“Un giorno intero lontani dal mondo,
da dedicare tutto a Dio”
«Celebrare il giorno della grazia ricevuta, un giorno senza impegni o servizi da prestare, senza impegni al mattino, al pomeriggio, alla sera. Un giorno da dedicare solo alla gratitudine per i doni di Dio, per essere contenti, senza niente da preparare, con tutte le ore disponibili per vivere momenti piacevoli, lieti, da soli o con gli amici. Un giorno di amicizia gratuita con Gesù, camminando su qualche sentiero o in qualche luogo dove ci si trova bene, senza messaggi da leggere o da inviare, senza chiamate a cui rispondere. Per me sarà il 3 aprile». (Mario Delpini)
Quando un vescovo, per non dire del papa, non riesce più a parlare “col cuore al cuore” dei suoi preti, allora la sua missione pastorale è giunta al capolinea e, umilmente, dovrebbe dare le dimissioni: ha fallito come buon pastore, il cui compito è quello di “incoraggiare” anzitutto i suoi preti.
Ho ascoltato le omelie di Mario Delpini nei giorni della Settimana Santa, in particolare l’omelia della Messa crismale celebrata davanti a numerosissimi sacerdoti milanesi. Che cosa di “buono” ha detto loro?
Forse Delpini, vescovo Mario, non si accorge, ma quasi sempre, per non dire sempre, non sa dire che parole sul “negativo”.
Ma perché non dici almeno qualcosa che incoraggi i tuoi preti già martoriati da una diocesi poco attenta alle loro “ferite”: “ferite” da risanare non solo con la Grazia divina, ma anche con una particolare attenzione, che è “presenza” paterna, anche fisica, traboccante di umanità?
Non so, forse è un brutto vizio dei nostri superiori, che non hanno mai tempo per i loro preti, perché sono super impegnati “altrove” (dove?), tanto da non ascoltare nessuno, anzi si irritano se qualche prete con seri problemi fa loro perdere del tempo prezioso (prezioso in che senso e per chi?).
Basta poco perché un vescovo chiuda porte e finestre: porre qualche domanda irritante o stimolante o provocatoria, e il “buon” (!) pastore non risponde più, si blocca anche per un ego “ferito”, coperto da una fama di un nascosto spiritualismo che non riesco proprio nemmeno a percepire.
Che cosa ti costa dire una buona parola consolatoria, una parola di grazia soprattutto per coloro che collaborano con te nello stesso Regno, che è giustizia, pace, riconciliazione, misericordia, ecc. ecc.?
Ma non è che questi superiori, a partire dal papa, abbiano “loro” seri problemi di carattere psicologico e anche psichiatrico?
Il prossimo 3 aprile non potrebbe essere l’occasione per Mario Delpini per un bagno di umiltà, e decidere se cambiare oppure andarsene?
La Diocesi ha urgentemente bisogno di un pastore non più girovago a 360 gradi o a 365 giorni all’anno, ma che si fermi, non un solo giorno all’anno, ma 365 giorni, dedicando tutto il tempo al silenzio, alla contemplazione, ricevendo con il cuore i suoi preti.
Se i preti sono accompagnati dalla “bontà” del loro pastore – e i preti in una diocesi sono come l’ossatura pastorale delle comunità – forse tutto si rimetterebbe sulla “giusta” strada.
Non c’è altra via d’uscita. Aut aut!
***
Forse mai nel passato un arcivescovo (tanto meno durante la Messa crismale del Giovedì santo) si era rivolto ai suoi preti con una omelia così deprimente, traboccante di parole quali: cadute, inciampi, cicatrici, ferite, prigioni, amarezze, delusioni, risentimenti, sconfitte, fallimenti, abbandoni, miserie, inadeguatezze, indisponenti, maschere, scoraggiamenti, ecc. ecc., e di espressioni quali: “un confratello insopportabile, un uomo che non vale niente, un prete che non mi capisce, che non mi aiuta per niente, che ha la testa piena di idee sbagliate”, “abbiamo bisogno di essere guariti”, “spesso di fronte alla frantumazione della convivenza umana ci sentiamo scoraggiati, non osiamo più sperare la pace, ci rassegniamo al disastro assurdo della guerra”.
Se fosse stato in Duomo, al termine mi sarei sparato!
Messa Crismale
Milano – giovedì – 28 marzo 2024.
Unti con olio, guariti
1. Dove abbiamo inciampato?
Come è bello che i fratelli si incontrino: si salutano, si interessano uni degli altri, si incoraggiano, si vogliono bene. Come è edificante questo ritrovarci per celebrare i santi misteri e ringraziare per il nostro essere consacrati in questo presbiterio per servire il popolo cristiano con l’annuncio della parola, con la celebrazione dei sacramenti della salvezza, con il servizio dell’autorità per orientare il cammino dei fedeli sulle vie della missione!
Io però vedo che portiamo i segni di cadute: dove avete inciampato?
Io però vedo che ci sono cicatrici di ferite antiche: chi vi ha colpito? Chi vi ha ferito?
Io però indovino confessioni di amarezza, delusione, risentimento: donde viene l’amarezza, donde viene la delusione, donde viene il risentimento?
È opportuno non solo confessare i nostri peccati, come abbiamo fatto all’inizio della Quaresima. Ma in questo momento in cui benediciamo gli olii della consacrazione e della consolazione è anche l’occasione di grazia per invocare il balsamo per le nostre ferite e sperimentare con Gesù la via della guarigione: nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito (Eb 5,7).
Forse tu hai inciampato nella sconfitta e nel fallimento. Forse proprio le persone che ti erano più care e più vicine, quelle che consideravi più promettenti, forse proprio loro ti hanno deluso e abbandonato. Gesù ha immaginato così la missione: se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene …
Forse tu hai inciampato nell’impotenza di fronte a miserie, bisogni, urgenze, sfide troppo più grandi delle risorse disponibili. Gesù ha immaginato e, a quanto pare, anche voluto questa sproporzione: e ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare i sandali e di non portare due tuniche (Mc 6,8-9).
Forse tu hai inciampato nella tua inadeguatezza: quello su cui più facevi affidamento, i tratti del tuo carattere, il livello della tua preparazione, le tue risorse di salute, di resistenza, forse proprio queste cose si sono rivelate le più inutili.
Forse tu hai inciampato nella delusione del compagno di viaggio, come per dire: ci hai mandato a due a due, ma chi mi hai messo vicino? Un confratello insopportabile, un uomo che non vale niente, un prete che non mi capisce, che non mi aiuta per niente, che ha la testa piena di idee sbagliate.
Forse tu hai inciampato in successori dei Dodici che ti risultano indisponenti: forse non riesci a condivider il modo con cui il Papa esercita il suo ministero. Forse trovi che il tuo Vescovo non è per niente all’altezza del suo compito e non sa essere d’aiuto a questa Chiesa in questo momento, forse non è in grado di apprezzarti adeguatamente, forse viene meno il suo aiuto, la sua stima, la parola illuminante proprio quando è più necessario.
2. Una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso.
Ci raduniamo, dunque, portando anche, insieme con tanta gratitudine e tanta gioia, anche ferite, cicatrici, delusioni e amarezze.
È bene che non vestiamo la maschera di una serenità imperturbabile o di un ottimismo per principio. Noi ci raduniamo perché abbiamo molto di cui ringraziare, ma anche molto da confessare, molto da guarire. Noi non vogliamo restare imprigionati nelle nostre amarezze, ripiegati sulle nostre ferite.
Con forti grida e lacrime noi chiediamo di essere salvati!
La nostra salvezza è la pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso. Noi non possiamo essere salvati se non da Gesù, dalla comunione con lui: avvicinandoci al Signore, pietra viva quali pietre vive siamo costruiti anche noi, come edificio spirituale, per un sacerdozio santo. Il fondamento del sacerdozio, il fondamento dell’appartenenza al popolo santo di Dio, il fondamento della nostra fraternità nel clero diocesano non è il culto, non è un progetto pastorale, non è un servizio da rendere, ma solo Gesù. Fratelli io vi supplico: cerchiamo Gesù, restiamo uniti a Gesù, restiamo uniti in Gesù. Perciò restiamo uniti nel celebrare la Pasqua di Gesù, la sua morte, la sua risurrezione, il dono dello Spirito. Preghiamo insieme Gesù.
In questa celebrazione della Messa Crismale io a nome di tutta la Chiesa Ambrosiana, nel mio ruolo di capo-rito firmerò il decreto della pubblicazione della nuova edizione del Messale Ambrosiano. È solo uno strumento, ma è uno strumento prezioso per pregare insieme, per pregare ogni giorno, per lasciarci conformare alla preghiera drammatica di Gesù, noi che un tempo eravamo non popolo ora invece siamo popolo di Dio.
Le nostre ferite, le nostre tristezze, i nostri risentimenti invocano la guarigione. In questa celebrazione benediciamo gli oli per la celebrazione dei sacramenti che sono per la nostra guarigione e per guarire tutto il popolo cristiano. Ma noi abbiamo bisogno di essere guariti, di tenere viva in noi la grazia della consacrazione battesimale e presbiterale. Noi abbiamo la missione di guarire. Per questo siamo stati mandati e così hanno fatto i primi inviati da Gesù: ungevano con olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,13). L’olio versato sulle nostre ferite e su quelle dei fratelli e delle sorelle guarisce non come una sorta di magia, ma come un gesto di Cristo, una parola amica, una fraternità accogliente radunata dalla compassione. Vi supplico, non restate insensibili alle invocazioni della gente che cerca consolazione, speranza, guarigione!
La nostra missione è essere riconciliati con Dio per riconciliare tutti nella fraternità universale.
La parola di Pietro che incoraggia la povera comunità del suo tempo incoraggi anche noi: spesso di fronte alla frantumazione della convivenza umana ci sentiamo scoraggiati, non osiamo più sperare la pace, ci rassegniamo al disastro assurdo della guerra. Siamo chiamati invece a credere che se anche siamo “non popolo” possiamo diventare “popolo di Dio”. La Chiesa dalle genti è posta come profezia dentro la storia umana per dire di una riconciliazione possibile. Vi supplico: preghiamo per la pace, costruiamo la pace, compiamo opere di pace.
***
Vi risparmio di ascoltare o di leggere il testo delle altre omelie dei giorni scorsi, neppure di quella del Giorno di Pasqua, in cui predomina la parola “disperazione”.
Guardate il video allegato a questo post, meglio senza audio, e guardate le facce dei preti che ascoltano l’omelia del vescovo. Volti annoiati, tristi, alcuni dormono, alcuni sudati e rossi (in preda a stress se non ansia). Sguardi persi nel vuoto che provano a sopportare sperando che finisca presto. Adesso chiudete gli occhi ed immaginate la folla che ascolta Gesù durante il discorso della montagna. Non li immaginate attenti, rilassati, concentrati, con gli occhi sognanti che brillano dall’emozione? Folle di gente che non voleva tornare a casa ma seguire Gesù ovunque. Ecco c’è qualcosa di distorto, di profondamente distorto tra chi dava voce allo Spirito, infondeva speranza e spronava a diventare uomini liberi e chi parla di strutture, obbedienza e catastrofismi vari. Chi impronta ancora il suo predicare su precetti e sensi di colpa. Questa è la differenza sostanziale. Oltre ai simboli del potere imbarazzanti che un Vescovo è tenuto ad indossare per far ricordare a tutti che lui è il Vescovo…non abbiamo la Malattia di Alzheimer lo sappiamo ancora riconoscere il Vescovo in mezzo a tante persone; per me può evitare anelli, croci, pastorali e mitrie.
La Messa Crismale conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, la casta sacerdotale. Una celebrazione dove si riafferma il potere del vescovo e la sudditanza dei preti. Dove i preti fanno a gara per mettersi in prima fila e potersi inchinare al regnante. Angosciante.
Davvero una spettacolo vomitevole.
Ho ascoltato l’omelia in diretta e devo dire che l’ho trovata rappresentativa della pochezza del Vescovo. Ha citato, senza capire perché, quei preti arrabbiati col Vescovo e quindi non presenti. Come volesse dire che è a conoscenza di questo fatto ma non ha mandato alcun messaggio. È rimasto, come sempre, all’esterno, tiepido, senza parole. Ritengo impossibile accontentare tutti ma di certo si può dialogare con tutti, ascoltare tutti, dimostrare vicinanza a tutti. Questo mi sembra il minimo. Trovo insensato citare questi casi come se fossero eretici, traditori, non dimostrando rispetto e attenzione per tutti. Vince sempre la struttura, la gerarchia e mai l’amore per la singola persona. Vorrei dire una cosa: quei preti che ingoiano rospi per obbedire al Vescovo e si impongono obbedienza a tutti i costi stanno tradendo lo Spirito. Sono condannati ad essere infelici, a sfogare le loro rabbie sulla povera gente. C’è una via più sana per costruire il regno di Dio che passa, spesso, dall’obbedire allo Spirito. Il Vescovo dovrebbe operare su un piano diverso; non pretendere di uniformare e controllare ma cercare di valorizzare ogni singolo prete. Aiutarlo a tirare fuori quello che ha dentro. Un discorso meno materiale e più spirituale. Oggi ci si preoccupa solo della forma, del fare e l’essere rimane indietro. I riti pasquali, così fitti e intensi, rischiano di esser vissuti come un frullatore che ci travolge senza avere il tempo di capire, comprendere e crescere. Bisogna fare, partecipare, esserci. E dopo anni e anni non abbiamo ancora capito niente di questi fatti. Conosciamo gli avvenimenti ma non ci cambiano la vita. Rimaniamo all’esterno e l’andazzo del mondo ce lo conferma. Il Vescovo dovrebbe essere spaventato di questo. Non di un prete arrabbiato ma di un mondo che partecipa ma non capisce, che è sempre presente ma poi vive tutt’altro, che rimane insensibile pur nella fedeltà ai precetti.
Don Giorgio da tempo sta sollevando un problema che è profondo e che, con Angelo Scola e ora Mario Delpini, è andato tanto peggiorando: viene meno la figura paterna del vescovo.
Questo aspetto è quello che regge tutta la Diocesi, ed è il ruolo cardine del vescovo.
Per capire questo bisogna capire la preghiera del Padre Nostro.
Si possono ascoltare a riguardo le parole del Cardinale Carlo Maria Martini e/o leggere il libricino scritto da don Giorgio.
Anche se c’è un solo Padre, e noi dobbiamo affidarci completamente a Lui, il Vescovo nel suo ruolo deve essere simile a Lui. Un po’ come la figura del filosofo nella “Repubblica” di Platone.
Il Vescovo ha il bellissimo ma anche difficilissimo compito di dialogare coi suoi preti, che sono come suoi figli. Ascoltare in particolar modo quei figli profetici, che proprio per questo sono quelli che soffrono di più.
Al padre ci si dovrebbe abbandonare e non aver paura di nulla.
Oggi manca questa figura paterna, non solo nella diocesi milanese ma probabilmente ovunque nella Chiesa.
I rapporti sono divenuti freddi e tirati, mancano i dialoghi e la luce si è spenta. Al dialogo si è preferito la punizione e l’emarginazione, l’abbandono e la chiusura. La mancanza di com-prensione lascia spazio all’allontanamento.
Oggi il vescovo e di conseguenza i collaboratori sono lo specchio della società, e nella Chiesa succede come nella maggior parte delle famiglie di oggi.
Quelle di don Giorgio non sono critiche a sproposito o fatte perché lui si diverte: sono profonde, anche di sofferenza. Mai personali ma mosse da uno spirito puro in ricerca di ascolto.
Guardi che molte cose che dice sono rivolte a lei don Giorgio, come se volesse chiederle scusa. Quanto parla di mistica fa solo un tentativo di dialogo con lei.
A parte questo, la cerimonia è angosciante. Sembra che siano presenti non persone in carne ed ossa ma anime del purgatorio.
Forse sarebbe il caso di chiudere il Duomo e utilizzare una chiesa più piccola, magari una chiesetta di montagna.