Quest’anno una Settimana Santa
a digiuno dei riti liturgici…
di don Giorgio De Capitani
Stanotte, in un momento di veglia, mi è capitato di vedere la segnalazione di un video, dal titolo: “La Traditio Symboli in Duomo con l’Arcivescovo: omelia di mons. Delpini”. Sottotitolo: Sabato 1 aprile alle 20.45, alla Veglia sul tema «Nelle tue mani, Padre, consegno il mio spirito», sono convocati i catecumeni e i giovani, in una nuova tappa di avvicinamento alla Gmg di Lisbona.
Prima di esprimere le mie sincere impressioni, una parola di spiegazione, rispondendo alla domanda: che cos’era la Traditio Symboli e che cos’è oggi?
Anticamente. II Battesimo veniva conferito in età adulta: dopo un impegnativo e lungo cammino di preparazione al catecumenato (deriva dal verbo greco κατηχέω, istruire a viva voce, catechizzare) veniva consegnato il Credo, all’epoca detto Symbolum: da qui l’espressione latina Traditio Symboli, che significa “consegna del Credo”.
Simbolo: termine derivato dal linguaggio delle antiche religioni misteriche, dove si chiamava symbolum (dal gr. συμβολον), cioè signum, la formula che serviva come motto di riconoscimento tra gl’iniziati. Nel Cristianesimo invece il simbolo è un compendio delle verità fondamentali della fede che il candidato deve recitare, in segno appunto della sua fede, prima di ricevere l’iniziazione o il battesimo; e, divenuto cristiano, lo deve ritenere come norma universale e assoluta (regula fidei o veritatis), alla quale conformare la propria fede individuale.
I catecumeni, ricevuto il Simbolo, si impegnavano ad impararlo a memoria (tenere a mente il Credo voleva dire renderlo concretamente presente nella propria vita), per poi restituirlo (Redditio) recitandolo durante la veglia pasquale.
Ecco, dunque, le parola chiavi: Credo o Simbolo, traditio (consegna) e redditio (restituzione).
E oggi? La Veglia in “Traditione Symboli” ripropone questo rito della tradizione cristiana.
I giovani della diocesi e i catecumeni che riceveranno il Battesimo nella Veglia di Pasqua si ritrovano insieme al proprio Vescovo, per approfondire e testimoniare il dono della fede. La Regola di vita rappresenta un atto di affidamento della propria libertà nelle mani di Dio.
E ora alcune mie riflessioni.
Una cosa è certa: oltre ai catecumeni (ancora oggi ce ne sono), c’è la partecipazione di giovani già battezzati. Ora, avere davanti numerosi giovani, come si può non sfruttare l’occasione per risvegliarli eventualmente dal coma, stimolandoli dicendo loro qualcosa di veramente rivoluzionario? E per rivoluzionario intendo “evangelico”.
Ho ascoltato l’omelia del vescovo Mario Delpini (aggiungo Delpini perché quando lo sento chiamare “vescovo Mario” mi viene sempre da sorridere!), e di nuovo ho avuto un’altra conferma di quanto questo vescovo non riesca proprio a uscire da se stesso, vittima non tanto di una innata incapacità comunicativa (saper comunicare è anche una dote naturale), quanto di un vuoto non solo esistenziale, ma interiore.
Certo, non posso giudicare la sua coscienza o la sua realtà interiore, però, però, però… non posso accettare che le sue parole o i suoi gesti da pastore siano deludenti, noiose, prive di quel mordente che richiama necessariamente qualcosa di profondo.
Parole, parole, parole gettate così, come slogan ripetitivi a effetto, ma con quale effetto?
E che significa che si è stanchi di coloro che pongono le domande, ma che non sanno ascoltare le risposte?
Oggi le risposte giuste da dove vengono? E chi oggi pone vere domande?
Le vere domande provengono dal mondo interiore, quando è pulito, purificato, liberato anche da qualsiasi condizionamento religioso.
Altrimenti, si è in un cerchio vizioso. E le vere risposte che pretendiamo sono quelle che impegnano seriamente la realtà dell’essere.
Mi sembra di annoiare dicendo e ripetendo le solite cose. Ma bisogna pur arrivare a qualche conclusione, radicale e provocatoria.
Dal 2013 non celebro più la Settimana santa, e tutti a Monte ricordano ancora oggi con quale serietà e impegno preparavo le celebrazioni liturgiche, protagonisti i numerosi chierichetti ben preparati. Poi, lasciata la parrocchia, ho cercato di partecipare come ogni buon fedele a qualche celebrazione liturgica in chiese diverse. C’era sempre qualcosa di deludente.
Quest’anno ho scelto di fare un digiuno e astenermi dal partecipare ai riti della Settimana santa. Anche come semplice fedele.
Non se ne può più di un mondo di ipocrisie e di imbecillità religiose, non ne posso di ascoltare affermazioni come questa: “La Chiesa è viva perché Cristo è vivo?”. E dove Cristo è vivo? In una chiesa istituzionale che naviga nella carnalità più oscena?
Un confratello mi ha detto: “Consoliamoci (già tanto il plurale coinvolgente!), perché tra tre anni se ne andrà…”. Sono rimasto lì, poi ho riposto: “E in questi altri tre anni, la Diocesi cosa diventerà?”.
Giorni fa ho ascoltato a lungo lo sfogo amaro di un altro confratello, che mi ha quasi distrutto nella mia ostinazione di continuare a lottare. Mi dicevo: “Tutto inutile! Questa diocesi non potrà più risorgere finché saremo nelle mani di un vescovo così inutile!
Quando sento certe cose che riguardano lo stesso clero, così abbandonato a se stesso da un vescovo che se ne frega, allora non sento più giustificazioni: siamo al colmo della foillia…
Tanti preti borbottano in silenzio, tra quattro mura o al telefono, ma non si espongono. Temono ritorsioni. Qualche laico mi dice: “Il vescovo è quello che è, ma i suoi collaboratori (i Vicari episcopali di zona) che fanno?”. “Sono nulli!”, rispondo. Forse dentro di loro dissentiranno, ma fuori fanno meccanicamente il loro dovere, ovvero stare fedelmente in linea con un vescovo fuori di testa.
“Non succede così in politica?”. Certo, ma la Chiesa per me è un’altra cosa, dovrebbe essere un’altra cosa.
Oggi si parla di aperture nel campo ecclesiastico, di una pastorale delle periferie, di un maggior contatto con la gente, con nomine rivoluzionarie scelte dal mondo femminile, ma tutto è ancora e sempre “fuori” di quella logica che è esattamente, unicamente, radicalmente evangelica.
Si ragiona con la pelle e si agisce sulla pelle.
Non si vuole proprio entrare in quella realtà interiore o mistica, da dove prima o poi partirà la rivoluzione.
Caro don Giorgio,
mi ritrovo nel suo commento e già da tempo, dove mi è concesso, esprimo il mio dissenso sulla direzione (peraltro poco chiara) che sta prendendo la Chiesa. Oggi c’è tutto e niente e il Vescovo Delpini è il primo incapace di prospettare una direzione chiara (è un gran casinista). Ma c’è una cosa che in questi giorni mi interroga. Io credo che l’uomo chiamato a guidare una Chiesa possa farlo unicamente abbandonandosi nelle mani di Dio e dello Spirito. C’è una grazia che permette ad un Vescovo di “fare bene” e di costruire qualcosa. Quando questo non avviene mi viene da pensare che l’uomo vuole imporsi, non permettendo allo Spirito di agire mediante di lui. Insomma Dio “rende capaci”, “trasforma”. Nessuno è nato per fare il Vescovo o il prete ma per mezzo di questo “abbandonarsi”, di questo “avere fiducia di” che si diventa capaci. Ecco mi sembra che questa grazia, questo Spirito manchi tremendamente alla Chiesa di oggi. Manca nelle piccole comunità come nei Vescovi. Ma spesso ci si ritrae da questa osservazione cercando di rigirare la frittata. Siamo noi ottusi, chiusi, mondani che non riusciamo a comprendere l’opera dello Spirito. Vorrei rispondere magari con un pizzico di arroganza: voi agite solo di pancia e dello Spirito non si vede nemmeno l’ombra. Io parlo coi numeri in mano e coi fatti concreti che vedo. I preti si occupano di tantissime cose burocratiche e di pochissime cose spirituali. Le comunità assolvono i doveri rituali ma non c’è gusto, non c’è amore in quello che fanno. Devo leggere, devo cantare, devo recitare il rosario. Queste sono le espressioni che si sentono sulla bocca dei collaboratori. La preghiera dovuta non ha quella potenza per cambiare le cose. La preghiera desiderata, supplicata arriva a Dio. Siamo la chiesa del “fare” ma un fare fine a se stesso, senza una logica, specchio dell’individualismo delle persone che ricerca unicamente il protagonismo del singolo. Difatti questo fare non costruisce ma divide. Mette le persone contro. Non crea comunione e comunità.
Sfido il Vescovo Delpini che gira come una trottola la diocesi ad indicarmi una comunità fraterna, unita, concorde…in una sola parola Cristiana.
Di sicuro saprà indicarmi comunità economicamente virtuose o con bilanci sgangherati. Ma è questo quello a cui dobbiamo rivolgere attenzione?
Io parteciperò ai riti della Settimana Santa sempre con un pò di tristezza e di malinconia. Cercando di cogliere il massimo dai gesti e dalla Parole. Non mi aspetto niente; spero che, per Grazia, qualcuno si lasci contaminare dallo Spirito e riesca a risvegliare ciò che in me è assopito. Ormai vivacchio pure io, svegliandomi ogni mattina infelice e incompiuto. Andando a letto ogni sera stanco per avere corso a destra e a sinistra senza capirne il perchè. Una trottola…e la chiamano vita!