dalla strada e da situazioni famigliari estreme, in carcere conoscono la violenza, imparano la violenza, diventano violenti a volte, perché sono vittime a loro volta di tante violenze, prima e dopo la carcerazione. Ma questo in nessuna maniera può giustificare la cattiveria, le ritorsioni. Vero che si tratta di 12 episodi di violenza in due anni, però si tratta di pestaggi. E si capisce che c’era una regola di omertà reciproca fra i 13 arrestati. E che altri sapevano, ma non agivano per interrompere la catena delle prevaricazioni e delle punizioni. Questi sono reati che vanno perseguiti».
Si parla anche di una violenza sessuale.
«A un certo punto era girata la voce che ci fosse stato un tentativo di abuso con un manico di bastone. So che il problema era stato affrontato e gestito a livelli superiori. Erano voci, io non ho avuto confessioni, né confidenze. Adesso certo ci sarà più vigilanza su questi fatti. Peccato che si chiuda la stalla quando i buoi sono fuggiti».
E ora, come si può ripartire dopo fatti del genere?
«Finalmente, dopo tanti appelli, abbiamo un direttore stabile, Claudio Ferrari, uno bravo, serio. Abbiamo avuto comandanti vari, un ruolo dove dovrebbe esserci una persona in grado di accudire e controllare. Adesso è arrivata Manuela Federico, anche lei bravissima. Dopo il vuoto che ha probabilmente portato ai fatti gravissimi di cui parliamo, speriamo che ora ci diano anche i venti agenti che mancano e gli educatori che servono perché i ragazzi stiano in gruppo, perché facciano delle attività durante il giorno e non arrivino a sera esasperati. Ce ne sono anche con problemi psichiatrici, psicologici. Vanno seguiti, aiutati. Non picchiati».
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dal Corriere della Sera

Torture al Beccaria,

il cappellano don Claudio Burgio:

«Sono addolorato,

i ragazzi non si sono confidati neppure con me»

di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci
Il fondatore della comunità Kayros: «Il rapporto educativo non può essere impostato sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia»
«Sempre più spesso i ragazzi che arrivano hanno un disagio psichiatrico, o legato all’uso di sostanze o di farmaci. Al Beccaria capita che abbiano comportamenti molto aggressivi o violenti, tra loro e nei confronti degli adulti. Ci sono casi di agenti finiti in ospedale; conflitti scaturiti dal niente, magari per una telefonata o una sigaretta negate. Detto questo, i fatti emersi dalle indagini sono di una gravità inaudita. E una cosa soprattutto mi preoccupa».
Cosa?
«Che i ragazzi non abbiano parlato di quel che accadeva nemmeno a me. Mi dispiace. Prendo atto ancora una volta che, persino davanti a episodi così gravi, noi adulti non siamo riusciti a colmare la distanza e creare confidenza».
Don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone, cappellano dell’istituto minorile Beccaria, ha da poco pubblicato un libro (Non vi guardo perché rischio di fidarmi, edizioni San Paolo). Le sue esperienze e il suo impegno, le sue speranze e il suo pensiero, ruotano intorno a quel concetto: fiducia. È in base a questo che sempre afferma: «Le responsabilità sono anche e soprattutto nostre, non solo dei ragazzi».
Qualcuno potrebbe interpretare questa frase come sottovalutazione di certe condotte devianti. È così?
«La difficoltà, per i ragazzi di oggi, è trovare adulti di cui fidarsi. Intorno alla fiducia ruota la relazione educativa efficace, che manca in molti contesti: da quello estremo carcerario, a quelli di routine. L’origine di tanti mali nasce da qui, ed è trasversale a tutti gli ambienti, anche quelli lontanissimi da carceri e tribunali».
Che ruolo ha la fiducia?
«I ragazzi non trovano adulti che considerano credibili e degni di stima, di cui fidarsi. Gli adulti paiono assenti, lontani, non riescono a intercettare il linguaggio e i pensieri dei ragazzi, a mettersi in dialogo. Approcciare un ragazzo in modo avaro, avendo paura, è già esprimere un giudizio che mina la base di quel rapporto tutto da costruire. Per i ragazzi c’è tanta incoerenza tra quello che gli adulti dicono e quello che fanno. Risultano poco trasparenti, al limite poco corretti. Infatti gli adulti non sono più contestati: sono irrilevanti».
L’indagine che ha riguardato 21 agenti del Beccaria (su 50 totali) parla di «pratiche sistematiche» per «imporre le regole di civile convivenza» e per «educare» i detenuti.
«Il carcere è la punta estrema di quello che c’è fuori, le dinamiche sono esasperate, ma analoghe. Nella detenzione, così come negli altri ambienti, l’azione disciplinare da sola non paga. Il rapporto educativo non può essere impostato sul contenimento e sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia. La forza muscolare della legge applicata a un sistema come quello carcerario, che già è totale, nel senso di chiuso rispetto alla realtà esterna, rischia di sfociare in un totalitarismo».
L’istituto minorile dovrebbe essere l’extrema ratio, ma non è sempre così.
«Sul territorio le comunità spesso non hanno educatori esperti da dedicare ai casi più complicati e le famiglie non sono supportate adeguatamente. La lista dei bisogni si allunga, il numero crescente di minori stranieri non accompagnati aggrava la situazione».
Di fronte alla devianza, cosa dovrebbe fare l’adulto?
«La tendenza è patologizzare e criminalizzare il ragazzo, connotandolo per le sue azioni. Le azioni commesse sono sbagliate, ma far sentire sbagliato il ragazzo aggrava la situazione. C’è tanto in comune. Siamo umani. Abbiamo luci e ombre. La tristezza, ad esempio, appartiene tanto a loro quanto a noi».
Qualcuno pensa che le condotte adolescenziali sempre più aggressive richiedano politiche più repressive.
«Non è certo una legge più dura e severa a fare da deterrente per contrastare la criminalità e il disagio giovanile. Non è la paura dell’arresto, il terrore del carcere a scoraggiare un ragazzo dal commettere reati; un adolescente cambia se si sente investito di fiducia e responsabilità. Se incontra un adulto di riferimento affidabile, capace di offrire reali opportunità di crescita».
Al Beccaria è mancato per anni un direttore dedicato. Ora come va?
«Da qualche mese ne è arrivato uno finalmente presente full time (Claudio Ferrari, ndr), qualcosa sta cambiando. Gli educatori sono stati aumentati e la ristrutturazione, tanto attesa, ha migliorato la fruibilità degli spazi. Manca ancora il comandante e talvolta gli agenti, giovani e senza preparazione specifica e adeguata, finiscono per andare in crisi in un ambiente sicuramente stressante e molto difficile, dove i ragazzi, più di tutto, avrebbero bisogno di padri».
Lei nel libro cita anche casi di rapper diventati famosi e passati dall’istituto minorile, e poi dalla sua comunità, come Sacky e Baby Gang…
«Sono ragazzi di cui mi piace parlare e scrivere, perché per me sono e sono stati fonte di grande insegnamento».
In generale, i casi sono sempre più difficili, dentro e fuori dal carcere…
«Purtroppo, per loro siamo irrilevanti».

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