VERSO UNA NUOVA COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE: Al Dio ignoto/10

weil

di don Giorgio De Capitani
Se qualcuno ancora pensasse che la mistica non avrebbe niente a che fare con l’impegno sociale, e che parlare di comunità cristiane di base e parlare di mistica sarebbe fuori posto o tempo perso, o non servirebbe a dare un nuovo impulso alla società moderna, basterà che legga la biografia di quest’altra donna, eccezionale sotto tanti versi, che si chiama Simone Weil. Solitamente la conosciamo, per sentito dire, come una grande pensatrice e filosofa francese, che verso gli ultimi anni della sua vita si è anche accostata ai grandi mistici, e non sappiamo nulla o quasi di ciò che ha fatto e ha vissuto in quegli anni bui, quando il capitalismo da una parte e il nazismo dall’altra stringevano l’Europa nella morsa dell’oppressione e della violenza. Oppressione e violenza che avevano come vittime dei volti concreti: poveri, diseredati, disoccupati.
Una giovane donna si è sacrificata, anima e corpo, per dare ciò che le era possibile, nella sua fragilità e nella sua caparbietà, nel suo ambiente e fuori dalla sua patria, sempre rischiando di persona, animata quasi ossessivamente dal desiderio di volere fare di più. Sempre di più. Discutendo sui problemi e approfondendoli, ma senza rimanere chiusa nei salotti accademici. Accostava la realtà, anche entrando nelle fabbriche per provare sulla propria pelle che cosa significava lavorare in quelle condizioni di vera schiavitù.
Ciò che affascina di questa donna è l’aver saputo unire pensiero e azione, meditazione e attività politica, mistica e carità concreta. Come Etty Hillesum, anche Simone Weil ha scoperto Dio, passando dall’agnosticismo alla fede come ricerca ininterrotta, senza mai approdare sui lidi di una religione ortodossa. Lei, di origini ebraiche, si è avvicinata al cattolicesimo, ma senza farsi mai battezzare. Si è detta cristiana, in modo radicale. A lei interessava l’unione profonda con Dio, senza mai aggrapparsi a qualche verità dogmatica.
Riconosco di non essermi mai avvicinato alla Weil, proprio perché l’ho giudicata come la solita filosofa che si permette di costruire castelli, fuori dalla realtà. Ma è bastato che, in questi giorni, venissi a conoscenza del suo impegno sociale, per ripropormi di approfondire anche il suo pensiero filosofico e soprattutto la sua visione mistica.
Nella “Lettera a un religioso” Simone Weil espone le obiezioni che ha maturato nei riguardi della dottrina ecclesiastica. A turbarla, in particolare, era la formula “Extra Ecclesiam nulla salus”. Tuttavia, pur sentendosi quasi “esclusa”, a causa della sua esitazione al battesimo, ha continuato a partecipare alla liturgia. E, usando un’espressione del Nuovo Testamento, “sulle soglie della Chiesa”, ha spiegato le ragioni del suo restare in attesa: «Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. […] tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. […] C’è un ostacolo assolutamente insormontabile all’incarnazione del cristianesimo, ed è l’uso di due brevi parole: anathema sit. […] Mi schiero al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale» (da “Attesa di Dio”).
Le due brevi parole “anathema sit” si trovano nella Lettera di San Paolo ai Galati (1,8).
Con una delle sue asserzioni paradossali, Simone Weil si pronuncia «disposta a morire per la Chiesa, se mai ne avesse bisogno, piuttosto che entrarvi» (da “Attesa di Dio”).
Vi offro una breve biografia.
Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio 1909 in una famiglia benestante, colta e raffinata, di origini ebraiche, ma agnostica. Suo fratello André diventerà un grande matematico, di cui Simone, adolescente, nutrì anche una certa invidia per la sua genialità, creativa e precoce.
Di salute cagionevole, fin dalla fanciullezza soffre di forti e ricorrenti emicranie che la accompagneranno sino alla fine dei suoi giorni.
Negli studi è molto brillante. Ha come professori di filosofia René Le Senne e Émile-Auguste Chartier, detto Alain, ed è soprattutto quest’ultimo che l’ha influenzerà: con il suo atteggiamento socratico, scettico e apertissimo, sapeva mettere gli allievi a contatto diretto con i grandi filosofi del passato (Platone), attraverso letture di testi che avrebbero lasciato forti tracce in chi lo seguiva. Simone era fra questi.
Nel 1931, la Weil ottiene la laurea in filosofia e dal 1932 al 1934 insegna in alcuni licei femminili, dedicando molto del suo impegno anche alla difesa dei ceti sociali più oppressi. Partecipa in prima persona e in prima fila alle iniziative e alle manifestazioni sindacali a difesa dei disoccupati, milita (pur senza iscriversi ad alcun partito) nei movimenti dell’estrema sinistra rivoluzionaria, scrive su riviste polemizzando nei confronti della sinistra ufficiale e denunciando anche le deviazioni della rivoluzione sovietica. Crea scandalo tra i genitori delle sue allieve per un comportamento giudicato non idoneo ad una insegnante: veste in maniera trasandata, fa riunioni con disoccupati in osterie di infimo rango, mangia quanto può mangiare un povero disoccupato, mette a disposizione degli ultimi gran parte del suo stipendio, vive in maniera ascetica e rigorosa. Uno scrittore che l’ha conosciuta, così disse: «Quel che mi interessava di più in lei, era l’avidità morbosa che la spingeva a dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati».
Simone chiede al Ministero un congedo per poter studiare la condizione operaia. È del 1934 la stesura del saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, ma che verrà pubblicato solo dopo la sua morte. Non si accontenta di scrivere questo saggio, vuole provare che cosa significa sulla propria pelle fare la vita di un operaio. Una dura esperienza lavorativa che è durata otto mesi, dal 1934 al 1935: dapprima in una fabbrica elettrica (Alstom), poi alle fonderie di una fabbrica metallurgica (Carnaud), infine come fresatrice nell’industria automobilistica (Renault), le cui conseguenza segneranno in modo indelebile le sua vita e il suo pensiero.
In quegli stessi anni, ci sono altre ragioni che la portano al pessimismo: la Germania hitleriana, l’Urss stalinista e la stessa America in cui regna incontrastato il capitalismo.
Nel 1936 sembra aprirsi uno spiraglio di speranza: l’avvento delle sinistre del Fronte Popolare al governo francese, al quale seguono nel giugno dello stesso anno possenti ondate di scioperi che danno avvio ad un cambiamento considerevole delle condizioni della classe operaia in Francia. Subito dopo, però, inizia la guerra civile in Spagna. Sime Weil si sente in obbligo di partecipare alla lotta contro i franchisti: va in Spagna, si arruola in una brigata internazionale, pronta anche a uccidere, andando contro i suoi principi.
Un incidente puramente casuale (una grave ustione alla gamba) la fa rientrare in Francia. Poi resterà delusa dagli stessi repubblicani spagnoli, diventati strumenti dell’Urss contro i franchisti, a loro volta strumenti di Hitler e di Mussolini.
Simone va in depressione per tutta questa serie di cose che non vanno. Si rifugia presso i genitori. Ma, proprio in quegli anni, tra 1935 e il 1939, si verificano alcuni incontri e alcuni episodi che aprono in Simone strade provvidenziali. Anzitutto, gli incontri. Incontra il domenicano padre Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon, “filosofo contadino” che la assume nella propria fattoria. La loro amicizia matura in Simone una crisi religiosa in senso cristiano, pur non rinunciando mai alla fede d’origine. Quando nel 1938 si convertirà al cattolicesimo, rifiuterà però il battesimo. E poi ci sono alcuni episodi determinanti per la sua conversione: una specie di “illuminazione” mistica, legata ad esperienze di pratiche rituali e di contatto con i luoghi del cristianesimo. Una prima illuminazione ce l’ha nell’estate del 1935, in un piccolo villaggio di pescatori in Portogallo, in occasione di una processione notturna di donne con ceri su barche: alla Weil sembra di vedere nel cattolicesimo una religione dove possono trovare rifugio gli schiavi, gli oppressi. Una seconda volta, nella primavera del 1937, ad Assisi, bella chiesa di santa Maria degli Angeli, nella quale spesso pregava San Francesco, «qualcosa di forte mi ha obbligata, per la prima volta nella mia vita, ad Inginocchiarmi» (così ha confessato Simone Weil, nel libro “Attesa di Dio”); una terza volta è la suggestiva abbazia benedettina di Solesmes a impressionarla, nel novembre del 1938, quando legge una poesia inglese (“Love”, di G. Herbert): «in quel momento in cui per la prima volta il Cristo è venuto e mi ha presa. Credevo semplicemente di ripetere a me stessa una bella poesia e non sapevo che era una preghiera (in “Attesa di Dio”).
Simone Weil, abbandonato l’insegnamento, vive spesso con i genitori, e non si stanca di riflettere sulla realtà politica e sociale del suo tempo, allargando però gli orizzonti. Affronta anche dal punto di vista filosofico il problema dell’oppressione e della violenza, partendo dall’esperienza hitleriana. Scrive alcuni saggi, tra cui “L’Iliade, o il poema della forza”, scritto tra il 1936 e il 1939 e uscito tra il 1940 e il 1941 sui “Cahiers du Sud” a Marsiglia con lo pseudonimo di Émile Novis. È uno dei pochissimi testi pubblicati mentre Simone Weil era ancora in vita.
Quando scoppia la guerra, pensa proteggere i genitori e si trasferisce con loro a Marsiglia, dove vive negli anni 1941 e 1942. In questo periodo scrive dodici quaderni che costituiscono il suo complesso testamento filosofico. Il suo più grande cruccio è quello di non fare qualcosa contro la tirannia di Hitler.
Dopo un breve soggiorno in America, dove tra gli altri, conosce Jacques Maritain, già celebre filosofo, riesce a trasferirsi a Londra, con il governo francese in esilio. Continua a scrivere progetti politici ed economici, riflessioni su temi filosofici e religiosi.
Gli ultimi suoi anni, dal 1938 in poi, sono segnati da un continuo arricchimento di interessi teorici, che si soffermano sulla filosofia, sul cristianesimo e sul suo rapporto con la Grecia e con la modernità (meno trattato con l’ebraismo, di cui Simone Weil parla raramente e talora con toni negativi), sulle filosofie e religioni dell’India (studia anche il sanscrito per realizzare un contatto diretto con i testi di quella cultura) e della Cina. Possiamo dire che nulla sfugge all’attenzione e alla curiosità intellettuale di questa donna, che ha saputo essere tanto teorica quanto pratica, che si è sacrificata per il prossimo più disperato e si è buttata alla ricerca della verità, ovunque si trovasse.
Muore, prematuramente, il 23 agosto 1843, nel sanatorio di Ashford, in Inghilterra.
I suoi scritti, sparsi in molteplici “Quaderni”, venuti alla luce in forma pressoché clandestina e anonima, e dunque pubblicati quasi interamente postumi, costituiscono un prezioso laboratorio di pensiero e di poesia di elevatissimo livello.
È Albert Camus a divulgare originariamente la maggior parte degli scritti della Weil, diventando per lei un «amico-innamorato postumo», tanto da custodire una foto della pensatrice sul proprio scrittoio. In occasione del conseguimento del premio Nobel per la letteratura, nel 1957, menzionando gli autori viventi più importanti per lui, aggiunge: «E anche Simone Weil – a volte i morti sono più vicini a noi dei vivi». Camus fa pubblicare le opere della pensatrice nella collana Espoir («Speranza»), da lui fondata presso l’editore Gallimard, considerando il messaggio weiliano come un antidoto al nichilismo contemporaneo.
(continua/10)

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