Omelie 2024 di don Giorgio: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

1 settembre 2024: PRIMA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 29,13-21; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
Sappiamo dai testi dell’Antico Testamento che Dio non aveva gradito che gli ebrei avessero chiesto di avere anche loro un re, sempre in nome di quel primato di Jahvè che poteva essere messo a rischio dal fatto di avere un re a capo del popolo eletto. Si sa, il popolo, ogni popolo, fa in fretta a tradire il suo Benefattore. Basta un re travicello e tutti si inchinano.
Il primo re, Saul, fu un vero disastro (forse che Dio si fosse subito vendicato?), e venne sostituto con Davide. In realtà ci fu un’alternanza tra re pessimi e re fedeli all’Alleanza con il Signore. Tra questi fedeli fu certamente il re Ezechia, elogiato per aver messo mano a una intelligente e coerente revisione del culto e della religione ebraica. E non fu facile, dal momento che alcuni re avevano introdotto tra il popolo ebraico il culto cananeo, elevando anche luoghi sacri pagani.
Ezechia s’impegnò sulla centralità del tempio di Gerusalemme (anche politicamente era importante che ci fosse un unico tempio come avere un unico Dio per amalgamare una nazione), e il re Ezechia era aiutato dall’azione di alcuni profeti che lo incoraggiavano nel coordinare gli impegni del cambiamento. Sarebbe interessante, ma non è qui il momento, parlare delle scelte del re nel campo politico, scegliendo con chi allearsi o no. E non sempre il criterio era di stare dalla parte del più forte, se Dio stesso, tramite i profeti, preferiva chi apparentemente era il più debole.
Soffermiamoci sull’aspetto più importante, ovvero sulla lotta al tempo del re Ezechia quando il profeta si scagliava contro una diffusa superficialità e un eccessivo formalismo nella pratica del culto, contro un ostinato attaccamento ai gesti esteriori per farsi notare e ammirare, contro uno scrupolo disumano per assolvere i precetti (non c’erano eccezioni), contro un modo di pregare noiosamente litanico solo con le labbra, senza una consapevolezza ed una adesione di cuore: cuore inteso secondo la mentalità ebraica come tutta l’interiorità della persona. Per gli ebrei cuore era anzitutto intelletto.
E dal momento che la gloria di Dio è ricordata con stupore per i suoi interventi prodigiosi a salvezza del popolo, bisogna stare attenti – avverte il profeta – che la stessa potenza di prodigio non possa addirittura rivoltarsi contro il popolo indegno. E i prodigi potrebbero diventare avvenimenti disastrosi e terribili. Quindi un’arma a doppio taglio: Dio punisce i nemici, ma punisce anche coloro che tradiscono l’Alleanza con Lui.
C’è di più. Nel brano di oggi il profeta richiama le furbizie nascoste dei cosiddetti sapienti che credono che le loro trame sfuggano agli occhi di Dio e ai suoi profeti, da Lui illuminati. I sapientoni si credono più sapienti di Dio. Ce ne sono ancora oggi, anzi oggi prevale la supponenza idiota di chi si crede onnisciente. Come Colossi di Rodi che hanno i piedi d’argilla. Tutto corpo e niente intelletto. Il loro sapere e strapotere derivano dalla grossa pelle ricoperta di grossi peli. E la pelle ricopre anche il corpo di femminucce che mostrano i muscoli pur essendo tappette da quattro soldi.
Ho detto piedi d’argilla, e la parola “argilla” richiama il vaso di creta del vasaio. Un’immagine usata dallo stesso Paolo: chi conosce un po’ la vicenda dell’Apostolo sa che nel suo ministero, rispetto ad altri predicatori contemporanei che parlavano con maggiore eloquenza ed erudizione, egli si presenta con semplicità, senza grandi parole suggerite dalla sapienza umana, un debole e provato nel fisico. Eppure, proprio a lui Gesù, sulla via di Damasco, si rivela, e da allora Dio continua a fargli brillare in cuore la luce del suo Figlio e lo invia a portare a tutti quella luce. Paolo si rende conto della sproporzione tra la preziosità inestimabile della missione affidatagli e l’inadeguatezza della sua persona: un tesoro in un povero vaso di creta, così scrive nella seconda Lettera ai Corinzi.
Dobbiamo ammetterlo. È davvero difficile accettare la propria debolezza. Quante volte avvertiamo la nostra povertà, i limiti, l’insufficienza davanti ai compiti che ci sono affidati, l’incapacità di rispondere pienamente alle esigenze della nostra vocazione, l’impotenza di fronte a situazioni che sono più grandi di noi. Come Paolo, ci sentiamo vasi di creta. E ci è facile riscontrare le stesse debolezze e fragilità anche nelle persone che ci stanno accanto, in famiglia, così come nella comunità o nel gruppo di cui facciamo parte.
È stato scritto: «Il vaso di creta è casalingo, umile, fragile, di utilizzo quotidiano. Non è un oggetto prezioso da esibire all’ammirazione di tutti. Fuori di metafora: Dio non si serve di superuomini, ma soltanto di uomini comuni, fragili che spesso faticano a credere, come i discepoli. Li prende così, deboli come sono, per renderli santi, cioè pienamente affidati alla potenza della sua Grazia. Questa meraviglia di Dio non cessa di stupire. Se il vaso fosse prezioso, attirerebbe l’attenzione su di sé; nella sua umiltà, invece, rimanda altrove. La sua debolezza è la sua trasparenza. La potenza del Vangelo si fa presente nell’inadeguatezza per rendere chiaro a tutti che la sua efficacia viene da Dio, non dagli uomini, né dai loro strumenti. Simone Weil, nella sua opera L’ombra e la grazia, una raccolta di pensieri, aforismi e meditazioni, parla dell’esperienza di pesantezza e di grazia che fa chi crede ed ha fatto esperienza del Divino. La grazia non toglie la pesantezza, l’opacità e l’argilla refrattaria del vissuto quotidiano. Sono due realtà e due dimensioni che si sperimentano insieme, con la differenza che una, la pesantezza, viene da noi, è nostra, la si vive direttamente, anche se a volte la nascondiamo o la riscopriamo temporaneamente; l’altra invece, la grazia, non è cosa nostra, non si ha su di essa alcuna presa diretta e non se ne può disporre. La fede è proprio questo: una realtà fragile, «un tesoro in vasi di creta».
Ma il profeta insiste sul rapporto tra vaso e vasaio. È il vasaio che plasma la creta per fare un vaso. Dice il profeta: «Forse che il vasaio è stimato pari alla creta? Un oggetto può dire del suo autore: “Non mi ha fatto lui”? E un vaso può dire del vasaio: “Non capisce”»?
L’immagine interessante e concreta del vasaio, in una società contadina dove si ha particolarmente bisogno del suo lavoro, illustra il rapporto di libertà tra Dio e il suo popolo. E non a caso questa immagine è privilegiata poiché nella Scrittura si parla dell’uomo, fatto con la polvere della terra, con gesti propri del vasaio. Ricordiamo ciò che scrive l’autore sacro del libro della Genesi: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue radici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.
La cosa assurda è che noi, polvere della terra, dimentichiamo del soffio che ci rende vivi. La cosa grottesca è che dei vasi di creta si credano vasai, e che se siamo anche vasai è perché nella Grazia possiamo dare forma al nostro essere, riscoprendo in esso il soffio vitale.
E ogni vaso di creta può rompersi, anche con la morte, ma arriviamo alla pazzia di costruirci, da vivi, un monumento per il nostro corpo, che marcirà ben presto, mentre i visitatori si fermeranno ad ammirare il monumento o le piramidi faraoniche, pur sapendo che dentro c’è solo polvere di terra.

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