24 giugno 2018: QUINTA DOIPO PENTECOSTE
Gen 17,1b-16; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
Nel primo brano della Messa si parla dell’Alleanza che Dio vuole stringere con Abramo, a cui viene promesso che diventerà padre di “una moltitudine di nazioni”. L’alleanza avrà come segno visibile la circoncisione: una incisione o mutilazione carnale del prepuzio.
Nel secondo brano, l’apostolo Paolo parla del rapporto tra fede e opere, citando tra le opere anche la circoncisione carnale.
Nel terzo brano, il quarto evangelista mette in scena il contrasto tra la luce e le tenebre, richiamando esplicitamente il Prologo.
Primo brano: circoncisione e battesimo
Sarei anche tentato di dire qualcosa sul primo brano, e soffermarmi sul significato della alleanza, in particolare del suo segno esteriore, ovvero della circoncisione fisica, mettendo in evidenza anche l’importanza esagerata e fuorviante che ebbe nella storia d’Israele, tanto da richiamare le invettive dei profeti che alla circoncisione fisica contrapponevano quella del cuore. E sarei anche tentato di fare un paragone con il battesimo cristiano, che ha soppiantato la circoncisione ebraica, ma senza evitarne gli stessi eccessi in cui sono caduti gli ebrei. Presso ogni religione è sempre difficile, quasi impossibile, evitare di cadere nel pericolo della esteriorizzazione, per cui i riti formali prevalgono sull’essenza della fede.
Terzo brano: difficile da interpretare
Il brano del Vangelo di oggi è di difficile interpretazione. Anche i migliori esegeti non sanno dare una convincente spiegazione. Certo, c’è sempre qualcuno, che si ritiene più bravo degli altri, che vorrebbe far dire al brano cose che forse neppure lo Spirito santo riesce a capire. Forse c’è una ragione, ed è la sequenza di passaggi sconnessi tra loro. A mettere a dura prova la lettura è poi quella citazione del profeta Isaia, dove sembrerebbe che è Dio stesso ad accecare la vista o a indurire i cuori, bloccando così ogni possibilità di conversione.
Secondo brano: fede e opere
Passiamo perciò al secondo brano. Per capirlo bisogna richiamare il pensiero di San Paolo sulla fede e sulle opere. Secondo l’Apostolo, il primato va dato alla fede: le opere senza la fede non valgono nulla. Non mi soffermo sulle discussioni che sono nate in seguito alle affermazioni di San Paolo. La Lettera di San Giacomo sembra quasi dire il contrario: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?». Lutero poi parlerà di “sola fides”, ovvero: soltanto la fede può salvarci, le opere non contano. Ciò poteva implicare l’annullamento della ragione, della libertà umana ecc., ecc.
Non voglio entrare in queste discussioni, ma dire ciò che penso della fede e delle opere. Ogni contrapposizione porta lontano dalla verità. Occorre, dunque, trovare quella via della saggezza che sappia armonizzare i contrasti, ma in quel mondo del Divino, dove tutto è unità, armonia, nella realtà dello Spirito.
Alla ricerca dell’unità dell’essere umano
Subito un chiarimento. Quando si parla di fede, bisogna fare una distinzione. La fede di cui parla San Paolo e di cui poi parleranno i Mistici va distinta dalla cosiddetta credenza religiosa. La fede è qualcosa di profondamente interiore, mentre la credenza religiosa è un insieme di riti, di gesti, ovvero di qualcosa di esteriore che impegna soprattutto il corpo. La fede vive del profondo divino, la credenza è dettata dalle istituzioni religiose.
La fede sfugge alla mediazione della Chiesa istituzionale, mentre la credenza fa parte della mediazione religiosa.
È chiaro che la fede non deve restare qualcosa solo di interiore, ma deve coinvolgere anche il corpo umano nelle sue manifestazioni.
Ma, ecco il paradosso della fede, tanto più si è ricchi di interiorità di fede, tanto più il nostro vivere umano, sociale e religioso avrà una particolare ricchezza.
Le opere senza la fede non contano, e qui ci siamo: nel senso che le opere a se stanti sono qualcosa di puramente esteriore, qualcosa di meccanico. Ma la fede interiore non può restare qualcosa di passivo, di goduto in proprio: essa spiritualizza il nostro vivere, ma non nel senso che lo aliena da questo mondo, ma nel senso che dà alla nostra esistenza il suo autentico significato.
Forse è difficile spiegare queste cose agli uomini di oggi, preoccupati solo o di salvare il proprio corpo o di salvare l’anima per l’aldilà.
Eppure, basterebbe poco per renderci conto che qualcosa non va: viviamo in un mondo alienato e alienante. Mi spiego. Questo mondo è alienato dalle cose e dai beni materiali, da una ricerca spasmodica di felicità dell’avere. Ed è alienante, perché la religione, che non sembra in calo in quanto alienante, crea nel credente o nel falso credente attese o speranze, cercate fuori del proprio essere interiore: le credenze, nonostante le apparenze, aumentano vorticosamente appagamenti di un’anima a metà strada tra lo spirito e il corpo.
Il mondo dello spirito, ovvero di ciò che è la realtà più profonda dell’essere umano, è sconosciuto, messo a tacere da una scienza o pseudo-scienza (pensate alla psicanalisi) che indaga solo la psiche o l’anima, ignorando totalmente la realtà dell’essere umano, che è lo spirito; e il mondo dello spirito è fatto tacere di proposito dalla religione, perché è ritenuto troppo pericoloso per la struttura religiosa, la quale vive di mediazione, ma la mediazione non può nulla sul mondo dello spirito.
Conseguenze deleterie
Quali sono le conseguenze? Rimaniamo nel campo della Chiesa. Ignorando o opprimendo il mondo dello spirito interiore, essa educa il credente ad una fede esteriore, che si chiama credenza, togliendo alla fede la sua realtà divina.
E allora ecco la domanda: i cristiani di oggi sono credenti che privilegiano il mondo dello spirito, o credenti che privilegiano il mondo delle credenze? Noi ci accorgiamo di questo fenomeno allarmante in occasioni di funerali, di matrimoni, di prime comunioni e di cresime, ecc.
Dov’è la fede evangelica? Il lavoro da fare per riscoprirla è duro e lungo, ma bisogna pur iniziare da qualche parte.
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