Preti, frati e suore lasciano in massa la Chiesa, che sia l’ora di rivedere la regola del celibato?

Non entro nel merito della ricostruzione storica del celibato, ovvero quando la Chiesa cattolica lo ha imposto ai preti e alle suore. Una cosa è certa: non risale a Gesù Cristo, quindi è un obbligo puramente ecclesiastico.
Da anni e anni lo dico e lo scrivo: il celibato ecclesiastico andrebbe tolto o, meglio, andrebbe tolto l’obbligo, lasciando libertà di sposarsi o di non sposarsi. Libertà, ecco la parola giusta. Deve essere una libera scelta! E, secondo il mio parere, non deve essere neppure una specie di contratto da stipulare prima del sacerdozio o dell’emissione perpetua dei voti per le suore. Anche da preti o da suore, si dovrebbe essere sempre liberi di sposarsi o di mantenere il celibato.
Smettiamola di fare bei discorsi sul celibato, e nello stesso tempo di fare bei discorsi sull’amore umano, che viene poi proibito ai preti o alle suore. Non è una contraddizione? Certo, per secoli e secoli in cui non si è fatto altro che demonizzare il sesso, oggi è difficile accettare che il sesso non deve essere un tabù per i preti e per le suore.
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da www.dailybest.it
1 febbraio 2017

Preti, frati e suore lasciano in massa la Chiesa,

che sia l’ora di rivedere la regola del celibato?

Il celibato e il nubilato oggi sono sempre meno tollerati dal personale ecclesiastico
di Simone Stefanini 
Nell’anno 306, il Concilio di Elvira dichiarò che ai più alti funzionari della Chiesa, vescovi, diaconi e presbiteri, fosse di fatto vietato accoppiarsi con le proprie mogli e concepire. Chissà che dispiacere, quei poveri cristi che si sono visti privare della sessualità in corsa. Non fu una vera novità, anche durante l’Impero Romano, quando il cristianesimo era ancora illegale, i suoi pastori non potevano sfiorare le proprie mogli neanche con un dito.
Un paio di cenni storici giusto per dire che il celibato e nubilato nella religione cattolica è una tradizione assolutamente consolidata e i vari preti, frati o suore l’accettano di buon grado al fine di servire il Signore senza distrazioni terrene.
Ora però, saranno i tempi che cambiano, metteteci la crisi di valori e i costumi sempre più licenziosi, ma spesso preti, frati e suore abbandonano la Santa Chiesa per tornare in borghese, liberi da vincoli e finalmente in grado di amare sì Dio, ma anche di farsi un viaggio nel paese delle gioie carnali.
Come riporta l’Ansa, il Papa ha denunciato una vera e propria emorragia di frati e suore nella sua azienda. Negli anni 2015 e 2016 ci sono stati 2300 abbandoni all’anno e centinaia di dispense dal celibato.
In molti abbandonano per sopraggiunta consapevolezza di non aver fede in Dio, un po’ come il Young Pope nella serie tv di Paolo Sorrentino, altri a causa della vita dura del celibato o nubilato forzato. Se insieme a questi dati ci aggiungiamo anche i casi scandalosi degli abusi sessuali operati da personale ecclesiastico ai danni dei fedeli, spesso minori, si fa presto a tracciare uno stato di salute non proprio ottimale della Chiesa Cattolica.
La Onlus L’Abuso riunisce in Italia le vittime dei preti pedofili e cerca di seguire le tracce di quei casi insabbiati o già noti, che al momento sono 200 di cui 120 con condanne definitive, che è un po’ quello che faceva la redazione del Boston Globe per smascherare i preti pedofili, storia ripresa da Il caso Spotlight, che ha vinto l’Oscar come miglior film nel 2016 e che comunque non sembra abbia scalfito di una virgola le convinzioni in fatto di celibato di madre Chiesa.
Il celibato dei preti non è un dogma per la Chiesa Cattolica e cambiare una regola vecchia di duemila anni sarebbe senz’altro un processo faticoso, che però potrebbe dare i suoi frutti. Permettere a preti, frati e suore di crearsi una famiglia potrebbe fermare l’emorragia di abbandoni, ma anche diminuire gli abusi che spesso nascono dalla frustrazione sessuale totale alla quale è sottoposto il personale ecclesiastico.
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Riporto il testo integrale dell’intervista rilasciata da José Rodríguez Carballo, segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, all’Osservatore Romano
da L’Osservatore Romano
1 febbraio 2017
A colloquio con l’arcivescovo Rodríguez Carballo sulla plenaria del dicastero per la vita consacrata

Fedeltà alla prova

di NICOLA GORI
Ogni giorno la fedeltà alla vita consacrata viene messa a dura prova dalle sfide del mondo. Per superarle occorrono una solida vocazione e una formazione continua.
Lo ribadisce l’arcivescovo José Rodríguez Carballo, segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in questa intervista a «L’Osservatore Romano» all’indomani della plenaria dedicata alla fedeltà e dell’incontro interdicasteriale sull’aggiornamento del documento Mutuae relationes.
Quali sono le sfide da affrontare nella revisione di questo testo?
Prima di tutto è bene dire che non si tratta di una semplice revisione dell’attuale documento Mutuae relationes, ma di un testo nuovo. Questa era già l’intenzione dei superiori dei due dicasteri direttamente coinvolti per mandato del Papa, almeno finora: la Congregazione per i vescovi e la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Ma a tale intenzione si deve aggiungere il parere in questo stesso senso di diversi padri della plenaria interdicasteriale che si è svolta proprio il 26 gennaio. Un altro aspetto da considerare è che il nuovo documento terrà conto non soltanto delle relazioni tra pastori e consacrati chierici, ma tra pastori e tutte le forme di vita consacrata, maschile e femminile. Le sfide principali che vedo fanno riferimento a come applicare i principi teologici e giuridici che saranno alla base del nuovo documento — Chiesa di comunione, co-essenzialità tra doni gerarchici e carismatici, la dimensione sponsale della Chiesa e della vita consacrata, la giusta autonomia dei consacrati, la sana tensione tra particolare e universale — alla vita concreta tra i pastori e i consacrati nelle Chiese particolari.
Come si realizza questo passaggio dalla teoria alla prassi?
Penso che dove si giocano veramente le mutuae relationes è nel quotidiano e quindi nel vivere la mistica dell’incontro, come direbbe Papa Francesco, con tutto quello che comporta. Come ha detto il Pontefice ai vicari e delegati per la vita consacrata: «non esistono relazioni mutue lì dove alcuni comandano e altri si sottomettono, per paura o convenienza». Invece ci sono mutuae relationes dove si coltivano la capacità di ascolto, la reciproca ospitalità, l’apertura nel dialogo, la condivisione delle decisioni, il rispetto reciproco, una profonda conoscenza. Un elemento sul quale nella plenaria si è insistito molto, e che si ripeteva molto nelle proposte giunte al nostro dicastero da parte di più di 150 conferenze di superiori maggiori di tutto il mondo, è la necessità di una formazione adeguata nell’ecclesiologia del Vaticano II. In questo senso si chiede che nei programmi di formazione dei seminari diocesani siano previsti corsi obbligatori di teologia della vita consacrata e del suo posto nella Chiesa, e nelle case di formazione dei consacrati si studi la teologia della Chiesa particolare e la missione del vescovo. Per superare incomprensioni reciproche è necessaria una adeguata formazione su questi aspetti e molta creatività per trovare spazi di vero incontro. Un altro elemento sul quale si è pure insistito è di non trattare la vita consacrata nella sua pura funzionalità. La vita consacrata va apprezzata prima di tutto dagli stessi consacrati e poi anche dai vescovi e sacerdoti diocesani, per quello che è: come segno e profezia. Infine, non si potrà dimenticare un elemento importante che può causare qualche tensione: la questione delle alienazioni da parte dei consacrati e la questione della proprietà. In questo secondo caso sono fondamentali le convenzioni.
Come verrà elaborato il nuovo documento?
Questo è ancora da decidere, prevediamo una commissione mista dei due dicasteri. Quello che sembra molto chiaro è la volontà che si attui una metodologia sinodale, prima di tutto tra le due Congregazioni e poi con le conferenze dei superiori generali e con i vescovi. Inoltre la plenaria ha chiesto che si elabori un documento con indicazioni pratiche e pastorali, oltre ai principi teologici e canonici. Per questo consideriamo molto importante ascoltare i protagonisti delle mutuae relationes: vescovi e consacrati.
Durante la plenaria avete parlato della fedeltà. Quali gli aspetti principali trattati?
Prima di tutto abbiamo constatato che nella grande maggioranza i consacrati vivono con gioia la fedeltà alla loro vocazione. C’è molta santità nella vita consacrata, come ha ricordato il Papa. Una fedeltà che porta non pochi consacrati a testimoniare la loro fede e vocazione fino allo spargimento del sangue. I martiri consacrati che ogni anno danno la vita per Cristo sono la prova migliore della vitalità e della santità della vita consacrata. Non ho dubbi nell’affermare che la vita consacrata nel suo insieme è un corpo che gode di buona salute. Abbiamo poi trattato degli elementi che aiutano la fedeltà e di quelli che la ostacolano. Infine abbiamo riflettuto sul doloroso tema degli abbandoni e segnalato alcune iniziative per prevenirli.
Quali sono le cause principali di questo fenomeno?
Non è facile individuarle: non sempre quelle indicate nei documenti che ci inviano per ottenere la dispensa dai voti sono le principali. Spesso vengono indicati problemi di tipo affettivo, seguiti dalle difficoltà nel vivere gli altri voti o la stessa vita fraterna in comunità. Io credo, però, che la prima causa abbia a che fare con la dimensione spirituale o di fede. Quando parliamo di fede non si tratta soltanto dell’adesione alla dottrina, ma di una fede vissuta, che tocca e cambia il cuore e quindi porta a una vita cristiana autentica e, come conseguenza, a una vita consacrata conforme a quanto uno ha abbracciato con la professione. A volte si confonde la fede con la religiosità. L’esperienza ci dice che uno può essere molto religioso e debole nella fede. La fede parte da un vero incontro con Cristo e porta a rafforzare questo incontro durante tutta la vita. Nella vita cristiana e consacrata si danno per scontati diversi aspetti riguardanti la fede ai quali si dovrebbe prestare molta più attenzione. Anche riguardo la spiritualità si dovrebbe fare più attenzione. Non va confusa con il semplice devozionismo, ma deve essere incarnata per diventare figli del cielo e della terra, mistici e profeti, discepoli e testimoni. Se la fede è debole, la spiritualità non è solida e nella vita fraterna in comunità ci sono problemi, facilmente la prima opzione si indebolisce e può venire meno, finendo con implicazioni affettive che fanno sì che prima o dopo si lasci da parte detta opzione. Quindi io sono dell’opinione che le principali cause siano la fragilità nell’esperienza di fede e nella vita spirituale, le difficoltà non risolte nella vita fraterna in comunità e, come conseguenza, problemi di tipo affettivo.
Quali fattori condizionano la fedeltà?
Si deve tener presente, prima di tutto, un dato che proviene dall’antropologia attuale: l’uomo e la donna di oggi hanno paura a impegnarsi definitivamente; si vuole lasciare sempre una “finestra aperta” per “imprevisti”, cadendo nell’ambivalenza che impedisce di vivere la vita nella sua pienezza. Questo ha molto a che fare con il contesto culturale e sociale in cui viviamo. La nostra è una società liquida che promuove una cultura liquida nella quale una relazione si costruisce a partire dai vantaggi che ognuna delle parti possa ottenere dall’altra e quindi dura quando durano i vantaggi; una cultura frammentata dove non c’è posto per i “grandi racconti” e dove si vuole portare avanti una vita à la carte, che spesso ci fa diventare schiavi della moda; una cultura del benessere e dell’autorealizzazione che facilmente ci fa passare dall’homo sapiens all’homo consumens producendo un grande vuoto esistenziale. A tutti questi condizionamenti vanno aggiunti quelli che provengono dal mondo giovanile, una realtà molto complessa dove, a giudicare da recenti inchieste, la cosiddetta generazione millennial, che succede alla generazione X, viene caratterizzata dall’indifferenza verso la religione e la poca conoscenza della Chiesa e della vita consacrata. In questo contesto, anche se a un certo momento alcuni si “convertono” e fanno opzione per detta forma di sequela, magari manca loro una vera motivazione, per cui nei momenti di difficoltà si cede alla tentazione di andarsene. Un ultimo elemento da tener presente è la stessa vita consacrata che può cadere nel discorso puramente estetico: si formulano alti ideali, ma poi la vita dei consacrati magari non testimonia la bellezza e la bontà di tale forma di sequela Christi. Così la vita consacrata non risponde più alla sua missione profetica, come chiede Papa Francesco, o, secondo le parole di Metz, alla sua missione di essere «terapia di shock per la grande Chiesa». La fedeltà viene condizionata anche dalla non sufficiente chiarezza identitaria consacrata. Non indifferente è la mancanza di un progetto di vita ecologico dove ci sia una vera armonia tra vita spirituale, vita fraterna e missione evangelizzatrice.
Si possono conoscere alcuni dati circa gli abbandoni?
Se il Papa parla di «emorragia» vuol dire che il problema è preoccupante, non soltanto per il numero ma anche per l’età in cui si verificano, la grande parte tra i 30 e 50 anni. Le cifre degli abbandoni negli ultimi anni restano costanti. Negli anni 2015 e 2016 abbiamo avuto circa 2300 abbandoni all’anno, compresi i 271 decreti di dimissione dall’istituto, le 518 dispense dal celibato che concede la Congregazione per il clero, i 141 sacerdoti religiosi incardinati pure et simpliciter in diverse diocesi e le 332 dispense dai voti tra le contemplative. Durante la plenaria ci siamo soffermati su tre constatazioni: l’elevato numero di chi lascia la vita consacrata per incardinarsi in una diocesi, il numero non indifferente delle contemplative che lasciano la vita consacrata e il numero di quelli che la abbandonano (225 casi) dicendo che mai hanno avuto vocazione. Si deve constatare che il più alto numero di abbandoni si ha tra le religiose, fatto almeno in parte spiegabile in quanto sono la grande maggioranza dei consacrati.
Cosa si può fare per aiutare chi è nel dubbio o per prevenire questi abbandoni?
Personalmente penso che si debba puntare prima di tutto sul discernimento, in modo che chi non è chiamato a questa forma di sequela Christi non abbracci questa vita. Nel discernimento si deve curare insieme la dimensione umana, affettiva e sessuale, la dimensione spirituale e di fede e anche quella intellettuale. Si deve prestare attenzione alle motivazioni, senza lasciarsi condizionare dalla tentazione del numero e della efficacia, come ci ha ricordato Papa Francesco. La vita consacrata non è per tutti e non tutti sono per la vita consacrata. Si deve inoltre fare molta attenzione a coloro che passano da un seminario o da un istituto a un altro. Non è possibile un discernimento adeguato senza un accompagnamento appropriato, offerto da persone capaci di trasmettere la bellezza del carisma in un determinato istituto e che siano esperte nel cammino della ricerca di Dio, per poter accompagnare gli altri in questo itinerario. Molte vocazioni si perdono lungo la strada per mancanza di un adeguato accompagnamento umano, spirituale e vocazionale. Poi è fondamentale curare la formazione, a partire dalla formazione permanente, humus di quella iniziale. Questa a sua volta dovrà essere: una formazione personalizzata e in chiave di processo; evangelicamente esigente ma non rigida; umana e motivatrice, inculturata; una formazione alla fedeltà; una formazione a un’affettività sana e feconda.

6 Commenti

  1. Michel ha detto:

    Le suore e i frati attualmente vivono in conventi e monasteri.
    Cosa accedrebbe se in futuro la regola del celibato dovesse cadere ? Si porterebbero i rispettivi consorti dentro le mura ecclesiastiche ? Piu’ probabile che questi luoghi col tempo si svuoterebbero completamente.
    Inoltre vi immaginate una suora in stato interesante con il saio ed il pancione ? Trovereste questo normale ? Io no anzi terribilmente ridicolo ! A mio avviso e’ inconciliabile una vita religiosa dedicata all’amore divino vissuto in strutture religiose (o meno) con appetiti sessuali. Una scelta si rende indispensabile.

  2. Geremia ha detto:

    E voi credete che coloro che gettano la toga o non vadano più in seminario lo farebbero che preti e suore potrebbero sposarsi? Ma non fatemi ridere!
    E credete che preti e suore non violenterebbero bambini se fossero sposati? E le violenze sessuali in famiglia?

  3. GIANNI ha detto:

    provo a ripostare un intervento, che non ero riuscito a lasciare, per problemi tecnici.
    Credo che molti abbiano opinioni diverse, su questi temi, ma possiamo dire qualcosa anche a prescindere da questo.
    In effetti, l’arcivescovo credo colga nel segno, quando afferma che non tutto è per tutti, e non tutti sono chiamati ad una certa impostazione.
    Ho volutamente modificato alcuni termini di quella frase, perchè mi pare esprima un concetto adatto un po’ a tutto.
    Quante sono le attività, anzi le missioni (visto che quella del sacerdote tale dovrebbe essere), che richiedono particolare dedizione ed impegno, rectius notevoli sacrifici?
    Probabilmente molte.
    Ed è ovvio che non tutti, nonostante un eventuale afflato iniziale, sono portati……
    Ci deve probabilmente essere un qualcosa dentro di te, di cui ti accorgi quando compiere certe cose non ti pesa.
    Posso fare esempi personali.
    Tra le cose che volevo realizzare durante la mia vita, ce n’erano alcune che potevano avere ripercussioni non indifferenti in termini di sacrifici.
    Ad esempio in campo musicale.
    Per diplomarmi in organo, mi ricordo che mi misi d’accordo con un mio amico, sacerdote, cui pagavo l’energia elettrica necessaria, e, visto che non avevo tempo durante il giorno, mi ero fatto dare le chiavi della chiesa per andare a studiare sino a tarda notte sull’organo a canne.
    Probabilmente, stare lì di notte, anche senza riscaldamento d’inverno, sarebbe stata considerata cosa da pazzi da taluni, ma non per me…..
    Come pure, ad un certo punto, interessato da certi fenomeni paranormali, riuscii ad ottenere il permesso di assistere a degli esorcismi, e non è certo uno spettacolo leggero….eppure non ebbi particolari problemi in tutte queste occasioni, probabilmente perchè dentro di me sentivo queste cose come missioni da compiere, e quando compi una missione, anche il disagio diventa occasione di impegno e di lotta…..e spesso non ti pesa.
    Anzi forse direi che senza difficoltà, senza ostacoli da superare, forse, ripeto, neppure esisterebbe il senso di una missione.
    Se poi, invece, vogliamo cogliere le motivazioni storiche e religiose, cioè l’impegno sacerdotale, visto dalla parte della chiesa, queste vanno ricondotte a precise situazioni, che già altre volte sono state ricordate.
    Un tempo, anche i sacerdoti cattolici potevano sposarsi, e capitava in molti casi che, appartenendo a famiglie ricche o comunque facoltose, lasciassero i propri averi a moglie e figli.
    Ovviamente la chiesa preferiva acquisire tali beni, da cui l’interesse al celibato.
    Su questa motivazione si è poi innestato appunto il concetto di missione….
    A prescindere dalla validità o meno di questo concetto, occorre comunque riflettere su cosa sia, anzi, cosa debba essere, oggi, l’attività sacerdotale, ed in funzione della risposta, avremo diverse visioni, compatibili o meno con il matrimonio.
    Se si segue l’idea di una attività non professionale, ma di missione che consacra l’intera esistenza ad un obiettivo, allora probabilmente starà stretto al sacerdote avere una famiglia, o la famiglia stessa ne subirà pesanti condizionamenti.
    Diverso il caso in cui venga ridimensionato il concetto di missione, concependola come attività simile alle altre, ed allora le due sfere, religiosa e laica, potrebbero avere una loro autonoma dimensione, senza interferenze reciproche, ma non è questo il caso del sacerdote, nell’ordinamento della chiesa cattolica.
    Se, infatti, andiamo a considerare analisi anche proprio di elementi giuridici comparati (non a caso si richiama a questi anche l’arcivescovo, come elemento tutt’altro che off topic), notiamo che mentre nell’ordinamento cattolico il sacerdote è soggetto a diverse forme di gerarchia, probabilmente incompatibili con il matrimonio, tali forme vengono meno, o quanto meno sono meno dirimenti della sua condizione, in ordinamenti non cattolici.
    Forse, è anche per questo che si è posto un obbligo di celibato, cioè perchè ad un certo punto la chiesa cattolica era consapevole che si poneva un contrasto tra gli obblighi sacerdotali, ivi compresi sopratutto quelli riconducibili ad una visione di subordinazione gerarchica, e gli obblighi verso una propria famiglia, fatta di coniuge e figli.
    Sicuramente una visione quindi totalizzante della condizione sacerdotale, motivo probabilmente non ultimo dei cosiddetti abbandoni.
    Ma, come si dice, se proprio la chiesa ritiene che il proprio modello di riferimento sia da preservare nel tempo, allora non dovrebbe farsene un problema.
    Non dovendo limitarsi ad una pura valutazione quantitativa del sacerdozio, ma dovendo, appunto, considerarsi appagata se un certo numero di persone seguono quello che lei stessa considera modello ideale.

  4. dioamore ha detto:

    Il matrimonio è per l’uomo, non l’uomo per il matrimonio, Così il patrimonio è per la donna e non la donna per il patrimonio. Il celibato come il nubilato sono per l’uomo e la donna, non il contrario.

    Ma non lasciatevi ingannare dal matrimonio come dal patrimonio alle cui radici ci sta la Proprietà Privata, perché i figli della luce nella risurrezione non si ammogliano e non si maritano ma vivono come gli angeli del Cielo. Se la risurrezione è il fine ultimo della vita terrena… a buon intenditore poche parole…

  5. Giuseppe ha detto:

    Non sono in grado di mettere in discussione le ragioni storiche, né tantomeno quelle dottrinali (ammesso che esistano) che hanno spinto la chiesa cattolica a proclamare il divieto a contrarre matrimonio per chi desidera seguire la propria vocazione religiosa di ministro dei sacri riti o suo coadiutore. Quello che so è che, con tutto il rispetto per le regole, non si può obbligare una persona a rinunciare in tutto o in parte alla propria identità. Non nego che le nostre scelte e l’attività che scegliamo, o che le circostanze ci hanno portato a svolgere, comportino l’adeguamento a certe norme e modalità di condotta che vengono ritenute più consone al ruolo che ricopriamo nella società, ma si tratta comunque di scelte spontanee e, in teoria, consapevoli, che nulla dovrebbe impedirci di provare a cambiarle se non le riteniamo giuste ed opportune. L’apparato ecclesiastico, invece, ha innalzato un muro a protezione di questa regola, rimanendo sorda e cieca davanti alla realtà e preferendo andare avanti con un atteggiamento ipocrita ed immorale, piuttosto che fare un passo indietro. L’essere umano non è perfetto né omologato, ma per natura è fragile e soggetto a provare dei sentimenti e delle emozioni, che sono una delle ragioni che ci distingue dagli animali, e privarlo di questa prerogativa è una violenza. Tanto più che è risaputo che, spesso, quello che attrae maggiormente è ciò che è proibito e non basta un semplice divieto ad evitare la libertà di pensiero, di espressione e di manifestazione concreta dei nostri impulsi e dell’attrazione reciproca. È quantomeno singolare che una fede fondata sull’amore, debba sottostare a compromessi e manipolazioni nel momento in cui la nobiltà di questo sentimento si trova a fare i conti con la nostra umanità e sessualità. Oltretutto il matrimonio è addirittura riconosciuto come sacramento, mentre gli eccessi dei religiosi di cui la storia della chiesa è colma, sono in ogni caso degli abusi, e dei soprusi verso esseri umani in gran parte indifesi, o che a torto hanno riposto la loro fiducia nelle persone sbagliate.

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