Omelie 2017 di don Giorgio: QUARTA DOPO PENTECOSTE
2 luglio 2017: QUARTA DOPO PENTECOSTE
Gen 6,1-22; Gal 5,16-25; Lc 17, 26-33
Ero tentato di soffermarmi sul primo brano, spiegando i ventidue versetti che compongono il capitolo sesto della Genesi: un capitolo che introduce il racconto del diluvio che verrà descritto nei capitoli successivi. Anche se è fondamentale per la sua comprensione contestualizzare il testo biblico, ovvero inserirlo nell’ambiente storico in cui è stato scritto, ma soprattutto decifrare il linguaggio usato per cogliere il vero intento dell’autore sacro, preferisco, ancora una volta, pur presupponendo ciò che ho appena detto, fare qualche considerazione simbolica, cogliendo quegli aspetti che escono dal tempo passato come stimoli per leggere anche la nostra epoca, che, in fondo, è quella che ci interessa.
I giganti anche locali
All’inizio del brano si parla di giganti, considerati frutto dell’unione di un essere divino o quasi divino con una donna della terra. E così si pensava che da tale unione venisse anche una vita terrena più lunga, quasi eterna. Si tratta di un racconto mitologico, preso in prestito dall’antico vicino Oriente. Ma l’autore sacro sfrutta tale mito, per dire in modo anche ironico, che, se prima la vita terrena era veramente più lunga (basterebbe citare l’esempio di Matusalemme), ora la vita si è ridotta di parecchio.
Ed ecco la risposta di Dio: “Il mio spirito non resterà per sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni”. Sempre secondo il racconto mitologico biblico, Dio aveva plasmato l’uomo con polvere del suolo, soffiando nelle sue narici un alito di vita e così l’uomo divenne un essere vivente. E, nel racconto precedente, l’autore sacro aveva scritto che Dio aveva creato l’uomo a sua immagine, dunque immortale nell’anima. Sappiamo che dire anima è dire spirito, ovvero la realtà più profonda dell’essere umano. Ora fa specie sentir dire che lo spirito di Dio nell’essere umano non resterà per sempre. Che significa? Probabilmente l’autore sacro intendeva per spirito l’anima o l’alito che tiene in vita il corpo umano.
Ma qui si potrebbe anche riflettere, pensando alla pretesa dei giganti di essere eterni, nel corpo. Una concezione ancora attuale, se pensiamo alla pretesa di qualcuno di allungare la vita fisica, solo perché si crede ricco e potente.
Dunque, la storia mitologica dei giganti può essere letta anche come la pretesa assurda di allungare la vita fisica, magari soffocando la sua parte interiore, ovvero quella dello spirito. Giganti, quindi, dai piedi d’argilla, come si dice, ma, ancor più, col cuore di pietra.
Mi hanno riferito che un piccolo boss delle mie zone avrebbe detto: “Vorrei che il Signore mi concedesse trecento anni di vita, per poter così realizzare tutti i miei sogni, ovvero comperare terre, fare questo e fare quello…”. E pensare che è già sull’orlo del fallimento, proprio per le sue pretese di una megalomania di avere.
I giganti dei nostri paesi sono tutti crollati miseramente, e non c’è bisogno che Dio ritiri da loro il suo spirito. La vacuità del loro essere li ha portati al tracollo.
Una malvagità che mette in crisi lo stesso Dio
Ora veniamo alla realtà tragica di una corruzione umana che mette in crisi Dio stesso. Scrive l’autore sacro: «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo».
Far dire a Dio di essersi pentito di aver creato l’uomo è un modo forte per esprimere coi sentimenti umani tutta la gravità di una perversione di una creatura arrivata al punto di oscurare il cielo, cancellando perfino ogni idea di Dio.
Quando leggiamo pagine simili, la tentazione c’è di pensare ad un passato oramai passato, dimenticando che il presente possa avere gli stessi motivi per far pentire Dio di aver creato gli esseri umani.
Vorrei farvi osservare che, a differenza di un tempo in cui c’era come una barriera di difesa tra il potere e il popolo, nel senso che il popolo, angariato, si difendeva dai prepotenti mantenendo una coscienza onesta, oggi è successo che il potente ha imparato a convivere con il popolo, accarezzandolo nella sua pancia, rubandogli così la testa, e di conseguenza la coscienza. Oggi a far paura non è più il potente o il ricco, ma il populismo di leader che accontenta sì la gente comune, ma nelle sue bassezze più materiali.
La banalità del male
C’è di più, ed è la “banalità del male”, un’espressione diventata famosa per il libro di Hannah Arendt, in cui la filosofa ebrea tedesca, inviata del New Yorker, descrive lo storico processo al nazista Adolf Eichmann, imputato di crimini contro l’umanità e il popolo ebraico, e crimini di guerra. Da qui nasce la riflessione sulla natura del male, banale e perciò stesso terribile: i suoi servitori non appaiono come demòni, anzi magari hanno la faccia d’angelo, comportamenti degni del più grande santo o mistico, ma che non sono altro che grigi burocratici: eseguono gli ordini dell’alto, anche quelli di uccidere.
La tesi che emerge dalle straordinarie pagine del libro della Arendt è sconcertante. Essa scrive: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme».
Su questa lezione mi sembra importante ritornare perché, fatte salve le ovvie differenze fra quello che fu “il male assoluto” e quelli che sono i mali del nostro presente, non c’è dubbio che molti di essi derivino dalla mentalità del “così fan tutti”, giustificata dai cattivi maestri della scena pubblica, in particolare di quella politica.
In breve, possiamo articolare la riflessione sull’insinuante presenza della “banalità del male” su tre fronti, che convergono nel male endemico e distruttivo della corruzione: la perdita diffusa del senso del dovere; il rimando alle altrui responsabilità per scaricare le proprie; la disaffezione nei confronti del bene comune, a favore di quello personale o della propria “lobby”.
Siamo come in un circolo vizioso, da cui sembra quasi impossibile uscire. Dico sembra, ma non dobbiamo scoraggiarci, e dobbiamo almeno tentare di rompere il cerchio.
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