Fuksas: “Serve un nuovo Umanesimo. Torniamo nei paesini e lavoriamo da casa”

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CULTURE
31/05/2020

Fuksas:

“Serve un nuovo Umanesimo.

Torniamo nei paesini e lavoriamo da casa”

L’architetto dopo il coronavirus. “Ripensare il concetto stesso dell’abitare, reintegrando i tre spazi del vivere quotidiano dell’uomo: il luogo dove si abita, quello dove si lavora e quello dove si svolge il tempo libero”
By Linda Varlese
“Ripensare il concetto stesso dell’abitare, reintegrando i tre spazi del vivere quotidiano dell’uomo, che l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale hanno scisso: il luogo dove si abita, quello dove si lavora e quello dove si svolge il tempo libero. Unire le tre funzioni, in una sorta di Nuovo Umanesimo”. Massimiliano Fuksas ha fama di essere un architetto visionario e, guardando alle sue opere sparse in tutto il mondo, certamente lo è. Ma l’estro, a ben guardare, è sempre andato di pari passo con la concretezza dell’esigenze che le persone hanno di fruire delle sue “invenzioni”. Per questo, probabilmente, nella rivoluzione portata dal Coronavirus nel ripensamento del concetto di spazio e nella nuova centralità dello stesso, ha maturato un’idea che è insieme filosofica e pratica.
“Sto in campagna da tre mesi”, ci racconta l’Architetto quando lo raggiungiamo al telefono. “Eravamo venuti a festeggiare il compleanno di Doriana (sua moglie e architetto con la quale elabora e firma la maggior parte dei progetti, ndr) e siamo rimasti felicemente bloccati, da un certo punto di vista”. Perché, ci spiega “purtroppo il dramma era talmente evidente che il piacere di essere all’aria aperta e liberi era mitigato da tutto quello che ci succedeva intorno. Quello che abbiamo visto ci ha spinto poi ad incontrare virtualmente degli amici e costruire il primo gruppo, che poi si è ampliato, da cui sono nate una serie di riflessioni”.
Per chi non lo sapesse Massimiliano Fuksas è un lavoratore infaticabile. L’otium, se non quello della riflessione, non è nelle sue corde. Per questo anche dalla sua casa sulle colline senesi ha continuato a pensare a come “rendere le abitazioni un luogo dove si può vivere veramente”.
Architetto, il Coronavirus ci ha fatto capire, semmai ce ne fosse bisogno, l’importanza dello spazio, la necessità di un luogo dove poter vivere, ma all’occorrenza, lavorare e anche trascorrere il proprio tempo libero.
Se noi pensiamo all’evoluzione dello spazio abitativo, questo nei secoli è molto cambiato. Siamo passati da una società dove si viveva in spazi molto ristretti, a volte in decine di persone, in particolare nei luoghi extra urbani, in campagna dove si viveva in un’unica stanza in molti, con servizi non appropriati. La svolta più grande è arrivata fra le due guerre, con i nuovi quartieri operai, ma anche con i quartieri piccolo-borghesi: la casa ha cominciato a diventare un organismo più complesso e la situazione è migliorata di molto. Ovviamente si riducono le persone che abitano una casa però aumentano le esigenze che uno ha: questo non deve colpevolizzare nessuno, ma pone l’obbligo di un ripensamento dello spazio abitativo che comprenda un piano governativo. Perché la casa non deve essere fatta solo dai privati, ma anche dal Governo”.
Che intende dire?
Deve essere fatto un piano dell’edilizia sociale che permetta di avere anche un piano abitativo che sia luogo di incontro in condominio per tutti gli abitanti. Un luogo fisico dove ci si possa incontrare per lavorare, per trascorrere il tempo, per fare smart-learning, dove si possono aiutare gli anziani ad imparare i rudimenti della tecnologia.
Questo porterebbe una sostituzione dei luoghi pubblici deputati alle varie funzioni? Penso alle piazze, ai luoghi di lavori, ai parchi…
Chiaro che non si può rinunciare all’aspetto pubblico per avere solo quello privato. Ma credo che l’aspetto privato debba essere di per sé pubblico e l’aspetto pubblico, cioè la piazza, le grandi aree verdi e del tempo libero devono essere anche private in un certo senso, reintegrando il senso di pubblico e privato. Ognuno di noi si deve riappropriare oltre che della propria abitazione, del proprio vivere la casa, anche degli spazi pubblici.
Abbiamo visto molte persone, quando è stato possibile, abbandonare la città (tradizionalmente luogo di lavoro) per poter tornare nella casa di origine, molto spesso dislocata in paesini vicini o nella campagna. Questo cosa ci dice?
Ho visto da subito ci fosse questa tendenza. Il coronavirus ci ha fatto scoprire il valore del vivere in piccoli centri. Questo anche in virtù del fatto che l’Italia sta cominciando a digitalizzarsi, anche se siamo uno degli ultimi paesi in Europa dal punto di vista dello sviluppo informatico. Solo 1 bambino su 6 ha il computer. Dobbiamo pensare a cablare grandi aree, ad avere un sistema avanzato dal punto di vista digitale. E allora si può anche pensare di andare a rioccupare aree che sono straordinarie, dove magari vivremmo meglio. 1 su 3 potrebbe lavorare in casa. Ripopolare i paesi dove è più facile vivere perché c’è un senso di comunità più forte rispetto alla città. Con tutte le difficoltà economiche che ci possono essere, la provincia ha una capacità di soluzione superiore a quella della città, dove ogni problema diventa un macigno, ogni aspetto burocratico diventa insolubile”.
Una vera e propria rivoluzione…
Non sono Pol Pot che vuole riportare la gente in campagna, ma se si analizza come vivono molte persone in città e come potrebbero vivere da un’altra parte avendo la possibilità di fare smart working, mi rendo conto che sarebbe meglio. Ammesso che si faccia un enorme investimento sul piano della formazione e della ricerca: la gente deve avere più capacità anche dal punto di vista informatico. E poi bisogna ripensare gli ospedali, a partire dal ricircolo dell’aria.
Ci spieghi meglio
Nella lettera che abbiamo inviato a Mattarella, fra le varie proposte, c’era anche il ripensamento dei sistemi di aria condizionata, da sempre responsabili di veicolare virus e batteri. In Giappone e Corea stanno facendo passi in tal senso, in piccola parte anche negli Stati Uniti e in Germania. Dobbiamo cominciare a pensarci anche in Italia.
Siamo indietro?
Dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione siamo uno degli ultimi Paesi in Europa. Abbiamo molte eccellenze che se non vengono messe in una rete non hanno forma e forza per esprimersi e quasi sempre emigrano. Non c’è né tradizione né innovazione, abbiamo perso i criteri. Il Ministero dell’Innovazione c’è, ma è sconosciuto, non ne ho mai avvertita la presenza.
Il coronavirus pare averci catapultato nel futuro, ma non eravamo preparati.
Esattamente. Abbiamo vissuto l’anno 2000 con vent’anni di ritardo. Eravamo convinti che nel 2000 ci sarebbe stata l’innovazione e la rivoluzione tecnologica, ma non c’è stata. E a tutt’oggi non eravamo preparati ad accogliere questi grandi cambiamenti. Siamo stati travolti da un senso di smarrimento.
Come possiamo recuperare?
Cominciando a fare passi sul piano della ricerca e dell’innovazione. In questa direzione va la lettera che abbiamo inviato al Presidente della Repubblica che contiene molti spunti in tal senso (compresa l’idea di un “non ospedale”, un sistema di sanità che parte dalla propria casa, ndr). Ma non solo. Insieme a Zingaretti e l’assessore D’Alessio stiamo già lavorando a un progetto innovativo per l’ampliamento dello Spallanzani. Nel team anche esperti che si occupano di Intelligenza Artificiale e ricerca avanzata in Discipline Mediche e Tecnologiche.
Sarebbe il suo secondo lavoro a Roma, dopo la Nuvola…
Il mio secondo lavoro o il terzo a Roma, si è vero. Lo faccio con piacere anche perché sono particolarmente legato allo Spallanzani. Mi ricorda mio padre: era un medico ed è stato accolto a lavorare lì quando non poteva lavorare perché straniero (era lituano, ndr) e mia madre aveva perso la cittadinanza perché aveva sposato uno straniero, retaggio delle leggi fasciste.

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