VERSO UNA NUOVA COMUNITÀ CRISTIANA DI BASE: Al Dio ignoto/12

weil[1]

Mi è stato richiesto di parlare ancora di Simone Weil e del suo pensiero. Lo ammetto: non è facile presentare questa grande pensatrice francese, morta giovane, con un capitale letterario davvero sconcertante, sia per la quantità degli scritti, sia per la profondità di pensiero.
Ecco, più che una filosofa, è una grande pensatrice. E dire “pensatrice” è dire tutto. Simone Weil ha avuto la capacità di pensare in grande. Non ha mai cessato di “pensare”. Agiva, e pensava, pensava e agiva. Un intreccio indissolubile.
Quale stimolo per noi occidentali pragmatisti, a cui basa poco per mandarci in crisi: una tassa in più! La vera crisi di oggi è una crisi di astinenza: astinenza del superfluo- necessario, tanto necessario da non poter più mancare sulla tavola del nostro esistere.
Ci illudevamo che il progresso equivalesse a una maggiore libertà di pensiero. La società non cessa di essere stritolata da persistenti regimi di potere, la cui prima preoccupazione sta nel togliere la libertà di pensiero. Ma prima di parlare di libertà, bisogna capire che cosa significhi “pensare”. Che cos’è il pensiero per l’essere umano? La risposta è una sola: è lo stesso essere umano.
Mi è difficile, lo ripeto, presentare in sintesi il pensiero di Simone Weil. Ogni riflessione è uno stimolo ad approfondire.
Ho trascritto, con qualche ritocco, la registrazione della conferenza su Simone Weil, che si è tenuta il 15 giugno del 2013, presso l’Auditorium del Centro Culturale Altinate San Gaetano, Padova. Relatore: professor Domenico Canciani. Anche questi sono stimoli, per approfondire.
Il vero eroismo sta nel “pensare”
Il tratto caratteristico di Simone Weil nel suo essere nel mondo è la capacità di pensare. Da giovane, quando aveva 16/17 anni, nei suoi primi temi di filosofia aveva scritto che pensare è un atto eroico. Spieghiamo.
Ci vuole più eroismo a pensare che ad agire: molte volte l’azione è fatta solo dietro l’impulso del momento, e perciò non comporta quel mettersi di fronte alla realtà, guardandola in faccia per quella che è. Eroico per la Weil non è tanto colui che compie azioni coraggiose. Eroico è soprattutto colui che sa pensare. Perché? Perché ci vuole coraggio a pensare al di fuori del pensiero unico, al di fuori di quel pensiero che è costretto da ciò che Simone Weil chiamava, usando un’espressione presa dal suo filosofo preferito Platone, il “grosso animale”, cioè il collettivo.
E questo è avvenuto non solo nei due totalitarismi, che lei ha analizzato molto bene: il totalitarismo del nazismo e il totalitarismo dello stalinismo. Si è tentato nella storiografia di tenere aperti e distinti questi due totalitarismi, ma Simone Weil, affrontando anche dure critiche, ha detto chiaro: i due totalitarismi sono una sola e unica cosa. Ma non si è limitata ad analizzare i meccanismi del totalitarismo: ha aiutato, e aiuta ancora noi, a vedere gli elementi di totalitarismo che ci possono essere e che ci sono di fatto (altrimenti non saremmo arrivati alla seconda guerra mondiale), nelle democrazie occidentali.
Quando Simone Weil ha cominciato a “pensare” sul serio? Prima, nella lotta politica, e, dopo aver fatto le prime esperienze nei gruppi di sinistra e del sindacato, realizzando un tentativo di sintesi attraverso un testo scritto. Pensate: questo testo è stato redatto nel 1934, quando Simone Weil aveva solo venticinque anni! È di una straordinaria intensità e forza argomentativa. Ha come titolo: “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”. L’ha fatto leggere al suo maestro, un professore di filosofia straordinario, noto con un nome molto semplice, Alain (voleva far capire che la filosofia non è qualcosa di grandioso, ma è guardare in faccia alla realtà), ma il cui vero nome era Émile-Auguste Chartier. Ebbene, questo professore, che aveva formato generazioni intere di giovani francesi, dopo aver letto lo scritto, ha detto alla Weil: “Si tratta di Kant continuato”. Queste “Riflessioni” sono straordinarie non solo perché analizzano i meccanismi della società (la forza, il progresso indefinito, l’impossibilità della rivoluzione ecc.), ma perché ci indicano e ci insegnano come sia possibile pensare fuori dal coro.
Simone Weil e la sofferenza
Qual è il pensiero di Simone Weil di fronte alla sofferenza, vista nel suo aspetto sia individuale che sociale?
Il male, che la Weil individua nel mondo, è definito attraverso la legge della gravità, come dire: ogniqualvolta uno dispone di un potere, egli lo esercita come quando, avendo in mano un sasso, qualcosa di pesante, se lo si lascia cadere, quello va verso il centro; così il potere, quando lo si esercita, va sempre là dove ce n’è di meno, e quindi cerca di sopraffare gli altri.
Quali sono gli esempi storici che Simone Weil ha analizzato nella sua riflessione? Uno tra questi è l’impero romano. La pensatrice francese aveva un dente avvelenato nei confronti della Roma antica. Era convinta che quell’impero avesse poi inficiato anche la visione cristiana. E, sull’esempio di Roma, l’uso della forza sfrenata si è poi manifestato in particolare nel nazismo e nello stalinismo. La Weil dice di più, senza alcun timore. In un dialogo con un domenicano straordinario, Padre Joseph-Marie Perrin, ella dice: “la Chiesa è totalitaria”. In realtà, la Weil arriva a dire qualcosa di ancor più forte, di più atroce: la Chiesa ha inventato il totalitarismo.
Ora, come agisce il potere? Il potere agisce servendosi della immaginazione, e l’immaginazione costringe gli uomini ad accettare i disegni ingannevoli di coloro che detengono il potere. I dittatori costringono i sudditi “a sognare i loro sogni”. E, lo sappiamo bene, molto spesso i sogni dei dittatori diventano degli incubi.
Allora, come è possibile far fronte al male?, si domanda Simone Weil. Ebbene, diventa necessario per contrastare il male, avere e farsi un’idea del bene. Chiariamo. Il bene e il male nella nostra vita, nel mondo, nella società, fuori noi, sono inestricabilmente uniti, diciamo intrecciati. Tra l’altro, c’è una bellissima parabola del Vangelo, dove Gesù parla della zizzania e del grano. Zizzania e grano sono insieme, inestricabilmente insieme. Se noi cerchiamo di concepire il bene, che è una realtà trascendente, quella realtà che noi dobbiamo conseguire ma che non è in noi, perché è fuori di noi, non è necessario dare un nome a questo bene, chiamarlo dio, chiamarlo ente supremo: il bene è qualcosa che è trascendente nel senso che non dipende da noi, noi ce lo possiamo solo aspettare, così come possiamo metterci nelle condizioni di fare spazio al bene.
Che cos’è la de-creazione in Simone Weil?
Il termine “de-creazione” viene dalla sua idea di Dio. Dio è onnipotente, ma non esercita l’onnipotenza. Dio creando si è de-creato in un certo senso: si è come tirato indietro e ha fatto spazio all’uomo. Allora, che cosa deve fare l’uomo che vuole veramente entrare in contatto con Dio? Deve a sua volta de-crearsi, cioè cercare di tirasi indietro e di non esercitare il potere. Deve invece riempiere lo spazio del potere attraverso la ricerca del bene, la compassione in termini straordinari, l’amore verso gli sventurati.
La parola “sventura”, sulla quale Simone Weil indugia nei suoi Quaderni e che in francese suona come “malheur”, diventa, sempre sulla scia platonica, la via della conoscenza. I tragici greci ce lo hanno insegnato: è attraverso il patire, è attraverso la sofferenza che s’impara.
La bellezza secondo Simone Weil
La bellezza ha una parte notevole negli scritti di Simone Weil, tanto che potremmo parlare non di filosofia, ma di filocalia, cioè di amore della bellezza. Bellezza, da non intendere come estetica puramente formale. La bellezza, scrive Simone Weil, diventa visibile se ci sono alcune condizioni.
Simone Weil, parlando di diritti, in un testo interessantissimo, dal titolo: “La persona e il sacro”, scritto qualche giorno prima di entrare in ospedale, si domanda: di che cosa ha bisogno l’uomo? Risponde: ha bisogno di solitudini, di uno spazio di solitudine intorno, e di silenzio. Il silenzio è il diritto fondamentale dell’uomo. Invece, che cosa si dà all’uomo? Gli si dà nient’altro che tumulto. Le nostre solitudini sono solitudini affollate, non sono quindi vere solitudini. E allora come possiamo scoprire le tracce di Dio, che sono tenui, che si manifestano a noi attraverso la bellezza?
Per Simone Weil la bellezza è la traccia di una segreta presenza di Dio nel mondo. Tanti aspetti negativi della realtà sembrano dirci che Dio è assente da questo mondo, o per lo meno noi non ne scorgiamo nessun segnale. Ma questi segnali Dio li ha sparsi nel mondo, e perciò diventa necessario educare il nostro sguardo, renderlo attento al buono, o al bene: in realtà, il bene, il buono, il bello, il vero sono una sola e unica cosa, sono immagini di un’unica realtà.
Quali sono i segnali attraverso cui Dio agisce nel mondo? Sono quelle parole, che Simone Weil, con una invenzione tutta sua, chiama “le parole non parole”: sono le parole che, una volta noi le definiamo, vengono svilite. Queste parole sono: giustizia, amore, compassione.
La giustizia è ciò che sta sopra i diritti. Cosa pensiamo quando parliamo dei diritti umani o del cittadino? L’ultimo testo di Simone Weil sconvolge il nostro modo di pensare. Il titolo, “La prima radice”, non corrisponde all’intenzione della Weil, che avrebbe invece preferito il sottotitolo: “Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”.
Simone Weil che cosa dice? Dice che l’uomo è costituzionalmente, ontologicamente un essere radicato nell’obbligo. Solo nell’obbligo egli realizza il suo essere uomo. E l’obbligo è incondizionato, mentre il diritto è totalmente condizionato. Quando io posso far valere i miri diritti? Quando ho la forza, mentre l’obbligo dipende tutto da noi, e quindi è incondizionato, perché appartiene a quella parte profonda di noi stessi che è orientata verso il bene.
E per cercare di capire come agisce il soprannaturale, come sia possibile scorgere il contenuto di queste parole, Simone Weil utilizza un’espressione straordinaria: definisce il soprannaturale come l’”infinitamente piccolo”. Che significa? È quella particella minima che separa il naturale dal soprannaturale, ma è anche quel granello di sabbia che, introdotto nel meccanismo che sembra funzionare molto bene nello stritolamento, riesce a inceppare la macchina e a farci capire che è possibile prendere un’altra direzione. Il bene contemplato non è mai frutto della volontà dell’uomo: l’uomo non può far altro che attendere. Una delle opere che raccoglie i pensieri della Weil ha come titolo: “Attesa di Dio”.
Simone Weil e il Cattolicesimo
Conclusa la dura esperienza operaia, c’è un episodio che inciderà sulla vita religiosa di Simone Weil. Era l’estate del 1935. Si trova in Portogallo. Qualche anno più tardi così scriverà a Padre Perrin: «Trovandomi in quello stato d’animo, e in una condizione fisica miserabile, sono entrata in un piccolo villaggio portoghese che era, ahimè, ugualmente miserabile, sola, di sera, sotto la luna piena, proprio il giorno della festa patronale. Era in riva al mare. Le mogli dei pescatori giravano intorno alle barche, in processione, portando dei ceri, e cantavano inni molto antichi, di una tristezza straziante. Non è possibile darne un’idea. Non ho mai ascoltato nulla di tanto lancinante se non il canto dei vogatori del Volga. Lì, all’improvviso, ho avuto la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possano non aderirvi, ed io con loro».
Ma schiavo vuol dire che, se io mi rendo conto della mia sofferenza, mi apro immediatamente a quella degli altri. L’esperienza migliore che Simone Weil realizza, e attraverso cui sintetizza il suo pensiero, è la lettura della parabola del buon samaritano. Una parabola che non parla molto, non parla di teologia, non dà delle definizioni: l’unico e vero criterio che distingue l’autentica religiosità da quella spuria è l’atteggiamento verso le cose terrestri. Scrive Simone Weil: “Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio”.
L’esperienza mistica di Simone Weil
Simone Weil ha vissuto una straordinaria esperienza mistica, senza entrare mai nella Chiesa cattolica, ma rimanendone sulla soglia. Anzi, accettando per sé la condizione ingrata e difficile – restare sulla soglia si può non essere capiti né da quelli che sono fuori né da quelle che sono dentro – è stato come sentirsi schiacciata da una parte e dall’altra.
Perché Simone Weil ha scelto questa condizione di stare sulla soglia? Perché vuol farla capire a Padre Perrin? Vuole farla capire perché lei stessa ha vissuto, senza entrare nella Chiesa, una esperienza mistica. Questa esperienza mistica, Simone Weil l’ha sintetizzata a Padre Perrin in una bellissima lettera, raccolta in quel libro già citato, “Attesa di Dio”, ed è nota come Lettera autobiografica. Specifichiamo che la mistica non sono quei fenomeni strani che prendono ora il nome di lievitazioni o di visioni di quegli fenomeni di cui sentiamo parlare spesso nelle trasmissioni televisive. La mistica è un’esperienza intima, di cui non si può parlare. Anche Simone Weil, come del resto i mistici, ha usato la poesia, l’allegoria. Tuttavia la spiritualità intima non è un privilegio di pochi: riguarda il nostro essere uomini, il nostro diventare uomini.
Il male della nostra cultura è la divisione: pensiero religioso da una parte e pensiero politico dall’altra. No! Il pensiero politico è un pensiero religioso nella misura in cui io m’impegno con tutto il mio essere. È lo stesso l’atteggiamento che devo mettere nella ricerca di una soluzione e l’atteggiamento nella costruzione della mia, come la chiama la Weil, “architettura spirituale”.
Penso di farvi cosa gradita, presentarvi ora il testo integrale dell’”Autobiografia spirituale”. La lettera è indirizzata a Joseph-Marie Perrin, un domenicano, poco più anziano di lei, quasi cieco, che Simone Weil ha conosciuto nel suo lungo soggiorno a Marsiglia (dove è rimasta dal 1940 al 1942) e che diventerà per la Weil un confidente spirituale. Egli raccoglierà nel volume “Attesa di Dio” alcuni scritti lasciatigli da Simone, tra cui la lettera autobiografica. Sarà Perrin a presentarle il “filosofo contadino” Gustave Thibon, che assumerà la Weil nella propria fattoria di Saint-Marcel-d’Ardèche.

AUTOBIOGRAFIA SPIRITUALE

Da leggere per cominciare.
P.S.
Questa lettera è spaventosamente lunga, ma siccome non richiede una risposta, tanto più che sarò senz’altro partita, avete anni davanti a voi, se vorrete conoscerne il contenuto. Tuttavia leggetela, un giorno o l’altro.
 [da Marsiglia, 15 maggio circa]
Padre,
prima di partire voglio parlarvi ancora, forse per l’ultima volta, poiché penso che da laggiù vi manderò ogni tanto mie notizie soltanto per riceverne da voi.
Vi ho detto che avevo un debito immenso verso di voi. Cercherò di dirvi esattamente e onestamente in che cosa consiste. Penso che, se voi poteste veramente comprendere la mia posizione spirituale, non provereste alcun dolore per non avermi condotta al battesimo. Ma non so se ciò vi sarà possibile.
Voi non mi avete portato né l’ispirazione cristiana né il Cristo; infatti, quando vi ho incontrato, questo non rimaneva più da fare: era fatto, e senza alcun intervento umano. Se così non fosse stato, se già non fossi stata presa, non soltanto implicitamente ma coscientemente, voi non mi avreste dato nulla, io non avrei ricevuto nulla da voi. La mia amicizia per voi sarebbe stata, per me, un motivo per rifiutare il vostro messaggio; avrei avuto paura delle possibilità d’errore e d’illusione che l’influsso umano nel campo delle cose divine può implicare.
Posso dire di non aver mai, in tutta la mia vita, in nessun momento, «cercato» Dio. Forse per questo motivo, senz’altro troppo soggettivo, quest’espressione non mi piace, mi pare falsa. Fin dall’adolescenza ho pensato che il problema di Dio fosse un problema di cui, quaggiù, mancano i dati, e che il solo metodo sicuro per evitare una soluzione falsa, che mi pareva il peggiore dei mali, fosse di non porselo. E quindi non me lo ponevo: non affermavo e non negavo. Mi pareva inutile risolvere quel problema, poiché pensavo che, dato che viviamo in questo mondo, a noi spettasse di adottare l’atteggiamento migliore riguardo ai problemi di questo mondo, e che tale atteggiamento non dipendesse dalla soluzione del problema di Dio.
Per me, almeno, ciò era vero, perché non ho mai esitato nella scelta di un atteggiamento: ho sempre adottato, come il solo possibile, l’atteggiamento cristiano. Sono per così dire nata, cresciuta e sempre rimasta nell’ispirazione cristiana. Mentre il nome di Dio non occupava alcuna parte dei miei pensieri, avevo sui problemi di questo mondo e di questa vita una concezione esplicitamente, rigorosamente cristiana, fondata sulle nozioni più specifiche che essa comporta. Alcune di queste nozioni le ritrovo in me per quanto lontano risalgano i miei ricordi. Quanto ad altre, conosco il momento, il modo e la forma in cui si sono imposte alla mia coscienza.
Per esempio, mi sono sempre proibita di pensare a una vita futura, ma ho sempre creduto che l’istante della morte sia la norma e lo scopo della vita. Pensavo che, per quanti vivono come si conviene, sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Posso dire di non avere mai desiderato per me altro bene. Pensavo che la vita che conduce a questo bene non sia definita soltanto dalla morale comune ma consista, per ognuno, in una successione di atti e di eventi rigorosamente personali e talmente obbligatori che, se uno se ne discosta, non rag¬giunge il fine. Questo era per me il concetto di vocazione. Il criterio delle azioni imposte dalla vocazione mi pareva consistere in un impulso essenzialmente e palesemente diverso da quelli che procedono dalla sensibilità e dalla ragione; non seguire un tale impulso, quando sorge, anche se impone cose impossibili, mi pareva la più grande delle sventure. Così concepivo l’obbedienza, e ho messo questo concetto alla prova entrando e rimanendo in un’officina, pur trovandomi in quello stato di sofferenza intensa e incessante che di recente vi ho confessato. La più bella vita possibile mi è parsa sempre quella in cui tutto è determinato sia da circostanze costrittive sia da precisi impulsi, e dove non vi è mai posto per alcuna scelta.
A quattordici anni sono caduta in uno di quegli stati di disperazione senza fondo propri dell’adolescenza, e ho seriamente pensato alla morte, a causa delle mie mediocri facoltà naturali. Le doti straordinarie di mio fratello, che ha avuto un’infanzia e una giovinezza paragonabili a quelle di Pascal, mi obbligavano a rendermene conto. Non invidiavo i suoi successi esteriori, ma il non poter sperare di entrare in quel regno trascendente dove entrano solamente gli uomini di autentico valore, e dove abita la verità. Preferivo morire piuttosto che vivere senza di essa. Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi d’improvviso e per sempre la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono pressoché nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, purché desideri la verità e faccia un continuo sforzo d’attenzione per raggiungerla: in questo modo diventa egli pure un genio, anche se per mancanza di talento non può apparir tale esteriormente. Più tardi, quando le emicranie fecero pesare sulle mie scarse facoltà una paralisi che mi sono subito immaginata con ogni probabilità definitiva, fu proprio quella certezza a indurmi a perseverare per dieci anni in sforzi di attenzione che non erano sorretti da quasi nessuna speranza di qualche risultato.
Il concetto di verità comprendeva per me anche la bellezza, la virtù e ogni sorta di bene, di modo che, a mio parere, si trattava di un rapporto fra grazia e desiderio. Avevo acquisito la certezza che, quando si desidera pane, non ci vengono date pietre. Ma a quel tempo non avevo ancora letto il Vangelo.
Come ero certa che il desiderio possiede in sé un’efficacia nel campo del bene spirituale, in tutti i suoi aspetti, così mi sentivo altrettanto certa della sua inefficacia in ogni altro campo.
Quanto allo spirito di povertà, non ricordo un momento in cui esso non sia stato presente in me nella misura, purtroppo scarsa, in cui ciò era compatibile con la mia imperfezione. Sono stata conquistata da san Francesco fin da quando ne ebbi conoscenza.
Ho sempre creduto e sperato che la sorte un giorno mi avrebbe spinta a forza in quella condizione di vagabondaggio e di mendicità che egli accettò liberamente. Non pensavo di giungere alla mia età, senza essere perlomeno passata attraverso quella esperienza. Lo stesso, del resto, ho pensato della prigione.
Ho anche posseduto fin dalla prima infanzia la nozione cristiana di carità verso il prossimo, alla quale davo quel nome di giustizia che si trova in parecchi passi del Vangelo, e che è così bello. Voi sapete che più tardi, su questo punto, ho mancato gravemente più di una volta.
Il dovere di accettare la volontà di Dio, qualunque fosse, si è imposto al mio animo come il primo e il più necessario di tutti, quello al quale non ci si può sottrarre senza disonorarsi; e tale mi parve fin da quando lo trovai esposto in Marco Aurelio sotto forma dell’amor fati stoico.
Il concetto di purezza, con tutto ciò che la parola può implicare per un cristiano, si è impadronito di me a sedici anni, dopo che avevo attraversato, per qualche mese, le inquietudini sentimentali proprie dell’adolescenza. Tale concetto mi è apparso mentre contemplavo un pae¬saggio alpino, e a poco a poco si è imposto a me in maniera irresistibile.
Beninteso, mi rendevo perfettamente conto che la mia concezione della vita era cristiana. Per questo, non mi è mai venuto in mente di poter entrare nel cristianesimo: avevo l’impressione di esservi nata. Ma aggiungere a questa concezione della vita il dogma, senza esservi costretta da una evidenza, mi sarebbe parso mancanza di probità. Mi sarebbe parso disonesto anche il pormi come un problema la verità del dogma, o semplicemente il desiderare di raggiungere una convinzione a questo proposito. Ho della probità intellettuale un’idea estremamente rigorosa, tanto da non avere mai incontrato nessuno che non mi sia parso sottrarsi ad essa sotto più di un aspetto; e temo sempre di tradirla anch’io.
Astenendomi così dal dogma, una specie di pudore mi impediva di entrare nelle chiese, sebbene mi piacesse trovarmici. Ho avuto, tuttavia, tre contatti con il cattolicesimo che sono stati veramente fondamentali.
Dopo l’anno passato in officina, prima di riprendere l’insegnamento, i miei genitori mi avevano condotta in Portogallo, e là io li lasciai per andarmene sola in un piccolo villaggio. Posso dire che avevo anima e corpo a pezzi. Il contatto con la sventura aveva ucciso la mia gioventù. Fino ad allora non avevo sperimentato altra sventura che la mia, la quale, essendo personale, mi pareva di scarsa importanza e, d’altronde, essendo più fisica che sociale, era una sventura solo parziale. Sapevo che c’era molta sventura nel mondo e ne ero ossessionata, ma non l’avevo mai toccata con mano per un periodo prolungato. Stando in officina, confusa agli occhi di tutti e ai miei propri occhi con la massa anonima, la sventura degli altri mi è penetrata nell’anima e nella carne. Non c’era nulla che me ne separasse, poiché avevo realmente dimenticato il mio passato, senza prospettarmi alcun avvenire, e potevo difficilmente immaginare di riuscire a sopravvivere a quelle fatiche. Ciò che lì ho subito mi ha segnata in maniera così duratura che a tutt’oggi, quando un essere umano, chiunque esso sia, in una qualsiasi circostanza, mi parla senza brutalità, non riesco a evitare l’impressione che vi sia un errore, e che purtroppo l’errore si chiarirà. Laggiù mi è stato impresso per sempre il marchio della schiavitù, quello che i romani imprimevano con il ferro rovente sulla fronte dei loro schiavi più disprezzati. Da allora mi sono sempre ritenuta una schiava.
In questo stato d’animo, e in condizioni fisiche miserevoli, sono entrata in quel paesino portoghese – che era, ahimè, altrettanto miserevole – una sera di luna piena. In riva al mare si svolgeva la festa del santo patrono. Le mogli dei pescatori facevano in processione il giro delle barche reggendo i ceri, e cantavano canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante. Nulla può darne un’idea. Non ho mai udito un canto così doloroso, se non quello dei battellieri del Volga. Là, improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro.
Nel 1937 ho trascorso ad Assisi due giorni meravigliosi. Là, mentre ero sola nella piccola cappella romanica del secolo XII di Santa Maria degli Angeli, incomparabile miracolo di purezza, in cui san Francesco ha pregato tanto spesso, qualcosa più forte di me mi ha costretta, per la prima volta in vita mia, a inginocchiarmi.
Nel 1938 ho passato dieci giorni a Solesmes, dalla domenica delle Palme al martedì di Pasqua; seguendo tutte le funzioni. Avevo emicranie violente, ogni suono mi faceva male come un colpo, e solo un estremo sforzo di attenzione mi permetteva di uscire dalla mia misera carne, di lasciarla soffrire sola, rannicchiata in un angolo, e di trovare una gioia pura e perfetta nella inaudita bellezza del canto e delle parole. Quella esperienza mi ha permesso, per analogia, di comprendere meglio la possibilità di amare l’amor divino attraverso la sofferenza. Durante queste funzioni era naturale che entrasse in me una volta per tutte il pensiero della passione di Cristo.
Fu un giovane inglese cattolico, che si trovava a Solesmes, a darmi per la prima volta l’idea di una virtù soprannaturale dei sacramenti, con lo splendore veramente angelico di cui pareva rivestito dopo essersi comunicato. Il caso – preferisco sempre dire caso anziché Provvidenza – fece di lui, per me, un vero messaggero: perché mi fece conoscere quei poeti inglesi del Seicento che vengono detti metafisici. Più tardi, nel leggerli, vi ho scoperto la poesia di cui vi ho letto la traduzione, purtroppo molto inadeguata, quella intitolata Amore. L’ho imparata a memoria. Spesso, nei momenti culminanti delle violente crisi di emicrania, mi sono esercitata a recitarla, ponendovi la massima attenzione e aderendo con tutta l’anima alla tenerezza ch’essa racchiude. Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre, a mia insaputa, quella recitazione aveva la virtù di una preghiera. Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo, come già vi scrissi, è disceso e mi ha presa.
AMORE
L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare
fin dal mio primo passo,
mi si accostò, con dolcezza domandandomi
se qualcosa mi mancava.
«Un invitato» risposi «degno di essere qui».
L’Amore disse: «Tu sarai quello».
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto,
non posso guardarti.
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose:
«Chi fece quest’occhi, se non io?»
«È vero, Signore, ma li ho insozzati;
che vada la mia vergogna dove merita».
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il
biasimo su di sé?»
«Mio diletto, allora servirò».
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti
il mio cibo».
Così mi sedetti e mangiai.

(Nota. L’autore è George Herbert (1593 1633)

Nei miei ragionamenti sull’insolubilità del problema di Dio non avevo previsto questa possibilità di un contatto reale, da persona a persona, quaggiù, fra un essere umano e Dio. Avevo vagamente inteso parlare di simili cose, ma non vi avevo mai creduto. Nei Fioretti, le storie di apparizioni mi ripugnavano più di ogni altra cosa, come i miracoli nel Vangelo. D’altronde, né i sensi né l’immaginazione avevano avuto la minima parte in questa improvvisa conquista del Cristo; ho soltanto sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un viso amato.
Non avevo mai letto nulla dei mistici, perché non avevo mai sentito nulla che m’imponesse di leggerli. Anche nelle letture mi sono sempre sforzata di praticare l’obbedienza. Nulla è più favorevole al progresso intellettuale, poiché io leggo, per quanto è possibile, soltanto ciò di cui ho fame, nel momento in cui ne ho fame, e allora non leggo: mi nutro. Dio mi aveva misericordiosamente impedito di leggere i mistici, affinché mi fosse evidente che non avevo precostruito questo contatto, che è stato invece assolutamente inatteso.
Tuttavia ho ancora rifiutato a metà, non il mio amore ma la mia intelligenza. Mi pareva infatti – e lo credo ancora oggi – che non si resista mai abbastanza a Dio, se lo si fa per puro scrupolo di verità. Cristo vuole che gli si preferisca la verità, perché prima di essere Cristo egli è verità, non si farà molta strada senza cadere fra le sue braccia.
È stato dopo questa esperienza che ho sentito che Platone è un mistico, che tutta l’Iliade è impregnata di luce cristiana e che Dioniso e Osiride sono in certo modo Cristo stesso; e il mio amore ne è stato raddoppiato.
Non mi sono mai domandata se Gesù è stato o no l’incarnazione di Dio; ma di fatto ero incapace di pensare a lui senza pensarlo come Dio.
Nella primavera del 1940 ho letto la Bhagavatgita.
Cosa curiosa, nel leggere quelle parole meravigliose di suono talmente cristiano, in bocca a una incarnazione di Dio, ho avuto la forte sensazione che la verità religiosa esiga da noi ben altro che l’adesione accordata a un bel poema, un’adesione ben altrimenti categorica.
Tuttavia escludevo che mi fosse possibile pormi addirittura il problema del battesimo. Sentivo di non potere onestamente abbandonare i miei sentimenti riguardo alle religioni non cristiane e a Israele, e infatti il tempo e la meditazione li hanno soltanto rafforzati, e spesso ho creduto che ciò fosse un ostacolo assoluto. Non immaginavo che un prete potesse anche solo pensare di concedermi il battesimo. Se non avessi incontrato voi, non mi sarei mai posta concretamente il problema del mio battesimo.
Durante tutto questo periodo di evoluzione spirituale non ho mai pregato: temevo il potere di suggestione della preghiera, quel potere per cui Pascal la raccomanda. Il metodo di Pascal mi pare uno dei peggiori per giungere alla fede.
Il contatto con voi non è riuscito a persuadermi a pregare. Al contrario, il pericolo mi pareva tanto più temibile in quanto dovevo diffidare anche del potere di suggestione della mia amicizia per voi. Nello stesso tempo sentivo molto disagio nel non pregare e anche nel non dirvelo. Ma sapevo che non avrei potuto dirvelo senza trarvi in inganno sul mio conto. In quel momento non mi sarebbe stato possibile farvi comprendere.
Fino al settembre scorso non mi era mai capitato in vita mia di pregare, neppure una volta, almeno nel senso letterale della parola. Mai avevo rivolto la parola a Dio, né a voce alta né mentalmente. Mai avevo pronunciato una preghiera liturgica. Mi era capitato talvolta di recitare la Salve Regina, ma soltanto come una bella poesia.
L’estate scorsa, quando studiavo greco con T., avevo fatto per lui una traduzione letterale del Padre nostro in greco. Ci eravamo ripromessi di studiarlo a memoria. Credo che lui non l’abbia fatto, e neppure io in quel momento. Ma qualche settimana dopo, sfogliando il Vangelo, mi sono detta che, poiché me l’ero ripromesso ed era una buona cosa, dovevo farlo. E l’ho fatto. La dolcezza infinita del testo greco mi prese a tal punto che per alcuni giorni non potei fare a meno di recitarlo fra me continuamente. Una settimana dopo cominciò la vendemmia, ed io recitai il Padre nostro in greco ogni giorno prima del lavoro, e spesso lo ripetevo nella vigna.
Da allora mi sono imposta, come unica pratica, di recitarlo ogni mattina con attenzione totale. Se mentre lo recito, la mia attenzione si svia o si assopisce, anche solo un poco, ricomincio daccapo sino a quando non arrivo a un’attenzione assolutamente pura. Mi accade, talvolta, di ripeterlo una seconda volta per puro piacere, ma lo faccio solo se il desiderio mi spinge.
Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo sperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa.
Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punto di vista. Lo spazio si apre. L’infinità dello spazio ordinario della percezione viene sostituita da un’infinità alla seconda e talvolta alla terza potenza. Nello stesso tempo, questa infinità dell’infinità si riempie, in tutte le sue parti, di silenzio, ma di un silenzio che non è assenza di suono bensì l’oggetto di una sensazione positiva, più positiva di quella di un suono. I rumori, se ve ne sono, mi pervengono solo dopo avere attraversato questo silenzio.
Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa.
Non mi sarei mai risolta a dirvi tutto questo, se non stessi per partire. E poiché in fondo parto con il pensiero di una morte probabile, mi sembra di non avere diritto di tacere queste cose. Poiché, dopotutto, non si tratta di me, si tratta solo di Dio, io non c’entro per nulla. Se si potesse supporre che Dio può sbagliare, direi che tutto ciò è capitato a me per errore. Ma forse Dio si compiace di utilizzare le scorie, gli scarti, i rifiuti. Dopotutto, anche se il pane dell’ostia fosse ammuffito, diventerebbe ugualmente il corpo di Cristo dopo che il prete lo ha consacrato. Però esso non può rifiutarsi, mentre noi possiamo disobbedire. Talvolta mi sembra che, essendo io oggetto di tanta misericordia, ogni peccato che commetto sia un peccato mortale. E ne commetto di continuo.
Vi ho detto che voi siete per me, allo stesso tempo, come un padre e come un fratello. Ma queste parole esprimono solo un’analogia. Forse, in fondo, corrispondono soltanto a un sentimento d’affetto, di riconoscenza, di ammirazione. Infatti, per quanto riguarda la guida spirituale della mia anima, penso che Dio stesso l’abbia presa in mano fin dal principio e non la lasci più. Il che non mi impedisce di avere verso di voi il debito più grande che potessi contrarre con un essere umano.
Ecco esattamente in che cosa consiste. Anzitutto, una volta, in uno dei nostri primi incontri, mi avete detto una frase che ha toccato il fondo della mia anima: «Fate bene attenzione, perché se per colpa vostra vi lasciaste sfuggire una grande cosa, sarebbe un vero peccato».
Queste parole mi hanno fatto scorgere un nuovo aspetto del dovere di probità intellettuale. Sino ad allora l’avevo concepito soltanto in opposizione alla fede. Il che sembra orribile, ma non lo è; al contrario: ciò dipendeva dal fatto che sentivo tutto il mio amore volgersi verso la fede. Le vostre parole mi hanno indotta a pensare che forse c’erano in me, a mia insaputa, impurità che erano di ostacolo alla fede, pregiudizi, abitudini. Ho sentito che, dopo essermi detta per anni solamente: «Forse tutto ciò non è vero», avrei dovuto non già smettere di dirlo – me lo ripeto molto spesso ancora adesso – ma unire a questa formula quella contraria: «Forse tutto ciò è vero», e alternarle.
Nello stesso tempo voi, facendomi considerare il problema del battesimo da un punto di vista pratico, mi avete costretta a guardare in faccia, a lungo, da vicino, con attenzione totale, la fede, i dogmi e i sacramenti come cose verso cui avevo obblighi che dovevo riconoscere e adempiere. Non lo avrei mai fatto, altrimenti; eppure mi era indispensabile.
Ma il beneficio più grande che ho ricevuto da voi è stato d’altro ordine: voi avete conquistato la mia amicizia con una carità che non avevo mai conosciuto prima e mi avete così offerto la fonte d’ispirazione più possente e più pura che si possa trovare quaggiù. Perché nessuna cosa umana più dell’amicizia per gli amici di Dio può conservare il nostro sguardo fisso a Dio con intensità sempre crescente.
Nulla può darmi meglio la misura della vostra carità che l’avermi sopportata così a lungo e con tanta dolcezza. Può parere che io scherzi, ma non è così. È vero che voi non avete i miei stessi motivi (di cui vi ho scritto l’altro giorno) per provare odio e repulsione verso di me, tuttavia la vostra pazienza nei miei riguardi mi sembra possa provenire soltanto da una generosità soprannaturale.
Non mi è stato possibile evitarvi la maggiore delusione di cui potessi rendermi responsabile. Ma fino ad ora non ho avuto mai nemmeno per un attimo la sensazione che Dio mi voglia nella Chiesa, sebbene me lo sia domandato spesso durante la preghiera, durante la messa, o alla luce di quel raggio che rimane nell’anima dopo la messa. Mai, nemmeno una volta, ho avuto una sensazione di incertezza. In definitiva, oggi credo di poter concludere che Dio non mi vuole nella Chiesa. Non abbiate dunque alcun rimpianto.
Non lo vuole, almeno fino ad oggi. Però, salvo errore, mi sembra sia sua volontà che io ne rimanga fuori anche in avvenire, salvo forse al momento della morte. Obbedirei con gioia all’ordine di andare al centro dell’inferno e di rimanervi in eterno. Non intendo dire, beninteso, di avere una preferenza per ordini di questo genere. Non sono così perversa.
Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. Di conseguenza, anche la Chiesa. Ma, ai miei occhi, il cristianesimo è cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne sono fuori, tante cose che io amo e che non voglio abbandonare, tante cose che Dio ama, ché altrimenti sarebbero prive di esistenza: tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccettuati gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e albigese; tutto ciò che è nato dal Rinascimento, troppo spesso degradato, ma non del tutto privo di valore.
Essendo il cristianesimo cattolico di diritto e non di fatto, ritengo legittimo per me essere membro della Chiesa di diritto e non di fatto, non solo per un certo periodo ma, eventualmente, per tutta la vita.
E ciò non è soltanto legittimo: finché Dio non mi darà la certezza di un ordine contrario, lo ritengo per me un dovere.
Io penso, e voi pure, che nei due o tre prossimi anni sarà fatto obbligo – un obbligo talmente stretto che il sottrarvisi sarà quasi un tradimento – di far conoscere pubblicamente la possibilità di un cristianesimo veramente incarnato. Nel corso di tutta la storia attualmente conosciuta, mai vi fu un’epoca come l’attuale, in cui le anime fossero in un tale pericolo nel mondo intero. Bisogna nuovamente innalzare il serpente di bronzo, affinché chiunque levi gli occhi verso di lui sia salvo.
Ma tutto è talmente concatenato che il cristianesimo non può essere veramente incarnato se non è cattolico nel senso che ho appena definito. Come potrebbe propagarsi attraverso la massa viva delle nazioni europee, se non racchiude in se stesso tutto, assolutamente tutto? Salvo la menzogna, beninteso. Ma in tutto ciò che esiste si trova quasi sempre più verità che menzogna.
Poiché sento così intensamente e dolorosamente questa urgenza, tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è al di fuori di esso.
Sono rimasta in quella precisa posizione, sulla soglia della Chiesa, senza spostarmi, immobile, en hypomone (è una parola tanto più bella di patientia!): ma ora il mio cuore è stato trasportato, per sempre spero, nel SS. Sacramento esposto sull’altare.
Vedete come sono lontana dai pensieri che H., con molte buone intenzioni, mi attribuiva. Lontana anche da qualsiasi tormento.
Se mi sento triste, ciò dipende anzitutto dalla tristezza permanente che la sorte ha impresso per sempre sulla mia sensibilità, tristezza che soltanto le gioie più grandi e più pure possono superare, e solo a prezzo di uno sforzo di attenzione; poi dipende anche dai miei miserabili e continui peccati; e ancora da tutte le sventure di quest’epoca e di tutti i secoli passati.
Io credo che voi siate in grado di comprendere perché io vi abbia sempre resistito: sempre che voi, come prete, possiate ammettere che un’autentica vocazione impedisca di entrare nella Chiesa.
Altrimenti, che l’errore si trovi dalla mia parte o dalla vostra, rimarrà fra noi una barriera di incomprensione. Ne sarei addolorata per l’amicizia che vi porto, perché in questo caso il bilancio degli sforzi e dei desideri, che la vostra carità verso di me ha suscitato, sarebbe deludente per voi. E sebbene io non ne abbia colpa, non potrei fare a meno di accusarmi di ingratitudine, poiché, lo ripeto, il mio debito verso di voi supera ogni misura.
Vorrei richiamare la vostra attenzione su un punto. C’è un ostacolo assolutamente insormontabile all’incarnazione del cristianesimo, ed è l’uso di due brevi parole: anathema sit. Non il fatto che esistano, ma l’uso che se ne è fatto fino ad ora. È anche questo che mi impedisce di varcare la soglia della Chiesa. Mi schiero al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale. E tanto più rimango al loro fianco in quanto la mia stessa intelligenza fa parte di esse.
L’incarnazione del cristianesimo implica una soluzione armoniosa del problema dei rapporti fra individuo e collettività. Armonia in senso pitagorico: giusto equilibrio dei contrari. È precisamente di questo che gli uomini hanno sete oggi.
La condizione dell’intelligenza è la pietra di paragone di questa armonia, perché l’intelligenza è specificatamente, rigorosamente individuale. Quest’armonia esiste ovunque l’intelligenza, rimanendo nel suo ambito, si muova senza intralci e adempia pienamente la sua funzione. È quanto san Tommaso dice in modo ammirevole di tutti gli aspetti dell’anima del Cristo, quando parla della sua sensibilità al dolore durante la crocifissione.
La funzione propria dell’intelligenza esige una libertà totale, che implica il diritto di negare tutto, senza nulla dominare. Dovunque essa usurpi un comando, si verifica un eccesso di individualismo. Dovunque si senta a disagio, v’è una collettività oppressiva.
La Chiesa e lo Stato devono punirla, ciascuno a modo proprio, quando suggerisce atti che essi disapprovano. Quando l’intelligenza rimane nel campo della speculazione puramente teorica, essi hanno il dovere di mettere eventualmente in guardia il pubblico, con tutti i mezzi efficaci, contro i rischi di una influenza pratica che alcune speculazioni possono avere sulla condotta della vita. Ma, quali che siano queste speculazioni teoriche, né la Chiesa né lo Stato hanno il diritto di soffocarle o di infliggere ai loro autori alcun danno materiale o morale. Soprattutto, questi non devono essere privati dei sacramenti, se li desiderano. Infatti, qualsiasi cosa abbiano detto, anche se avessero negato pubblicamente l’esistenza di Dio, essi possono non aver commesso alcun peccato. In tale caso la Chiesa deve dichiarare che sono nell’errore, ma senza esigere da loro nulla che possa somigliare a una sconfessione di quanto hanno detto, né privarli del Pane di vita.
Una collettività è custode del dogma; e il dogma è oggetto di contemplazione per l’amore, per la fede e per l’intelligenza, tre facoltà strettamente individuali. Di qui nasce, fin quasi dalle origini, un malessere dell’individuo nel cristianesimo, in particolare un malessere dell’intelligenza. Non si può negarlo.
Cristo medesimo, che è la Verità stessa, se dovesse parlare davanti a un’assemblea, quale un concilio, non userebbe lo stesso linguaggio con cui si esprimeva nel colloquio con l’amico diletto; e senza dubbio, ponendo a confronto alcune sue frasi, lo si potrebbe facilmente accusare di contraddirsi e di mentire. Infatti, per una di quelle leggi naturali che Dio stesso rispetta, poiché le ha volute per l’eternità, esistono due linguaggi del tutto distinti, sebbene composti dalle medesime parole: il linguaggio collettivo e il linguaggio individuale. Il Consolatore che il Cristo ci manda, lo Spirito di verità, adopera, secondo l’occasione, ora questo ora quel linguaggio, e per necessità di natura non v’è concordanza.
Quando autentici amici di Dio, quale a mio parere fu Meister Eckhart, ripetono parole che hanno udito nel più segreto silenzio, durante l’unione d’amore, se queste non concordano con l’insegnamento della Chiesa, ciò significa soltanto che il linguaggio della pubblica piazza non è quello della camera nuziale.
Tutti sanno che solo fra due o tre persone può esservi una conversazione veramente intima. Se si è in cinque o sei, già il linguaggio collettivo comincia a prevalere. Per questo è un completo controsenso applicare alla Chiesa le parole: «Dovunque due o tre di voi saranno riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro». Cristo non ha detto duecento o cinquanta o dieci: ha detto due o tre. Ha detto esattamente che è sempre presente come terzo nell’intimità di un’amicizia cristiana, nell’intimità del colloquio a tu per tu.
Cristo ha fatto delle promesse alla Chiesa, ma nessuna di esse ha la forza dell’espressione: «… il Padre vostro che è nel segreto». La parola di Dio è la parola segreta: colui che non ha inteso quella parola, anche se aderisce a tutti i dogmi insegnati dalla Chiesa, non è unito alla verità.
La funzione della Chiesa come conservatrice collettiva del dogma è indispensabile. Essa ha il diritto e il dovere di punire con la privazione dei sacramenti chiunque l’attacca espressamente nel campo specifico di quella funzione.
Perciò, anche se ignoro quasi tutto della questione, propendo a credere, per il momento, che essa abbia avuto ragione di punire Lutero.
Ma essa commette un abuso di potere quando pretende di costringere l’amore e l’intelligenza ad assumere come norma il suo linguaggio. Questo abuso di potere non procede da Dio, ma dalla naturale tendenza di ogni collettività, senza eccezione, ad abusare del potere.
L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità, infatti, non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. Certo, è inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura.
Mi è dolce essere privata della gioia di far parte del corpo mistico del Cristo, fino a quando ciò avviene per obbedienza, poiché, se Dio vorrà aiutarmi, potrò testimoniare che, anche senza questa gioia, si può essere fedeli al Cristo fino alla morte. I sentimenti sociali hanno oggi una tale presa, riescono talmente a innalzare fino al supremo grado di eroismo nella sofferenza e nella morte, che mi pare un bene se qualche pecora rimane fuori dell’ovile a testimoniare che l’amore di Cristo è essenzialmente tutt’altra cosa.
La Chiesa oggi difende i diritti imprescrittibili dell’individuo contro l’oppressione collettiva, la libertà di pensiero contro la tirannide. Ma queste sono le stesse cause che sono abbracciate volentieri da tutti quelli che si trovano momentaneamente a non essere i più forti.
È l’unico mezzo di ridiventare, forse un giorno, i più forti. È cosa ben nota.
Questa idea, forse, vi offenderà. Ma a torto: voi non siete la Chiesa. Nei periodi in cui la Chiesa commetteva i più atroci abusi di potere, c’erano senza dubbio, fra i tanti, anche preti come voi. La vostra buona fede non è una garanzia, anche se l’avesse, con voi, tutto il vostro ordine. Non potete prevedere quale piega prenderanno le cose.
Affinché l’atteggiamento attuale della Chiesa sia efficace e penetri come un cuneo nell’esistenza sociale, essa dovrebbe dire apertamente che ha cambiato o che vuole cambiare. Altrimenti, chi potrebbe prenderla sul serio, ricordandosi dell’Inquisizione? Scusatemi se vi parlo dell’Inquisizione; è un’evocazione resa molto dolorosa dall’amicizia che ho per voi, e che attraverso voi si estende a tutto il vostro ordine. Ma l’Inquisizione è esistita. Dopo la caduta dell’impero romano, che era totalitario, la Chiesa per prima instaurò in Europa, nel secolo XIII, dopo la guerra degli Albigesi, un abbozzo di totalitarismo. Quell’albero ha dato molti frutti.
E la molla di quel totalitarismo è l’uso delle due brevi parole: anathema sit.
Del resto, tutti i partiti che ai nostri giorni hanno fondato regimi totalitari sono stati forgiati su un’abile trasposizione dell’uso di quelle parole. È un argomento storico che ho studiato in modo particolare.
Credo di darvi l’impressione di un orgoglio luciferino, parlando in questo modo di tante cose che sono al di sopra di me e delle quali non ho il diritto di capire qualcosa. Non è colpa mia: certe idee penetrano in me per sbaglio, poi, riconoscendo il loro errore, vogliono uscire ad ogni costo. Non so da dove vengano né quanto valore abbiano ma, ad ogni buon conto, non mi riconosco in diritto di impedire questa operazione.
Addio. Vi auguro tutto il bene possibile, salvo la croce; non amo il mio prossimo come me stessa, né voi in particolare, e credo ve ne siate accorto. Ma il Cristo ha concesso al suo amico prediletto, e senza dubbio a tutti i suoi discendenti spirituali, di pervenire a lui non attraverso la degradazione, la corruzione e la desolazione, ma con una gioia, una purezza e una dolcezza ininterrotte. Ecco perché posso permettermi di augurarvi che, se vi sarà concesso un giorno l’onore di morire per il Signore di morte violenta, questo avvenga nella gioia e senza angoscia; e che solo tre beatitudini (mites, mundo corde, pacifici) possano applicarsi a voi. Tutte le altre comportano più o meno delle sofferenze.
Il mio augurio non è suggerito soltanto dalla debolezza dell’amicizia umana. Per qualunque altro essere umano che considero in particolare trovo sempre motivi per concludere che la sventura non gli si addice, perché esso mi appare troppo mediocre per una cosa tanto grande, oppure, al contrario, troppo prezioso per essere distrutto. Non esiste trasgressione più grave di questa al secondo dei due comandamenti essenziali. Quanto al primo, io lo trasgredisco in maniera anche più orribile: perché ogni volta che penso alla crocifissione di Cristo pecco d’invidia.
Vi prego di credere, più che mai e per sempre, alla mia amicizia filiale e affettuosamente riconoscente.
SIMONE WEIL
Vorrei concludere quest’altra serie di riflessioni (ce ne saranno altre) sul pensiero di Simone Weil, soffermandomi per un attimo sulla bellissima poesia da lei citata, intitolata: “Love” (Amore). Il tema di fondo di questa poesia, fondamentale nell’esperienza mistica di Simone Weil, è ripreso in uno dei pochissimi testi mistici scritti da Simone, nel Prologo dei Quaderni, che potete leggere alla fine di queste brevi note.
Anche nel Prologo troviamo il motivo dell’amore che accoglie che abbiamo trovato in Love: qualcuno – Amore o Cristo – invita chi scrive a condividere il cibo, la luce del sole, le parole scambiate in una mansarda. Ma c’è qualcosa di più, del resto già presente negli scritti della Weil: l’amore che rifiuta. Nel Prologo, c’è sì l’accoglienza dell’amore, ma alla fine c’è la cacciata dal paradiso, dalla mansarda. Il testo si conclude con una riflessione esitante sull’amore di Dio: “So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che, forse, malgrado tutto, mi ama”.
Faccio mio questo commento: «L’amore di Dio (come quello di chiunque) non è certo, garantito, suggerisce la fine del Prologo: è mancanza che può sperimentare sì istanti di pienezza, ma, al di fuori dei brevi momenti di grazia dell’esperienza mistica, si è ricacciati nel mondo, rigettati nella durezza della necessità. Dio “accade” in brevi lampi di grazia, ma questo “accadere” non è garantito, può ripetersi o no. In questa conclusione, che presenta il dono dell’amore di Dio sospeso fra la speranza e il timore, c’è un accenno alla “prova” della perdita dell’amore di Dio (ribadita dalla Weil nel suo commento al “Padre nostro”): la “prova” è il malheur, che può intaccare l’animo dello sventurato fino a farlo sentire abbandonato anche da Dio. La “prova” è la perdita dell’amore di Dio, ben sintetizzata, nel finale del Prologo, nell’immagine dell’amore che rifiuta. Amore, protagonista della poesia di Herbert, viene evocato dalla Weil, alla fine del suo testo mistico, in forma dubitativa: all’esperienza dell’amore di Dio segue il dubbio, perché Dio non può essere per noi uno stabile possesso; dobbiamo restare in attesa, attendere che la grazia di Dio discenda. Alla fede segue il dubbio, necessario alla fede per non trasformarsi in idolatria».

Ecco il testo del Prologo ai Quaderni

Entrò nella mia camera e disse:
– Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti.
Lo seguii.
Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta. Mi condusse di fronte all’altare e mi disse:
– Inginocchiati.
Io gli dissi:
– Non sono stato battezzato.
Disse:
– Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in cui esiste la verità.
Obbedii.
Mi fece uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni venivano scaricate. Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie. Mi fece sedere.
Eravamo soli. Parlò. Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava.
Non era più inverno. Non era ancora primavera. I rami degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda e piena di sole.
La luce sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla finestra. Poi di nuovo sorgeva l’aurora.
Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo. Quel pane aveva davvero il gusto del pane. Non ho mai ritrovato quel gusto.
Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era costruita quella città.
Talvolta ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e la dolcezza del sonno scendeva su di me. Poi mi svegliavo e bevevo la luce del sole.
Mi aveva promesso un insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici.
Un giorno mi disse:
– Ora vattene.
Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi. Ma lui mi gettò per le scale. Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade. Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa. Non ho mai tentato di ritrovarla. Capii che era venuto a cercarmi per errore. Il mio posto non è in quella mansarda. Esso è dovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione.
Ovunque, ma non in quella mansarda.
Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto. Come sapere se mi ricordo esattamente? Egli non è qui per dirmelo.
So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama.
(continua/12)

2 Commenti

  1. Giuseppe ha detto:

    Credo che l’eccezionalità di Simone Weil sia, non solo nella sua profondità di pensiero e capacità di analisi, oltre che nella intensità delle virtù di cui il creatore le ha fatto dono, ma specialmente nella semplicità ed umiltà con cui le ha vissute. Dirò un’eresia per i benpensanti: spesso i santi non sono quelli che la chiesa ufficiale riconosce e venera sugli altari…

  2. GIANNI ha detto:

    Sintetizzando il senso della complessa riflessione espressa un po’ da tutti i testi della Weil, verrebbe da dire cogito ergo sum, pensando a Cartesio.
    Il pensiero che si sostanzia in esistenza stessa, tanto è incessante il pensiero stesso di questa autrice.

    Ma direi che può sorgere il rischio di frammentare tale riflessione complessiva in tanti meandri, mentre al fondo esiste sempre il filo rosso che unisce: una riflessione escatologica sul senso stesso dell’esistenza e, sopratutto, di una caratteristica dominante, la malheur e l’oppressione tipica cui generazioni di uomini hanno soggiaciuto.
    DI qui l’interrogativo di fondo di tutta la ricerca:
    se DIo è onnipotente, perchè la malheur, perchè l’oppressione?
    Nella risposta c’è anche il perchè fermarsi alle soglie della religione, e non travalicarle.
    Forse, ci dice la pensatrice,Dio non esprime sempre la sua onnipotenza a favore dell’uomo, per cui viene messo in crisi il concetto stesso di infinito amore verso i propri figli.
    Direi che i vari aspetti dell’opera omnia ruotano attorno a questo concetto dubitativo di fondo: Dio abbandana ad un certo punto l’uomo, come nella simbologia della mansarda?

Lascia un Commento

CAPTCHA
*