Omelie 2013 di don Giorgio: Seconda domenica dopo il Martirio di Giovanni Battista

8 settembre 2013: Seconda dopo Martirio San Giovanni
Il primo brano, tolto dal libro del Primo o Proto Isaia è il cosiddetto canto della vigna. Non si tratta solo di un cantico, nel senso di componimento lirico di tono solenne e di contenuto narrativo o religioso, in realtà la gente cantava durante le feste della mietitura e della vendemmia, e cantava il lavoro e l’amore. Due temi, possiamo dire eterni, da quando esiste l’uomo sulla terra. Si proponevano anche degli enigmi. La gente si divertiva nel trovare qualche spiegazione. Forse Isaia cantò questo, che è, nello stesso tempo, un canto di lavoro, un canto d’amore ed un enigma. Ma siccome era anche un profeta, è andato oltre un senso prettamente letterale: il lavoro e l’amore assumevano significati più alti, e l’enigma diventava ancor più misterioso. Sul momento la gente non ha capito, e si è divertita. Anzi si è appassionata per quel contadino che prova tanto amore per la sua terra e le sue coltivazioni. In apertura il profeta ricorre al linguaggio dell’amore per indicare un rapporto di intimità (“mio diletto…, cantico d’amore…, mio diletto…), però subito fa intravedere una delusione, presente nel verbo “attendere”, ribadito quattro volte, a indicare una speranza frustrata. Ed ecco che Isaia si rivolge agli spettatori, ponendo loro una domanda: voi che avreste fatto di fronte a questa vigna così curata ma improduttiva? Il vignaiolo ce l’ha messa tutta per farla fruttificare, ma inutilmente: qualcosa non ha funzionato. Di chi è la colpa? Ecco l’enigma. Tocca ora al profeta risolverlo, lasciando il popolo fortemente amareggiato, perché di colpo si sente coinvolto direttamente, perciò responsabile. Chi è il vignaiolo? Dio stesso. Chi è la vigna? Israele. Dio, dunque, ha fatto di tutto per curare con amore il suo popolo, ma il popolo gli è rimasto infedele e disobbediente. Il versetto 7 suggella il senso della parabola profetica con un gioco di parole che in ebraico marcano la delusione di Dio: «egli si aspettava la rettitudine (mishpat) ed ecco invece il sangue versato (mispah), si attendeva giustizia (sedaqah) ed ecco invece grida di oppressi (se’aqah)».
I due termini, rettitudine e giustizia, costituiscono una coppia ricorrente nella predicazione profetica. Il termine ebraico “mishpat”, che in italiano corrisponde a “rettitudine” o “diritto”, è legato all’amministrazione della giustizia. Indica la sentenza del giudice, ma anche il suo contenuto e quindi i comportamenti conformi alla legge e al diritto. Il termine ebraico “sedaqah” o “sedeq”, che in italiano corrisponde a “giustizia”, si riferisce soprattutto alle relazioni con gli uomini e con Dio. Vivere la giustizia significa avere un rapporto positivo e adeguato con il prossimo e con Dio. Compito del re, secondo la Bibbia, è “fare diritto e giustizia”, governare cioè in modo da evitare che i rapporti sociali siano di dominio e di oppressione. Qui sento il dovere di fare un po’ di chiarezza, anche pensando alla società di oggi.
Dobbiamo fare attenzione quando parliamo di legalità e quando parliamo di giustizia. Il popolino ritiene che legalità e giustizia siano la stessa cosa. Ma purtroppo non è così. Nella realtà. Legale è una cosa che corrisponde alla legge, ma la legge chi la fa? La fa ad esempio il parlamento, e il parlamento fa forse le leggi sempre giuste? Che cosa sono le cosiddette leggi “ad personam”? La giustizia non la fa il parlamento, e neppure i tribunali o i giudici. La giustizia va oltre, è qualcosa di superiore alle leggi umane. La giustizia proviene dall’alto, diciamo che è dentro lo stesso disegno dell’universo. La giustizia è dentro anche di noi, nella nostra coscienza. Identificare legalità e giustizia è pericoloso, quando c’è ad esempio un regime che impone le sue leggi di dominio sulla stessa coscienza dei cittadini. Certo, l’ideale sarebbe che la legalità corrispondesse alla giustizia, in ogni caso la legalità dipende dalla giustizia e non viceversa. Le leggi, in altre parole, devono corrispondere alla dignità dell’essere umano, al bene comune, al bene dell’umanità. La legalità può diventare illegalità in rapporto alla giustizia, e la giustizia che diventa succube della legalità illegale si fa corrompere a danno dei singoli e della società.
Il brano di oggi continua con una vigorosa denuncia contro l’ingiustizia o la legalità illegale. La denuncia è formulata con una serie di sei “Guai!”, che sono una maledizione contro altrettanti delitti concreti e che rivelano la qualità molto viva e diretta – e non generica e astratta – della predicazione profetica. I profeti parlavano chiaro, si riferivano a fatti ben evidenziati e circostanziati, non parlavano in generale, facevano anche i nomi dei corrotti. Una condanna, la loro, che toccava realtà sociali e politiche del loro tempo. Ma che sono attuali. La società cambia, è vero, ma le ingiustizie non cambiano. Cambiano i nomi, ma ancora oggi ci sono i ricchi prepotenti, ci sono i poveracci vittime dei soprusi. Anzi, siccome oggi sembra che la società abbia preso maggiore coscienza dei diritti della persona umana, dei diritti civili, della dignità di ogni essere umano, della fratellanza universale, allora diventa ancora più stridente il fatto che si continui a tollerare il razzismo o la sudditanza al potere corruttore. Una volta c’era una specie di sacro timore del potere, ritenuto tra l’altro come una quasi necessità divina, per cui la gente riveriva le autorità costituite, nonostante fosse costretta a subire angherie. Oggi tale sudditanza non è scomparsa del tutto, anzi è aumentata, camuffata dall’apparenza democratica. In nome della democrazia, io voto ancora i corrotti, i corruttori e i corruttibili.
Già i profeti dell’Antico Testamento stigmatizzavano i disordini sociali, che non provenivano certo dal popolo che si ribellava magari con violenza, ma da un potere che governava, anche con la complicità del popolo che taceva. E ancora oggi il popolo tace quando è riuscito, magari sgomitando a danno dei propri simili, a prendersi un angolino in cui vivere in santa pace.
Isaia si scaglia anzitutto contro i latifondisti. Sentite cosa scrive: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese». Eppure, secondo il libro del Levitico, i passaggi di proprietà erano sottoposti a limitazioni. Secondo la legge del Giubileo, ogni tot anni, le terre tornavano agli antichi proprietari. Il Signore così giustifica questa legge: “La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni”. Con ciò si garantiva la sicurezza sociale, facendo rimanere il più possibile la proprietà all’interno della famiglia o del clan. Isaia denuncia con vigore il progressivo smantellamento di questa struttura sociale in  favore di pochi latifondisti e a spese dei piccoli contadini.
Isaia passa poi a condannare le orge e la dolce vita delle alte classi: esse attirano lo sdegno del Signore, che non rimane indifferente e decide di scendere in campo con la sua potenza, distruggendo l’arroganza e la prepotenza.
Poi è la volta della denuncia delle perversioni morali per cui si chiama male il bene e bene il male. Un altro breve “Guai” è riservato a quanti si inorgogliscono per la loro scaltrezza e abilità. L’ultima delle sei maledizioni è lanciata contro la corruzione della magistratura che nega giustizia all’innocente, assolvendo per denaro il colpevole.
Come vedete, Isaia ne ha per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, violano i diritti della giustizia, intesa nel suo più ampio concetto di bene comune, nel rispetto della singola persona. E tutto questo in nome dell’Alleanza con Dio.
Secondo i profeti si onora Dio rispettando i diritti dei più deboli, riequilibrando i rapporti sociali, ristabilendo il disegno originario secondo cui tutti siamo fratelli. La religione non è una faccenda personale tra me e Dio. Anche il diritto di proprietà entra in quel rapporto con Dio che ha creato la terra per tutti, e che vuole che tutti abbiano gli stessi diritti di usufruire della terra per garantirsi quella libertà che non sarà possibile, finché ci saranno i prepotenti che vogliono più del dovuto, ovvero più di ciò che è stabilito dalla legge della fratellanza e della destinazione universale dei beni della terra.

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