A sinistra, lo scrittore Daniele Rielli. A destra, il taglio di un olivo a Torchiarolo, nel 2015, nell’ambito delle operazioni di contenimento
dal Corriere della Sera
Xylella, la strage ecologica fu causata
anche dalle fake news:
«Così la teoria del complotto
ha sconfitto la scienza»
di Chiara Severgnini
Intervista a Daniele Rielli, autore di «Il fuoco invisibile» (Rizzoli), che ripercorre tutta la storia dell’epidemia in Puglia
L’ulivo ha fama di essere immortale. Non è così. E lo abbiamo imparato nel peggiore dei modi: assistendo a una delle più gravi epidemie delle piante al mondo, quella causata in Puglia dal batterio (incurabile) Xylella fastidiosa. Un «fuoco invisibile» che, dal 2013 a oggi, ha consumato 21 milioni di ulivi.
Nel suo ultimo libro, Daniele Rielli spiega come è stato acceso, ma anche perché non siamo riusciti ad arginarlo. Xylella è un patogeno da quarantena, dunque abbattere gli ulivi infetti era (e resta) dolorosamente indispensabile, oltre che obbligatorio, per salvare quelli ancora sani: gli scienziati lo avevano detto subito. Ma in Puglia alla scienza molti hanno preferito le teorie del complotto, i tagli per molto tempo non sono stati fatti e la malattia si è diffusa. «In un focolaio ad Oria — ricorda Rielli — i negazionisti impedirono i tagli arrampicandosi sugli alberi, poi misero una targa per commemorare il loro “salvataggio”. La targa c’è ancora, gli ulivi no: sono morti».
Ne Il fuoco invisibile (Rizzoli), che non è un saggio ma un romanzo del reale scritto in prima persona, l’autore descrive le distese di alberi secchi che si estendono, oggi, tra Santa Maria di Leuca e Ostuni. E avverte: l’epidemia avanza (è già arrivata in provincia di Bari) e, con lei, anche il complottismo. «Le misure di contenimento sono migliorate, ma non bastano. E, là dove Xylella è appena arrivata, c’è ancora chi si oppone ai tagli. Come in Salento dieci anni fa».
Torniamo ad allora. Quali teorie circolavano, nei primi mesi dell’epidemia?
«Ce ne erano tante. C’era chi diceva che l’epidemia era un pretesto e che in realtà gli ulivi dovevano essere tagliati per fare posto a un complesso turistico a Gallipoli. Molti credevano che gli alberi seccassero per colpa di chissà quali prodotti sperimentali, spruzzati nottetempo da misteriose persone vestite con tute anticontaminazione… Quando il batterio raggiungeva nuove aree, queste storie viaggiavano con lui, come dei meme».
Intanto gli scienziati tentavano di spiegare perché i tagli erano, purtroppo, necessari. Ma i loro sforzi sono caduti nel vuoto. Anzi, a un certo punto si è venuta a creare una situazione che nel libro definisce «paradossale»: «Più la malattia avanzava e uccideva, meno le persone sembravano credere alla sua esistenza». Come mai?
«Si è affermata la narrazione negazionista, quella secondo cui il batterio non esisteva, o non era poi così aggressivo, e c’era un complotto ordito apposta per far tagliare ulivi. Una storia catartica, che spostava la responsabilità verso l’esterno. Un po’ come in Avatar, che non è il film più visto della storia del cinema per caso: l’idea di un albero sacro e di una comunità che lo difende dalla speculazione capitalistica, evidentemente, colpisce il nostro immaginario. La storia reale di Xylella, invece, come spesso accade alle storie reali, è complicata, tecnica. Difficile da capire. Tra le due, ha vinto la prima».
Cosa è andato storto?
«La politica non si è assunta le sue responsabilità: con le elezioni in arrivo, nessuno, né a destra né a sinistra, ha avuto il coraggio di dire che gli ulivi andavano abbattuti. Il futuro presidente, Michele Emiliano, in campagna elettorale ha incontrato più volte i negazionisti. E l’inchiesta della procura di Lecce, finita con l’archiviazione di tutti gli imputati, ha portato al sequestro degli alberi destinati al taglio: un blocco durato mesi».
Anche i social hanno fatto la loro parte?
«Ci sono molte analogie tra quello che è successo in Salento e quello che è accaduto in California nell’Ottocento, quando Xylella attaccò la vite: molte reazioni all’epidemia sono, per così dire, archetipali. Detto questo, i social hanno giocato un ruolo centrale. E non solo perché, banalmente, hanno dato voce a tutti. Il punto è che gli algoritmi delle piattaforme vogliono massimizzare la nostra attenzione e l’attenzione si ottiene attraverso lo scontro, il tribalismo e le narrazioni emotive. Soprattutto quelle che alzavano i toni o davano false speranze. Non a caso, è sui social, e in particolare su Facebook, che sono nati e si sono rafforzati i movimenti contro il taglio degli ulivi che poi sono finiti in piazza e hanno influenzato anche la politica».
Risultato?
«Per anni, in Salento, non ho incontrato quasi nessuno, tranne i ricercatori e qualche olivicoltore, che rifiutasse le tesi negazioniste. Solo ora, durante il tour del libro, mi è capitato di sentire qualcuno ammettere di aver “creduto alle cose sbagliate”. Sembra quasi di vedere persone che escono da una setta! Il clima, prima, era pesante. Quando l’agronomo Francesco Curci segnalò il focolaio di Oria, ad esempio, i suoi concittadini smisero di parlargli. Lui e la moglie sono stati emarginati per anni e in certi casi anche insultati per strada. In generale, le poche persone che cercavano di fare la cosa giusta, come loro, ne subivano le conseguenze. E non sono state abbastanza tutelate dalle autorità».
Nel libro scrive che l’Italia ha «un problema col concetto stesso di modernità». Perché?
«Spesso le culture procedono per ondate. Nel secondo dopoguerra in Italia c’è stata una sorta di ebbrezza per la modernizzazione. La gente sognava la città e fuggiva dalle campagne, i nostri nonni erano innamorati dei prodotti confezionati. Ora c’è un rovesciamento: idealizziamo la campagna e diffidiamo a priori di qualunque forma di scienza applicata all’agroalimentare. Anche se, in realtà, senza fertilizzanti e fitofarmaci il nostro cibo sarebbe di pessima qualità e ne avremmo molto meno. In più, siamo assuefatti alla tecnologia. Ha smesso di lasciarci a bocca aperta. Un paradosso: il nostro tenore di vita oggi è definito da scienza e tecnologia, ma le diamo entrambe per scontate».
La storia dell’epidemia causata da Xylella è drammatica. Ma potrebbe tramutarsi in un’occasione. “Per assurdo”, come scrive nel libro, ora in Puglia “potrebbe davvero nascere una olivicoltura migliore”. Perché?
«Al netto di qualche caso eccezionale, gli ulivi del Salento erano per lo più un’eredità di un’economia ormai finita, quella dell’olio lampante (l’olio impiegato come combustibile nelle lampade, ndr). Molti erano in stato di abbandono o semi-abbandono, spesso servivano solo all’autoconsumo, oppure per prendere i sussidi europei. Insomma, l’ulivo era una pianta simbolica, ma non era più una vera risorsa economica. Ora c’è la chance di far rinascere la cultura di lunga data della coltivazione degli ulivi in una forma più sostenibile ma anche più sensata economicamente, piantando varietà più produttive. Certo, non è facile. E, oltre che un’opportunità, è anche una responsabilità. Purtroppo, come da tradizione italiana, va tutto a rilento: la maggioranza degli ulivi uccisi da Xylella sono ancora nei campi e in Puglia, in dieci anni, non è neanche stato fatto un impianto biomassa per trasformare le piante morte in energia».
L’epidemia, a un certo punto, ha raggiunto anche gli ulivi della sua famiglia. Come stanno ora?
«Molti sono già morti. Altri ancora no: mio padre, con i suoi sforzi, è riuscito a farne sopravvivere alcuni, sono lo spettro degli alberi che erano un tempo ma per lui è importante che non muoiano tutti prima di lui. Su mia insistenza ha piantato alcune piante di varietà resistenti a Xylella: per ora stanno bene, ma crescono lentamente. È normale: gli ulivi hanno un metabolismo lento. Proprio per questo perdere così tante piante secolari e millenarie per colpa della gestione dell’epidemia è stato un danno pazzesco: erano un patrimonio inestimabile. Per ricostruirlo, ci vorranno secoli».
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