Omelie 2017 di don Giorgio: TERZA DI AVVENTO

26 novembre 2017: TERZA DI AVVENTO
Is 51,1-6; 2Cor 2,14-16a; Gv 5,33-39
Alla ricerca di una parola “interessante” e “provocatoria”
I tre brani della Messa sembrano fuori contesto. Forse avremmo preferito una scelta più appropriata al tempo liturgico dell’attesa del Salvatore.
Ma facciamo uno sforzo, e cerchiamo di cogliere almeno qualche parola, che ci aiuti a riflettere in vista del Mistero natalizio che, diciamolo ancora una volta, meriterebbe una concentrazione anche mentale più di quanto noi cristiani facciamo, sommersi come siamo, anche perché ci fa comodo, in una massa di banalità, oramai diventate una prassi doverosa, per non dire necessaria: la prassi di una vigilia che si prolunga in uno spasmodico consumo di companatico, dimenticando il vero pane sostanzioso, quello che nutre il nostro spirito interiore.
“Ascoltatemi”… “risvegliati”… “ridestati”
Mi soffermo sul primo brano. Se leggiamo tutto il capitolo 51 del libro scritto dal Secondo Isaia, e l’inizio del 52, troviamo ripetuti i verbi all’imperativo: “ascoltatemi” e “risvegliati” oppure “ridestati”. Per ascoltare bisogna fare silenzio, altrimenti se parliamo non possiamo ascoltare chi ci parla, e succede, come avviene nei dibattiti politici, che le parole si sovrappongano, con  il caos che ne segue.
Se poi a parlare è Dio, allora il silenzio deve essere ancor profondo e interiore: possiamo anche non dire parole con la nostra lingua, ma se siamo distratti nei nostri pensieri o nel nostro cuore, allora non c’è ascolto.
Ecco poi il senso del verbo “risvegliarsi” o ”ridestarsi”. Se dentro di noi facciamo silenzio e lasciamo parlare lo Spirito interiore, si ridesta in noi quel Sé che è il fondo della nostra anima. “Risvegliatevi!”. Quanto mi piace questo verbo! Avevano ragione i grandi filosofi greci, i mistici indù e i mistici cristiani medievali a dire che dentro di noi c’è un Sé addormentato, magari in coma, da risvegliare. Tutti nasciamo con un sé addormentato: il nostro compito è di risvegliarlo.
Ma se noi lasciamo allo Spirito la possibilità di parlare, il Sé divino si risveglia. Più noi parliamo o lasciamo parlare chi non ha diritto di parlare con il linguaggio dello Spirito, il nostro sé, ovvero il nostro essere più interiore, rimane in coma. E allora ecco una società di alienati, di fuori testa: fuori di quel Sè che è il nostro vero essere.
Detto questo, ci è più facile ora cogliere il significato della parola “giustizia”.
Giustizia, diritto o legge
Non solo nella società, dove la parola “giustizia” come l’insieme di diritti da conquistare ha forse superato la parola amore, ma anche nella Bibbia la parola “giustizia” ricorre frequentemente, anche sotto forma di diritto o di legge.
I primi cinque libri dell’Antico Testamento, che formano il Pentateuco, sono chiamati dagli ebrei la Torah, ovvero la Legge. Pensate anche ai Salmi, dove la legge è quasi un ritornello. Del resto, la parola “testamento”, che significa patto o alleanza, richiama la legge.
Ed ecco la domanda: che rapporto c’è tra la giustizia e la legge o il diritto? Nel campo sociale, c’è un rapporto così stretto che non si può parlare di giustizia senza il diritto o la legge.
Purtroppo, ripeto purtroppo, nel campo religioso si è commesso l’errore di interpretare il nostro rapporto con Dio, facendo prevalere la legge, cadendo in quel fariseismo che non è mai morto. Per cui: tra il singolo e Dio c’è di mezzo la legge religiosa, che manipola a suo piacere sia il singolo che l’immagine stessa di Dio.
Secondo gli studiosi, nella Bibbia la “giustizia” (in ebraico, sedeq o sedaqh) è associata al volere di Dio e spesso indica la sua volontà. Può essere sinonimo di legge, intesa nel senso di rivelazione. Sempre secondo la Bibbia, “volere” o “seguire” la giustizia indica l’impegno a realizzarla; “conoscere” la giustizia implica la dedizione di tutta la persona nel vivere la volontà divina. Per questo equivale, come dice il profeta Geremia, ad “avere la legge nel cuore”.
Che dire? Tante belle parole, ma sulle parole si può equivocare, e cadere sempre nel difetto del fariseismo. Se legge è rivelazione del volere di Dio, bisogna sapere qual è la volontà di Dio, che non va fatta coincidere con il volere umano, e nemmeno della religione o della Chiesa. Sta qui il punto: qual è il volere di Dio? E poi: che significa volere?
Dio è il volere del Bene assoluto, e quindi del nostro bene come ricerca del Bene assoluto. La giustizia di Dio allora è Dio stesso come Bene assoluto. Giustizia umana è tendere alla giustizia di Dio come Bene assoluto. Sganciata dal Bene assoluto, la giustizia cade nell’egoismo più spietato o nella schiavitù più feroce.
Ci tengo a parlare di giustizia, perché ritengo che sia la parola da scoprire nella sua essenza: una scoperta che precede quella dell’amore, della libertà e della verità.
Se ben riflettiamo, i nostri concetti di amore, di libertà e di verità sono riduttivi o addirittura falsi, perché ci manca il vero concetto di giustizia, intesa come quell’armonia che dà ad ogni cosa il suo vero posto.
Se in Dio tutto è giustizia o armonia, tra di noi e in noi non è così. Tutto è squilibrato, per quel senso di falsa giustizia che fa prevalere i nostri diritti sugli altri. In tal caso come possiamo parlare di amore, di libertà e di verità?
Quando diciamo che Dio è giusto, quando parliamo dei giusti di Dio, non possiamo non ribaltare i nostri concetti di giustizia, di diritto e di legge.
Poco fa ho citato Geremia. Il profeta spiega cos’è la nuova alleanza che Dio vuole concludere con il popolo d’Israele: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò nel loro cuore».
Dunque, la legge di Dio è nel nostro essere interiore. Da qui, dal nostro essere interiore, ha origine la vera giustizia, e dalla giustizia hanno origine l’amore, la libertà e la verità.

 

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