Giuliano Amato: “Democrazia a rischio. L’Italia può seguire Polonia e Ungheria”

da www.repubblica.it
02 GENNAIO 2024

Giuliano Amato:

“Democrazia a rischio.

L’Italia può seguire Polonia e Ungheria”

di Simonetta Fiori
“È difficile che le maggioranze mostrino sensibilità per quelli che sono stati definiti diritti postmateriali quando quelli materiali” non sono stati ancora soddisfatti”
Guardo all’anno nuovo con una buona dose di apprensione. Per la nostra destra populista che non riesce a non esserlo, per l’assenza di un’opposizione capace di contenerla, per la somma di fragilità democratiche antiche e recenti che pesa sul nostro paese. Le democrazie possono finire senza tanto clamore, come è già successo anche di recente in Europa. E questa fine ha sempre un inizio».
Prima il manifesto politico della destra italiana emerso dall’appuntamento di Atreju, poi il voto contrario al Mes e all’Europa. Giuliano Amato riflette con preoccupazione sul movimento nazionalpopulista di Giorgia Meloni, il cui trasloco verso una destra moderata gli appare sempre più difficile, in un’Italia storicamente poco abituata alla democrazia. «Quella di Fratelli d’Italia e della Lega continuiamo a chiamarla destra, ma di sicuro non ha la cultura politica di Reagan né della Thatcher né di Major, con cui mi è capitato di lavorare. È un’altra cosa, che ha che fare con l’ideologia dell’ostilità e del rancore. Ed è ancora più complicato sradicarla».
Perché sono destre diverse?
«Quella di Reagan e Thatcher stava con i ricchi, non perché si disinteressasse dei poveri ma perché riteneva che gli ultimi avrebbero tratto benefici dalla mano libera lasciata ai grandi imprenditori. È la dottrina del trickle down: la ricchezza dall’alto sgocciola sul resto della società, per questo bisogna lasciare che il mercato si prenda cura di se stesso, senza troppi vincoli. Poi abbiamo visto che non è finita bene».
Questa destra radicale parla invece in nome del popolo.
«È scaturita proprio dalla crisi economica e sociale creata da quell’altra destra liberista. L’ideologia del trickle down ha aumentato le diseguaglianze e non ha certo fermato la povertà, ridotta sul piano globale ma accresciuta nei paesi più sviluppati. Ed è proprio qui, in Europa e negli Stati Uniti, che ha messo le sue radici la nuova destra populista, la quale non si nutre più della spinta dei ceti più ricchi ma di un’energia opposta che ricava agitando la bandiera dei perdenti».
È la destra anti-establishment.
«Sì, quella che dice agli ultimi “io sto con te, io ti rappresento”, erigendosi a partito degli scontenti. Sulla scena mondiale Trump ne è forse l’espressione maggiore, ma in Italia Giorgia Meloni è stata capace di mettere a punto un metodo politico non meno efficace perché capace di raccogliere scontentezze di varia natura: i perdenti di una battaglia lontana, i nostalgici di un fascismo che non c’è più, e i perdenti di oggi, quell’enorme prateria del rancore alimentato dal disagio economico e sociale, oltre che dall’insofferenza per i nuovi diritti».
Dalla kermesse di Atreju è emerso con chiarezza il manifesto ideologico della destra italiana.
«Nel suo discorso conclusivo, la presidente del Consiglio ha elencato la lista dei nemici, ossia i trasgressori di un ordine esistenziale e valoriale su cui si fonda la vita dei suoi elettori nei ceti medio bassi. Chi compare nella lista nera? Quelli con il reddito di cittadinanza, perché io posso pure guadagnare poco perché non sono un professionista, ma non è giusto che tu che non fai nulla percepisca più di me. Così come mi risulta intollerabile che un migrante occupi abusivamente una casa popolare o un carcerato venga messo in libertà solo perché obeso e in cella non può essere curato: questi sono delinquenti, devono marcire in galera! E gli omosessuali? Tutta questa confusione tra due mamme, due papà, i figli arcobaleno fatti nascere nei modi più strani: e i valori tradizionali che reggono le nostre vite? Ecco, agli occhi degli elettori della destra populista questi da me elencati sono tutti esempi insopportabili di trasgressione».
Accade non solo in Italia. I nuovi diritti stentano a essere riconosciuti là dove manca la libertà dal bisogno. Se sono in difficoltà, non mi preoccupo dei carcerati o dei migranti.
«Questo è vero. È difficile che le maggioranze mostrino sensibilità per quelli che sono stati definiti “diritti postmateriali” quando “i diritti materiali” non sono stati ancora soddisfatti. Ma sa questo cosa significa?».
Viene guardato con ostilità anche chi difende i diritti delle minoranze.
«Proprio così. È percepita come un nemico anche la Corte Costituzionale, ossia il più alto organo di garanzia della Carta il cui compito è garantire anche i diritti di carcerati, migranti, omosessuali. Agli occhi degli elettori della destra populista le Corti finiscono per apparire espressione e garanzia di quelle minoranze che turbano il loro ordine e i loro valori. Quindi sono nemici, perché la maggioranza che sta con me è il popolo e gli altri che non la pensano come me sono avversari da combattere. L’abbiamo visto in Ungheria e in Polonia: le prime ad essere messe nella lista nera sono state le Corti europee, poi le Corti nazionali. Perché se queste appaiono come nemiche della collettività, una politica che protegge il popolo e i suoi valori è autorizzata a sottometterle alla volontà del governo».
Qualche anno fa lei era a New York con un importante costituzionalista polacco quando sul suo cellulare comparve una notizia drammatica.
«Sì, era Wojciech Sadurski. Il governo del suo paese aveva impedito la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di una sentenza della Corte Costituzionale, con l’effetto di paralizzarla. Queste cose un bel giorno cominciano. E poi proseguono».
Può succedere anche da noi?
«Non c’è nulla che lo impedisca. Da noi ora è ritenuto inconcepibile, ma potrebbe accadere. Se accadesse, dovrebbe uscirne un procedimento per attentato alla Costituzione, il reato più grave che esista, ma un governo che arriva a fermare una sentenza della Corte Costituzionale si sente abbastanza forte: sa che può farlo senza suscitare le rivolte di piazza. Questo segnerebbe un cambiamento profondo, la fine della democrazia. Ma quella fine ha sempre un inizio».
La nostra Corte Costituzionale è stata già oggetto di attacchi. Nel libro che lei ha scritto con Donatella Stasio “Storie di diritti e di democrazia”, colpisce l’accusa ripetutamente rivolta ai magistrati costituzionali quando hanno scelto di uscire dal Palazzo della Consulta per andare nelle scuole e nelle carceri: l’accusa era quella di cercare il consenso, quindi sostanzialmente di fare politica.
«Questa accusa ci è stata rivolta soprattutto dai giudici e dai costituzionalisti più conservatori, un mondo sulla cui persistente capacità di dominio la destra populista conta».
Anche i giornali della destra sovranista, all’epoca del governo Lega-Cinquestelle, vi hanno accusato di voler assestare una bastonata alle politiche di Salvini.
«Sì, l’attacco alla Corte è già cominciato, perbacco! È successo ogni volta che le nostre sentenze garantivano coloro che prima abbiamo definito “i trasgressori”, le minoranze percepite come nemiche».
E quando poche settimane fa è stato nominato Augusto Barbera alla guida della Consulta, uno dei più attivi esponenti del centro-destra, Maurizio Gasparri, ha definito alcune sentenze della Corte «più simili a un volantino di propaganda che a un trattato di diritto». È stato il suo benvenuto al neo presidente.
«Non è facile a chi muove queste critiche trovare una sola sentenza della Corte che sia propaganda. Però c’è chi cerca di crearne il clima. Quindi ha fatto bene la Corte – e farà bene a continuare a farlo – a far conoscere il suo lavoro ai cittadini, missione connaturata alla funzione originaria: le Corti costituzionali rappresentano una difesa della Carta contro le maggioranze, tutte le volte che le maggioranze escono dal seminato costituzionale».
Perché questa destra populista fa fatica a riconoscersi nella Carta?
«Direi meglio: fa fatica a riconoscersi in alcune interpretazioni evolutive, quelle che garantiscono i nuovi diritti».
Ma anche verso la Carta c’è grande insofferenza. La riforma sul premierato elettivo ha l’effetto di stravolgere il sistema parlamentare democratico previsto dalla Costituzione.
«Sì, questo è vero. E infatti è difficile trovare un costituzionalista che l’approvi. A tutte le obiezioni che abbiamo già formulato, potrei aggiungere che si tratta di una vera frode per gli elettori. La presidente Meloni continua a sostenere che il premierato elettivo metterà fine ai ricatti dei partiti perché finalmente saranno gli elettori a decidere la formazione del governo. Invece è vero il contrario! Questa riforma consente ai partiti il massimo potere di ricatto perché il premier eletto dagli elettori ricava solo l’incarico e prima di avere la fiducia del Parlamento deve aver nominato i ministri. Ergo, nella notte dei lunghi coltelli, saranno i partiti a mercanteggiare ministeri e posti di comando: o mi dai gli Interni o ti scordi la fiducia. Suppongo che questo marchingegno privo di coerenza sia stato imposto da Salvini, ovvero dal secondo partito, perché contraddice quanto detto dalla presidente».
Una maggioranza così costituita è capace di governare il futuro?
«Finora la destra populista s’è dimostrata capace di dare risposte più simboliche che reali e concretamente orientate al futuro. Messa davanti alle decisioni, fa fatica a far quadrare le esigenze del buon governo con le istanze nazionalpopuliste, in qualche caso premoderne, proprie di un partito d’opposizione. E il bravo Giorgetti è la figura tragica di questa contraddizione: la storia del voto contrario al Mes l’ha vissuta in questa chiave».
Si allontana la possibilità che questa destra approdi a una sponda conservatrice moderata?
«Mi pare un trasloco difficile, anche perché si articola in un duplice spostamento: da una parte il taglio con le radici fasciste, incompatibili con la cultura di una destra conservatrice europea; dall’altra l’abbandono dell’ossessione del nemico e dei toni bellicosi, tipici di chi rappresenta solo risentimento, come ha ben scritto Galli della Loggia. Nella cultura della destra conservatrice vi sono i valori della tradizione, ma anche alcuni principi democratici ineludibili: i benefici penitenziari per consentire alla pena di avere i suoi effetti rieducativi, il divieto di discriminazione in ragione dell’orientamento sessuale, politiche di integrazione per gli immigrati soprattutto in una fase di inverno demografico. In più, perché Fratelli d’Italia e Lega cambino natura, occorre anche una competizione con l’opposizione che al momento non vedo».
Tocca all’opposizione cambiare questa destra?
«All’opposizione spetta cambiare innanzitutto se stessa, mettendo in seria difficoltà l’avversario politico. Perché altrimenti, se davanti a sé non percepisce ostacoli, la destra populista continua a essere come è: non corre certo il rischio di perdere!».
Il Pd di Schlein non è all’altezza della sfida?
«Intendiamoci, non è facile combattere un avversario politico al quale, per dire di sì agli scontenti, basta stare in Tv o sui social. Per creare una società migliore devi convincere anche a rinunce e per farlo devi andare tra la gente, discutere, farti valere. Lo fa il Pd?».
Il partito democratico potrebbe guardare a un centro politico che è stato svuotato dalla destra populista?
«Sì, il Pd potrebbe conquistarlo prospettando credibili disegni di una nuova società. È anche una questione di linguaggio. Allo stile gladiatorio della destra populista fa eco un analogo “linguaggio contro” dell’opposizione. Conquistare il centro significa inoltre fare i conti con quei valori tradizionali che sono lasciati solo alla destra: è vero che sono i valori che Putin accusa le società occidentali di aver ripudiato, ma – siamo onesti! – le lucciole scomparse di Pasolini erano in parte quei valori, cancellati secondo lui dall’individualismo sfrenato promosso dai consumi. Vogliamo tornare a cercare un punto di incontro?».
Dai suoi interventi più recenti emerge una crescente preoccupazione per la fragilità della nostra democrazia, di cui la destra populista è forse il sintomo più grave.
«Alle fragilità antiche proprie di una democrazia immatura – la non abitudine alla democrazia – se ne sono aggiunte di nuove che sono tipiche della democrazia matura, frutto di un malessere sociale che non trova risposte. Oggi ci ritroviamo prigionieri di una somma di fragilità da cui è difficile uscire. La storia di Italia ci aiuta a capire come ci siamo ridotti in questo modo. Non mi riferisco solo ai vent’anni di fascismo ma anche a un lungo dopoguerra in cui il partito maggiore della sinistra è stato congelato all’opposizione. E, per tenere alte le barriere anti Pci, nelle menti più perverse fu concepito l’impensabile, perfino le stragi di Stato. Mi ricordo quel che mi disse una volta il cardinal Ruini: “Sa, per combattere il comunismo, di acqua sporca ne abbiamo fatta passare tanta”. E vuole che questa acqua sporca non abbia infragilito le fondamenta della nostra democrazia?».
È evidente. Ma continui.
«Quando poi il sistema politico italiano è imploso con Tangentopoli, in molti hanno dato la colpa alla procura di Milano, accusata di aver forzato la mano. Può darsi. Ma già allora io sostenevo che l’albero abbattuto da Mani Pulite aveva le radici fradice. E quindi è bastato toccarlo per farlo cadere. Al di sotto c’era solo terriccio da cui sono emerse figure di serie B, poi promosse in A, ma non è la politica di una liberaldemocrazia quella che ne esce fuori».
Anche il fatto di non avere mai avuto una “destra normale” – così la chiamava Vittorio Foa – è un segno della nostra democrazia fragile?
«Ma certo. Noi non siamo riusciti a sviluppare una destra conservatrice come Dio comanda: non ci è riuscito Silvio Berlusconi, la cui carica seduttiva molto ispirata dai suoi affari si è esaurita insieme alla sua persona: morto lui, Forza Italia ha perso il suo impulso vitale. E non ci è riuscito Gianfranco Fini, il cui progetto di una destra repubblicana e costituzionale ho seguito con grande interesse. Ma anche andando indietro nella storia d’Italia, dopo Cavour abbiamo avuto sì grandi figure di centro capaci di capire la sinistra – penso a Francesco Saverio Nitti e Luigi Einaudi – ma essi costruirono dei ponti che pochissimi hanno poi voluto attraversare. E sono rimasti come luminosi esempi di cultura politica più che come artefici di una nuova Italia».
Lei dice: non sono stati capaci loro, figuriamoci se ora ci riesce il personale politico di oggi.
«Sarebbe sperabile, tuttavia non nascondo il mio pessimismo. Anche perché a novembre potremmo avere di nuovo Trump alla Casa Bianca. Ma per non esagerare con il buonumore direi oggi di fermarci qua, e di non parlare del brutto mondo che abbiamo intorno».

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