Omelie 2013 di don Giorgio: Festività di Pentecoste

19 maggio 2013: Domenica di Pentecoste

At 2,1-11; 1Cor 12,1-11; Gv 14,15-20

La Pasqua e la Pentecoste non sono feste tipicamente cristiane: affondano le loro origini nella tradizione ebraica. Il cristianesimo però ha dato a queste festività antichissime un contenuto nuovo. Ma non possiamo dimenticare che la novità è tale perché è stata innestata nell’antico. È opportuno, per non dire doveroso, conoscere anche le tradizioni ebraiche. Fermiamoci alla Pentecoste, di cui oggi la Chiesa universale celebra la festa. Per noi cristiani dire Pentecoste è dire discesa dello Spirito santo sugli apostoli, cinquanta giorni  dopo la Pasqua (il nome pentecoste in greco significa “cinquantesimo giorno”). Inizialmente, presso gli ebrei, era la “festa della mietitura e delle primizie” (Es 23,16). Certamente, non era una festa esclusivamente agricola, staccata dall’aspetto religioso: ogni festa ebraica era vissuta in riferimento a Dio. Perfino gli idolatri sentivano il dovere di ringraziare le divinità anche per i doni del campo.
Mi pare doveroso, in una società tipicamente industriale, sottolineare il legame che, presso gli antichi era forte, tra la natura e il Creatore. Legame che obbligava l’uomo ad avere un amore privilegiato per il creato. Oggi il rapporto con la natura è diverso, ma nel senso più ampio. L’amore alla terra non è solo per sfruttarla a nostro uso e consumo. Il creato viene sempre più visto come la nostra prima casa, il nostro habitat, senza del quale sarebbe impossibile vivere. Gli antichi vivevano dei frutti della terra, avevano con la terra un rapporto tanto speciale da vedervi anche la presenza o l’immagine della stessa divinità. Oggi ci stiamo rendendo coscienti che tra l’uomo e la terra il legame è così profondo che ogni violenza che si fa alla terra è una violenza che si fa ad ogni essere vivente.
È inconcepibile che ancora oggi ci sia quell’atteggiamento diciamo di indifferenza nei riguardi del proprio ambiente. Già i nomi dovrebbero farci riflettere: parliamo di creato, e perciò dovrebbe essere logico pensare al Creatore. Secondo una certa concezione cattolica, che non è poi così rara, l’ambiente non è affar nostro, dimenticando che, come dice la Genesi, Dio ha creato l’uomo in un mondo meraviglioso. Alla religione, dunque, non deve interessare solo la salvezza delle anime, lasciando che l’egoismo umano spenga l’anima di questo mondo.
Nel giorno della Pentecoste la liturgia ci invita a pensare a quella prima Pentecoste che ha dato l’avvio ufficiale alla Chiesa. Come leggere e interpretare il brano degli Atti degli apostoli, in cui Luca descrive il grande Evento della discesa dello Spirito santo? Prenderlo alla lettera, come se effettivamente un fragore di vento avesse riempito la casa, come se effettivamente lingue di fuoco si fossero posate sulla testa di ognuno degli apostoli, così come si vede nelle raffigurazioni dei pittori?  Mi faccio aiutare dalle parole di Padre Ermes Ronchi.
«Cinquanta giorni dopo Pasqua, c’è la discesa dello Spirito santo, raccontata dagli Atti degli Apostoli con la mediazione dei simboli. La casa, prima di tutto. Un gruppo di uomini e donne nella stanza al piano superiore (Atti 1,13), dentro una casa, simbolo di interiorità e di accoglienza; nella stanza al piano alto, da dove lo sguardo può spaziare più lontano e più in alto; in una casa qualunque, affermazione della libertà dello Spirito, che non ha luoghi autorizzati o riservati, e ogni casa è suo tempio.
Il vento, poi: all’improvviso un vento impetuoso riempì tutta la casa (Atti 2,2), che conduce pollini di primavera e disperde la polvere, che porta fecondità e smuove le cose immobili. Che non sai da dove viene e dove va, folate di dinamismo e di futuro. “Lo Spirito è il vento che fa nascere i cercatori d’oro” (Vannucci), che apre respiri e orizzonti e ti fa pensare in grande. Mentre tu sei impegnato a tracciare i confini di casa tua, lui spalanca finestre, dilata lo sguardo. Ti fa comprendere che dove tu finisci inizia il mondo, che la fine dell’isola corrisponde all’inizio dell’oceano, che dove questa tua vita termina comincia la vita infinita. Tu confini con Dio.
Poi, il simbolo del fuoco. Lo Spirito tiene acceso qualcosa in noi anche nei giorni spenti, accende fiammelle d’amore, sorrisi, capacità di perdonare; e la cosa più semplice: la voglia di amare la vita, la voglia di vivere. Noi nasciamo accesi, i bambini sono accesi, poi i colpi duri della vita possono spegnerci. Ma noi possiamo attingere ad un fuoco che non viene mai meno, allo Spirito, accensione del cuore lungo la strada e sua giovinezza».
Vorrei dire qualcosa sul dono delle lingue, di cui anche l’apostolo Paolo parla nella sua prima lettera ai Corinti. Non possiamo non richiamare l’episodio della Torre di Babele, il tentativo dell’uomo di sfidare Dio. Un racconto da non prendere alla lettera, ma come mito, del resto presente presso tutte le religioni. Da sempre l’uomo ha voluto lanciare una sfida a Dio. Basterebbe già pensare ai nostri progenitori. Ciò che vorrei ora chiarire è come Dio ha reagito nel caso della Torre di Babele. Ci hanno sempre detto che Dio ha disperso quegli uomini introducendo lingue diverse. Il racconto (capitolo 11 della Genesi) inizia così: «Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole». Sembrerebbe che prima della sfida a Dio con la Torre di Babele esistesse un unico linguaggio. Ma non è così. Basterebbe leggere i capitoli precedenti. E allora come interpretare la punizione divina? La divisione o la pluralità delle lingue non va vista come una punizione, ma al contrario come una benedizione di Dio. Secondo la Bibbia, la  varietà dei popoli è nel segno della benedizione di Dio. La molteplicità è una molteplicità benedetta. Dunque, la dispersione dei popoli che si stanziano sulla terra non è qualcosa di negativo, ma opera della benedizione di Dio. E arriviamo al capitolo 11, con il racconto della Torre di Babele. Non è la dispersione dei popoli, ciascuno con la sua lingua, che va giudicato negativamente, ma giudicato negativamente da Dio è piuttosto il tentativo opposto, quello di imporre un’unità, come dominio. Allora la frase: «Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» rivela la condizione di una umanità degenerata. “In realtà – osserva Enzo Bianchi – se c’è una parola unica, questa è la parola del più forte, del più potente, di colui che detiene il potere”. Capite allora dove sta la forza del potere che vuole dominare tutto! Sta nel suo disegno che vuole essere unico, nella lingua che vuole essere unica. Oggi parliamo di un disegno unico, di un pensiero unico che si vorrebbe imporre a tutti. Quel tentativo degli antichi di sfidare Dio con il linguaggio unico, imponendo un unico disegno sul mondo, è sempre attuale. Il problema, dunque, non è quello di capirci perché parliamo lingue diverse, il problema è quando parliamo lo stesso linguaggio, secondo un unico disegno, che è quello di un potere che vuole dominare il mondo.
Commenta don Angelo Casati: «Voler essere grandi, farsi un nome, svuotare il cielo, è l’anima del progetto. La logica che soggiace è la logica dell’onnipotenza, è la pretesa dell’immortalità. La logica non è “custodire il giardino”, il giardino dell’umanità, ma farsi un nome, avere successo, dominare sugli altri. La torre del controllo: tutto sotto controllo! Sembra di leggere qui l’origine di ogni razzismo, di ogni totalitarismo, di ogni soffocamento della diversità… Il Signore disse: “Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. È come se Dio smascherasse la parola “unità”.
Un solo popolo, una sola lingua, un’unità che soffoca le diversità, un’unità che uccide l’immaginazione – il modello è unico, va globalizzato! – un’unità che è la propria lingua imposta a tutti: la lingua della propria religione, della propria cultura, della propria razza, le settanta lingue della genealogia impoverite in un’unica lingua. E si dice: abbiamo fatto l’unità. Come quando in una casa parla uno solo. Dio smaschera questa unità, l’unità dell’unica lingua.
Nella Bibbia, nel Secondo Testamento, c’è un episodio che tutti gli esegeti mettono a confronto con quello della Torre di Babele, l’episodio della Pentecoste. Lo Spirito scende sotto lingue di fuoco e nasce la comprensione delle lingue. La confusione delle lingue a Babele, la comprensione delle lingue a Pentecoste. Che non è – come a volte si cerca di farlo passare – l’accadere di una lingua sola, una sorta di esperanto, che ci faccia intendere gli uni gli altri. La gente era stupita non perché ci fosse una lingua sola, ma perché udivano gli apostoli parlare ciascuno nella propria lingua nativa. “E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?”.
L’ideale non è dunque un unico centro di potere religioso, politico, sociale, culturale, ma stare dentro la lingua mobile degli altri. La dispersione! Dio non vuole essere rinchiuso in una sola lingua, potremmo dire anche in una religione, se una religione tende a imprigionare Dio. Si può celebrare la Pentecoste e ritornare purtroppo al progetto dell’unica lingua… Quando un uomo, una donna, un popolo diventa benedizione? Quando costruisce la torre, o quando discende? Al mito della scalata del cielo la Bibbia risponde con un Dio che scende e cammina: “sono stato con te dovunque sei andato” (2 Sam. 7,9). Risponde con la storia di Gesù, il Figlio di Dio, sceso nella carne dell’uomo. Davvero una benedizione».

 

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