Elogio del prete doc meneghino, cocciutamente fedele al proprio posto di lavoro

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Elogio del prete doc meneghino,

cocciutamente fedele al proprio posto di lavoro

Dopo aver visto, da irriducibile masochista, la registrazione video della Veglia missionaria diocesana, con la “Redditio Symboli” di 200 diciannovenni ambrosiani, che si è svolta sabato 26 ottobre 2024, mi è venuta spontaneo, più che una preghiera (a che servirebbe?, Dio già la conosce!), quasi un cantico in elogio del prete diocesano, che rimane fedele alla propria località, senza tanti grilli per la testa per evitare di essere un grullo, vittima di quella voglia oggi di moda di andarsene altrove, ovvero di evadere alla ricerca di qualche emozione esotica.
Già il cardinale Giovanni Colombo, in un incontro anche di fuoco che ebbi con lui per una incomprensione (eravamo nel periodo sessantottino) mi disse, senza che esprimessi alcun mio desiderio: “Non pensare di fuggire in Africa…Qui è la tua Africa”. Forse non aveva ancora capito che non volevo dargli un dispiacere momentaneo, ma che ero decisamente determinato a creagli altri ben più seri dispiaceri restando a lavorare in diocesi.
Lo stesso Carlo Maria Martini, in uno degli incontri che ebbi con lui, mi disse: “Se vai in Africa per risolvere i tuoi problemi personali, ricòrdati che, quando tornerai, non li avrai risolti, ma saranno gli stessi…”. Aggiunse, e già me l’aveva detto in altre occasioni: “La diocesi ha bisogno anche di te, è grande, immensa…”.
Caro confratello, attaccato al tuo posto di lavoro,
– sei stato ordinato per servire la diocesi! –,
vorrei incoraggiarti dicendoti, con voce calda e squillante:
“Fai semplicemente il tuo dovere,
perché questa è stata la tua scelta:
servire la Diocesi in tutto e per tutto,
senza nemmeno accarezzare l’idea di andartene altrove,
perché sarebbe un tradimento, un imperdonabile tradimento”.
Vorrei esserti vicino per incoraggiarti:
so per esperienza quanto un prete diocesano
abbia ben poche soddisfazioni pastorali,
quando compie bene il proprio dovere di buon pastore
con la fissa idea di condurre il proprio gregge
verso pascoli dove la Grazia è abbondante,
ma non sempre appetibile da comunità stanche e demotivate
che si lasciano tentare dall’immediato, dal futile,
dal cibarsi di qualche cibo più carnalmente stuzzicante.
Quando mi capitava di essere un po’ giù di giri,
– e come non esserlo in certe situazioni complesse e disperate? –
pensavo a quei miei confratelli che, con tanta fede nell’animo,
vivevano i miei stessi drammi, ma decisi a non mollare.
E sentivo di qualche confratello che, tentato di lasciare tutto,
poi rientrava in sé, e ancora più decisamente,
si lasciava mangiare dall’amore per il suo popolo.
Credevo, e ancora oggi credo,
in questa profonda “simbiosi empatica”
che ha del miracoloso, quando ci si sente soli,
tagliati fuori dalla comunione strettamente istituzionale.
Vorrei aggiungere che a quei tempi c’erano accanto a noi
figure autorevoli (non mi piace chiamarle “carismatiche”),
che per noi, prima seminaristi e poi preti,
erano di grande appoggio e di immenso conforto.
Oggi non saprei esattamente come chiamare
ciò che noi un tempo chiamavamo Spirito santo,
che con la sua Grazia ci riempiva di sapienza,
di rettitudine, di quel senso della giustizia
per valutare secondo coscienza le nostre scelte pastorali,
ma sempre in vista di quel gregge che ci era stato affidato
perché spendessimo in loco ogni minuto del nostro tempo
e ogni energia del nostro essere più profondo,
unitamente a sacrifici che ritenevamo doveri
come distacchi da ogni minima ombra di egoismo,
o di quel voler mettere in mostra ogni capacità
di inventarci noi qualcosa di eclatante,
pur di accalappiare più anime e più corpi.
Certo che capitavano crisi,
non sempre sapevamo equilibrare attività e spiritualità,
lasciandoci mangiare anche materialmente
dalle esigenze più carnali che spirituali
della gente che voleva e voleva dal proprio prete,
come se fosse tutto “suo”.
Un angelo c’era sempre che ci risollevava,
dicendoci buone parole, invitandoci a proseguire
come era capitato al profeta Elia nel deserto:
voleva lasciarsi morire, senza più né mangiare né bere,
una specie di eutanasia, ma Dio non poteva accettare
che il suo profeta compisse un gesto di rassegnazione,
di rinuncia a profetizzare in nome suo,
e gli diede il cibo giusto per giungere al monte Oreb,
dove l’Eterno era lì ad aspettarlo nel silenzio più puro.
Forse eravamo ingenui, forse avevamo amici veri
che erano del tutto innamorati dello Spirito,
e ci sentivamo quasi vermi appena un pensiero
anche solo accennato di rinuncia o di fuga
riusciva a turbare la nostra fede genuina:
di credere nella grazia come dono da vivere
sul proprio posto di lavoro.
I nostri migliori compagni di viaggio, appunto i Padri spirituali
ci parlavano della Grazia del dovere quotidiano,
nella fedeltà al proprio posto di lavoro,
come se più ti assentavi dalla località pastorale
più l’ego prevaleva sulla Grazia, che finiva per tacere.
Insistevano nel dirci di credere nella Grazia
della vocazione diocesana:
più ti incarni nella località del tuo gregge,
più la Grazia estrae le sue Sorprese.
Perché ti dico questo?
Ma a chi sto parlando?
Quanti preti mi stanno ascoltando?
Forse gli anziani, forse quelli già rassegnati,
con il sedere incollato a qualche scranno di garanzia esistenziale?
Forse tra i preti giovani le mie parole si perdono nel vento:
“loro”, una via di fuga la sanno sempre trovare,
“loro”, sempre incinti di ambiziosi ed evasivi desideri
che si allargano oltre i confini di una parrocchia,
presenti per quel minimo che garantisca loro una casa e uno stipendio
– da notare: ai miei tempi, non eravamo così attaccati al mensile,
anche perché costretti a vivere di provvidenza,
mentre oggi i preti novelli la prima domanda che pongono è:
quanto prendo al mese? –
sono già trottole nel seno seminaristico,
e poi, sostenuti anche da psicologi freudiani, pagati,
che non hanno nulla a che fare con i padri spirituali dei miei tempi,
si avventurano alla cieca in campi pseudo-pastorali
dove a primeggiare non è il Messaggio,
ma la tecnica che magari svuota il Messagio:
ciò che conta è non avere rogne di problemi esistenziali,
ma soddisfazioni parlando in video/conferenze
con una massa anonima che sa anche mettere un “mi piace”,
solleticando un certo piacere di aver ascoltato
uno tra i tanti guru che infestano i social.
E poi diciamola tutta:
i guru sanno fare bene il loro mestiere,
mentre questi preti giovani sempre sui social
sono ridicoli, per nulla autorevoli,
neppure capaci di mettere un qualche seme divino
nella testa vuota della gente.
Quando li vedo sto male: un volto senza espressioni,
parole metalliche, ripugnanti nel loro modo di atteggiarsi.
Poveretti! Sì, ma..
Forse per questo, per rifiutare
tale oscena pastorale del tipo tecnologico,
che alcuni preti, di mezza età, lasciano il proprio posto di lavoro,
e se ne vanno in Africa, nel Perù, o a Cuba?
Non lo so, ma so che le parole del cardinale Giovanni Colombo
dovrebbero far riflettere, e così le parole di Carlo Maria Martini:
“Resta qui, non c’è valido motivo per fuggire,
non farti prendere dalla disperazione o dalla durezza di dissodare
un campo di lavoro, refrattario alla Parola di Dio,
più di quanto succede altrove”.
Sì, riconosciamolo, è più duro stare qui nel locale diocesano
che andare in Africa o a Cuba o nel Perù.
Ed è questo che mi fa star male:
quando assisto a una apoteosi quando un prete diocesano
decide (per quale motivo?) di andare “fuori diocesi”
per qualche anno a fare il missionario.
Tu, prete diocesano che resti fedele al tuo posto di lavoro,
tu sei un eroe, certo nel silenzio e nella indifferenza generale.
Ma, ecco un’altra arrabbiatura: come si può tacere
davanti a scelte scriteriate di un pastore/trottola
che sta svuotando la diocesi dei propri preti,
sostituendoli con preti extracomunitari?
Non si tratta di essere razzisti:
si tratta di avere o no un po’ di cervello,
ma sembra che oggi il cervello difetti
là dove dovrebbe abbondare.
E allora mi viene da urlare:
tu, prete diocesano, fedele al tuo posto di lavoro,
non perdere tempo a invidiare i traditori,
e neppure nel provare qualche disgusto
per un pastore per nulla evangelico,
che si diverte a mandare a picco una diocesi,
una tra le più autorevoli per un nobile passato.
Arriverà, arriverà, arriverà qualche forte soffio dello Spirito:
i fuscelli voleranno via, e i giusti fedeli
avranno la loro eterna ricompensa:
la Grazia di Dio feconderà i deserti più aridi.
02/11/2024
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