Omelie 2014 di don Giorgio: Quarta Domenica di Pasqua

11 maggio 2014: Quarta di Pasqua
At 6,1-7; Rm 10,11-15; Gv 10,11-18
Il primo brano della Messa fa parte degli “Atti degli Apostoli”, un libro che nell’ordine canonico degli scritti del Nuovo Testamento viene subito dopo il Vangelo di Giovanni. Composto da Luca, autore anche del terzo Vangelo, racconta gli inizi del cristianesimo, insistendo in modo particolare su Paolo, con l’intento di far arrivare il messaggio di Cristo fino a Roma, il cuore dell’impero pagano, e qui il libro si chiude con la prima prigionia del grande apostolo.
È un libro poco noto ai cristiani di oggi. E pensare che è fondamentale per i credenti conoscere ciò che è successo subito dopo la morte e la risurrezione di Cristo.
Il titolo “Atti degli Apostoli” può distoglierci dal vero protagonista, che non è Pietro o Paolo, ma è lo Spirito Santo. Qui il discorso si farebbe lungo. Già ho fatto qualche accenno. Non dobbiamo mai dimenticare che è lo Spirito Santo a tradurre il Cristo nella vita della Chiesa, oltre la sua vicenda terrena.
Già ho parlato della differenza tra il Cristo storico e il Cristo della fede: in breve, lo Spirito Santo ha la missione di interiorizzare il Cristo storico senza naturalmente renderlo disincarnato, come qualcosa di evanescente. Non è facile far capire la realtà del cristianesimo che, sotto l’azione dello Spirito Santo, s’incarna ancor di più, senza fermarsi solo alle vicende storiche di Cristo. È interessante vedere, man mano si legge il libro “Atti degli Apostoli”, ciò che succede dopo la discesa dello Spirito santo, il giorno della Pentecoste. Lo Spirito conduce la Chiesa primitiva quasi per mano, pur tra le numerose difficoltà e anche gli errori dei suoi seguaci.
Non pensiamo che tutto filasse via liscio, che tutti fossero già santi, anche se i primi cristiani inizialmente erano chiamati anche “santi”, ovvero consacrati al Cristo e al suo servizio. Santi, nel senso di “chiamati alla santità”, ma non perché fossero già santi per il fatto di essere cristiani. Il libro “Atti degli Apostoli” registra già nella Chiesa primitiva defezioni, tradimenti, infedeltà, contese, litigi, invidie. Non dobbiamo pensare che lo Spirito Santo, come un burattinaio, manovrasse i cristiani come manichini. Ognuno aveva la sua libertà, manteneva il suo carattere, poteva, se voleva, sbagliare. Quindi, non dobbiamo scandalizzarci se già fin dagli inizi tra i credenti nascessero delle incomprensioni. È quanto ci rivela il brano di oggi.
Nel capitolo sesto, Luca annota che il numero degli appartenenti alla Chiesa cresceva sensibilmente, e si sentiva perciò l’esigenza di dare a tale sviluppo una forma minimamente organizzativa. Ma la strada non era tutta in discesa: sorsero fulminee anche le prime difficoltà. Difficoltà provenienti dall’esterno (basterebbe pensare alla violenta opposizione scatenata dal giudaismo ufficiale nei riguardi del cristianesimo), e difficoltà provenienti anche dall’interno delle comunità cristiane che man mano si sviluppavano: i primi seguaci di Cristo dovettero affrontare problemi nuovi – inizialmente di carattere organizzativo, in seguito anche di carattere dottrinale – che rischiavano di indebolire la Chiesa stessa. Per avere una certa idea della complessità delle varie situazioni, cercherò di sintetizzare al massimo la composizione delle prime comunità cristiane.
Diciamo subito che i primi cristiani erano ebrei convertiti, quindi provenivano dal mondo giudaico. Ma il mondo giudaico non era monolitico.
C’erano i giudei residenti in Palestina e c’erano i cosiddetti giudei della “diaspora”, ovvero i giudei che per diversi motivi erano andati ad abitare fuori della propria patria. Diaspora significa dispersione, che era iniziata dopo l’esilio babilonese. Non tutti gli ebrei tornarono in patria.
Ora, questi giudei che risiedevano fuori della Palestina erano in un certo senso più aperti dei loro connazionali che abitavano in patria. Erano chiamati “ellenisti”, perché erano a contatto con la cultura greca e ne avevano subito anche un certo fascino. Ma c’erano anche gli ebrei cosiddetti “proseliti”: erano quei pagani che avevano aderito in tutto alla fede giudaica, accettandone perfino la circoncisione. E infine c’erano i pagani “simpatizzanti” per il giudaismo: erano quei pagani che partecipavano al culto della sinagoga, senza tuttavia abbracciare in tutto e per tutto le numerose osservanze giudaiche, tanto meno la circoncisione.
Adesso potete farvi una certa idea della composizione delle prime comunità cristiane, che erano composte di convertiti dal mondo giudaico in senso stretto e da quello aperto della “diaspora”, e di pagani più o meno simpatizzanti col mondo giudaico e di pagani-pagani.
All’inizio non è stato facile mettere insieme questa variegata composizione di culture e di religiosità, tenendo conto poi che il cristianesimo andava ben oltre l’ebraismo e il paganesimo.
Capite adesso ciò che scrive Luca all’inizio del brano di oggi: “In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli (tra parentesi: i primi credenti inizialmente erano chiamati fratelli, discepoli, santi e infine cristiani), quelli di lingua greca mormoravano contro quelli di lingua ebraica”. Che cosa era successo?
Si tratta di un caso molto concreto: riguardava l’organizzazione dei pasti comuni, cioè la distribuzione quotidiana di vitto e sussidi, a favore dei poveri. Un po’ di chiarezza: la mensa dei poveri non è stata una invenzione dei primi cristiani: era già in uso nelle comunità giudaiche. È vero che i cristiani si staccarono a poco a poco dalla religione ufficiale ebraica, ma non distrussero tutte le più belle abitudini ebraiche. Cristo è venuto a restituire l’anima alle cose, senza distruggere le cose. Ha ridato il primato allo spirito, all’essere umano in quanto essere umano. Capite allora che c’è modo e modo di vivere ad esempio la carità verso il prossimo. I primi cristiani non colsero nel profondo la Novità rivoluzionaria di Cristo, che consisteva appunto nel puntare al cuore dei veri problemi esistenziali. Non è che oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, abbiamo ancora capito del tutto che cosa significhi amare Dio e amare il prossimo. Il razzismo di qualsiasi forma è presente ancora tra i credenti, in quanto conservazione di privilegi, e i privilegi sono il mantenimento di ciò che abbiamo, dimenticando quanti non hanno avuto la fortuna di avere quanto abbiamo noi.
Ed ecco la lamentela: le vedove degli “ellenisti” vengono trattate meno bene rispetto alle altre. E questo che cos’è? Una forma di razzismo. Da qui nasce la contestazione, e la contestazione spinge alla discussione tra gli stessi apostoli.
Già questo fa capire lo spirito che animava la Chiesa primitiva. In seguito la Chiesa si chiuderà a riccio, ma all’inizio i problemi venivano affrontati con un dialogo aperto e sincero. Ci si confrontava, magari duramente, ma ci si confrontava. Ecco il bello della Chiesa di Cristo: confrontarsi!
Man mano la Chiesa s’ingrosserà nella struttura, rifiuterà il dialogo, per dare sempre più importanza agli aspetti istituzionali, tirando fuori la virtù dell’obbedienza e addirittura mortificando la libertà di coscienza.
La Chiesa nascente si è preoccupata subito di eliminare ogni forma di ingiustizia o di favori: ogni razzismo. Ed ecco la soluzione: agli apostoli spetterà soprattutto il compito di predicare e guidare le preghiere comunitarie, in particolare il servizio della Parola, sottinteso l’Eucaristia, chiamata allora la “fractio panis”, lo spezzare il pane eucaristico.
Per le attività più concrete, inerenti alla carità, si scelgono sette uomini, di “buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza”. Da notare: fra questi sette uomini, c’è uno di origine greca, e c’è un proselito. Da qui possiamo capire l’apertura saggia della Chiesa primitiva, tranne forse sul fatto che tutti e sette i diaconi sono maschi. In ogni caso, nel libro degli Atti degli Apostoli è interessante notare la presenza anche di donne importanti.
In conclusione, due osservazioni. Anzitutto, le difficoltà e  i contrasti devono servire a chiarire e a stimolare il passo in direzione del meglio. È il meglio il punto di riferimento per ogni discussione. Ci si deve confrontare, non per imporre il proprio punto di vista, ma per proporre quella che, al momento, si ritiene la soluzione migliore.
E c’è di più: la proposta migliore non riguarda solo l’aspetto organizzativo, ma lo stile con cui si realizza la tal cosa. Lo stile dipende dallo spirito con cui si fanno le cose.
Seconda osservazione. Nel brano degli “Atti” si parla più volte di servizio: già il termine “diacono” deriva da servizio. I diaconi dovevano servire la mensa dei poveri. Gli apostoli istituiscono il diaconato per non venir meno ad un altro servizio: il servizio della Parola. Anche la Parola va servita. Io non sono padrone né del mio prossimo né della Parola di Dio. Il mio compito è servire.
Pensate a cosa noi solitamente intendiamo per ministro e ministero, non solo nel campo politico ma anche nel campo ecclesiastico. Ministro e ministero derivano da “minus”: mi faccio meno, mi faccio più piccolo. La pensatrice francese Simone Weil nei suoi scritti parla di de-creazione. Dio, creando il mondo, si è come ritirato da se stesso, per dar posto all’essere umano e al creato. La creazione di Dio non va vista come se Dio si fosse espanso per dare modo alla sua onnipotenza di farsi valere ancora di più. Dicono che Alessandro Magno avesse un grosso dispiacere: che il mondo fosse troppo piccolo. La nostra avidità umana non ha fondo. Vogliamo di più, sempre di più, occupare spazi, comperare terre, togliere agli altri per espanderci noi. Dio, de-creandosi, vuole che anche noi ci de-creiamo, per dar posto agli altri: togliere qualcosa del nostro io, per far sì che nel vuoto che facciamo de-creandoci, il prossimo più bisognoso possa trovare spazio. Ritirarsi per dare spazio agli altri. Questo significa amare. Tra l’amore e il servizio c’è un nesso inscindibile.

1 Commento

    Lascia un Commento

    CAPTCHA
    *