Omelie 2021 di don Giorgio: S. STEFANO, primo martire

26 dicembre 2021: S. STEFANO, primo martire
At 6,8-7,2a; 7,51-8,4; 2Tm 3,16-4,8; Mt 17,24-27 oppure Gv 15,18-22
Ogni festa cristiana richiama uno dei Misteri della nostra fede, e andrebbe perciò vissuta nel contesto della Liturgia che, nella sua bimillenaria saggezza pedagogica, quasi ci prende per mano per condurci alla sorgente o al cuore del Mistero divino.
La Liturgia è un insieme anche di riti, più o meno esteriori (orazioni, gesti, luci, canti, ecc.): nella maturità di una fede che va oltre ogni carnale ritualismo, sta a noi cogliere l’essenzialità del Mistero, che richiede perciò grande attenzione interiore, quella dello spirito, e richiede pura contemplazione, quella dell’intelletto.
Mai si insisterà abbastanza sull’educare la gente a non fermarsi agli aspetti esteriori, tanto più che viviamo in una società, che ci porta già di per sé a restare fuori del nostro essere interiore. Proprio per questo, dunque, la gente va educata ad una spiritualità sempre più profonda, ma ciò richiede anzitutto che la gerarchia (papa, vescovi, preti e suore) per prima dia il buon esempio.
Chiariamo. Si parla di Misteri divini (il Mistero trinitario, il Mistero della incarnazione del Figlio di Dio, il Mistero pasquale), in realtà il Mistero è Unico, ma la Liturgia parla di cicli che riguardano eventi (la nascita di Gesù e la sua passione, morte e risurrezione) che tornano ogni anno perché siano celebrati in una purezza di fede interiore.
La Liturgia, dunque, mette questi eventi in un contesto ciclico, che pedagogicamente aiuta il credente a riscoprire in profondità il cuore del Mistero divino, attraverso anche segni, simboli, allegorie, perfino miti, per non parlare di figure angeliche o di testimoni, che hanno la funzione di richiamare la nostra attenzione su qualcosa di talmente Misterioso, che si serve di ogni sua creatura, pur di stimolarci nel nostro essere interiore.
Chi di noi non si è mai chiesto perché il giorno dopo il Natale la Liturgia ci propone la celebrazione della festa in onore di Santo Stefano, oppure perché il giorno dopo la Pasqua troviamo la festa dell’Angelo?
“Stranezze!”, qualcuno dirà. Forse non è così.
La festa dell’Angelo, che si celebra il giorno dopo la Pasqua, si può giustificare, pensando all’importanza dell’angelo o degli angeli, che nel sepolcro vuoto annunciano alle donne che Cristo è risorto.
Forse avrei preferito che si celebrasse la festa della donna, dal momento che Gesù appare per primo a Maria di Magdala. Ma anche la donna, forse più del maschio, è un angelo: porta un messaggio che è nella sua stessa natura di donna.
E poi, diciamo che, se il Vangelo è l’Annuncio della Novità, allora la figura dell’Angelo (colui che annuncia) è essenziale nel caso della Pasqua, e anche nel caso della Nascita di Gesù: anche qui la presenza degli angeli è importante, come evidenzia l’evangelista Luca.
«C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”».
Anche io facevo fatica a comprendere il senso della Festa in onore di Santo Stefano, da celebrare il giorno dopo il Natale, tanto più che la Liturgia aggiungeva al nome “S. Stefano” proto o primo martire. Dopo un giorno di gioia, come si può il giorno dopo festeggiare un martire, uno che ha donato il sangue, perciò uno che richiama una violenza subìta?
Eppure, mi chiedevo anche: che senso ha una celebrazione natalizia, vissuta in una parentesi eccessivamente emotiva oltre ogni misura, così da coprire la realtà di un Mistero, quello del Logos che si è fatto carne, che sta all’origine del Cristianesimo, senza dunque da parte del credente una testimonianza vitale?
E quando penso al martirio di Santo Stefano, penso alle sue parole, che hanno scatenato l’ira dei caporioni ebrei: «Ecco, contemplo i cieli aperti…».
In Avvento la Liturgia ci ripropone le parole del profeta Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi…” (Is 63,19), ed ecco che Stefano finalmente vede i cieli aprirsi. E la sua testimonianza coinvolge la sua vita, senza temere la morte.
Il Figlio di Dio ha squarciato i cieli ed è disceso tra noi, in noi, e noi credenti non possiamo non testimoniare l’irruzione di Dio nella storia: egli è venuto per squarciare la nostra ottusità, per aprire i cieli dell’infinito che è dentro di noi.
E succede, come è successo per santo Stefano, che ancora oggi i caporioni religiosi “si turano gli orecchi e si scagliano tutti insieme contro di lui”.
Sì, a uccidere Stefano sono stati i gerarchi della religione ebraica, e non i pagani. Anche Cristo era stato ucciso dai capi della religione ebraica. In fondo allo Stato interessa poco o nulla che i cieli si aprano. È sempre una questione di fede: ancora oggi è proibito ”vedere i cieli aperti”, perché ciò significa vedere oltre ciò che vede la religione. La religione tiene chiusi i cieli, e chi va oltre li condanna.
Non capisco però come mai la Chiesa non raccolga il messaggio di Santo Stefano, e pensare che la Liturgia lo propone come modello il giorno dopo il Natale.
Ma forse i cristiani hanno ancora gli occhi bruciati dalla solita annuale esaltazione natalizia che li ha resi incoscienti.
La Liturgia, ancora saggiamente, dopo la festa di Santo Stefano ci invita a celebrare San Giovanni l’evangelista, designato col simbolo dell’aquila dallo sguardo acuto e dal volo ardito.
San’Agostino commenta: «L’evangelista Giovanni vola come aquila, altissimo; e s’eleva al di sopra della caligine della terra e contempla con occhio fermo la luce della verità». E ancora: «Egli è l’aquila, il sommo predicatore, colui che osa fissare il suo sguardo sulla luce invisibile ed eterna».
Non sarebbe bello vivere e testimoniare il Mistero natalizio come un’aquila che vola sfidando il cielo infinito?
Almeno sentissimo quella santa nostalgia di qualcosa di Bello, che prende lo spirito, quando non ci facciamo prigionieri della carnalità di una società, che pensa solo a quelle cose materiali che appesantiscono ogni volo verso l’Eterno presente!

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