MARIO CARLINI – IGUANA PRESS VIA GETTY IMAGESBOLOGNA, ITALY – OCTOBER 27: Italian musician and author Francesco Guccini unveils his latest record “L’Osteria delle Dame” at Osteria delle Dame on October 27, 2017 in Bologna, Italy. (Photo by Mario Carlini – Iguana Press/Getty Images)
da www.huffingtonpost.it
CULTURE
30/08/2020
Francesco Guccini:
“La scuola dovrebbe essere meno ‘mamma’
e far faticare di più.
Speriamo che non chiuda subito”
Il cantautore parla ad Huffpost. Il suo romanzo, Tralummescuro (Giunti), che è nella cinquina dei finalisti, potrebbe vincere il premio Campiello
By Nicola Mirenzi
Il suo assistente mi raccomanda di fargli un’intervista da scrittore; ma come altro si potrebbe intervistare Francesco Guccini? “Quando mio padre mi domandò: ‘Cosa vuoi fare da grande?’, io risposi senza tentennare: ‘Voglio fare lo scrittore, papà’. Avrò avuto dieci, undici anni. E, in fondo, è quello che ho sempre fatto”. Certo, Guccini ha scritto e cantato canzoni, ha inciso dischi, è salito sul palco e si è esibito davanti a migliaia di persone, l’industria della musica gli ha dato il successo e ha creato la mitologia. Eppure, al contrario di quel che pensano i pigri quando esce un suo romanzo in libreria, Guccini non è un cantante che scrive libri, “è, lo era anche prima dell’89, anno in cui pubblicò il primo libro, uno scrittore che per qualche decennio ha scritto canzoni”, ha spiegato Guia Soncini, allegando alcune prove inconfutabili: “C’è un romanzo in Eskimo, uno in Vedi cara, uno in Nostra signora dell’ipocrisia”.
“Io – dice Guccini – ho scritto soltanto canzoni che raccontano una storia e le ho scritte solo quando avevo qualcosa da raccontare. Sono stato un narratore anche da musicista. Le canzoni uscivano fuori da sole, io tutt’al più definivo i tratti dei personaggi, immaginavo le loro avventure, ma non ho mai scritto una canzone perché la mia casa discografica me lo aveva chiesto, oppure perché mi sforzavo di scriverla. Ogni tanto, a fine cena, c’erano dei colleghi che mi dicevano: ‘Ora mi chiudo in casa un mese, perché devo scrivere le canzoni del nuovo disco’. Pensavo: ‘Io potrei stare chiuso in casa anche sei mesi, se le canzoni non han voglia di uscire, col cavolo che escon fuori’. Infatti, quando si sono stancate di venir fuori, ho smesso di cantare e basta”.
Sabato prossimo il suo romanzo, Tralummescuro (Giunti), che è nella cinquina dei finalisti, potrebbe vincere il premio Campiello. La parola del titolo è bellissima e indica, nel dialetto di Pàvana (il paese in cui vive, sull’Appennino tosco-emiliano), il momento in cui la luce del giorno scivola verso il buio della sera. Il romanzo è la confessione di un amore smisurato per Pàvana e il racconto del mondo contadino che lo popolava ed è ormai scomparso; ma, a differenza dell’ingente letteratura italiana di gusto passatista, non contiene un grammo di disperazione, non invita in alcun modo a riacchiappare il passato dalla coda e riportarlo qui, anzi la nostalgia di Guccini è allegra, sorridente, piena di gioco, caciarona.
Come è possibile?
Perché non si tratta di nostalgia: si tratta di malinconia, un sentimento che addolcisce gli spigoli del passato e può permettersi di porsi nei suoi confronti con ironia, rievocandolo con il gusto della festa e della partecipazione al gran ballo. L’altra sera, per esempio, è venuto a cena un amico che conosco dal quarantanove. Abbiam ricordato certi personaggi fantastici della nostra infanzia di paese, le loro frasi fulminanti, certe espressioni d’antologia: abbiamo riso molto, non ci siam mica messi a piangere.
Perché ha respinto subito la parola nostalgia?
Perché non si può rimpiangere un mondo dove non c’era l’acqua corrente, dove c’era una sola stanza riscaldata in tutta la casa, un mondo in cui si andava in giro con l’asino perché non c’erano le auto, o meglio non c’erano i soldi per comprare le auto, un mondo dove conoscevi il significato letterale della parola fame. Provare nostalgia per quel tempo significherebbe irridere la povertà, sputando sul benessere relativo che abbiamo oggi. Sarebbe ingiusto.
Lei, però, qualche risata sul mondo di oggi se la fa.
Io ho un’automobile parcheggiata in garage senza avere la patente per guidarla, in più mi rifiuto di comprare un telefonino da anni. Se volessi prendermi sul serio, potrei considerarlo il mio trattato intorno ai costumi del mondo contemporaneo. L’aspetto della modernità che mi fa sorridere di più è la convinzione di chi viene dalla città di potersi impossessare dei segreti dell’Appenino nel giro di un fine settimana, quando per scoprirli ci sono voluti centinaia di anni. Ogni volta, mi gusto la scena della montagna che si prende la briga di abbassargli la cresta.
C’entra la montagna con il suono delle sue canzoni?
Io ho avuto un periodo elettrico breve, quando facevo l’orchestraro nelle balere. Un amico mi prestò un Gibson Les Paul nera, che era veramente bella e ci potevi suonare su delle note che duravano un quarto d’ora. Commisi l’errore di restituirgliela, e né io né lui sappiamo che fine abbia fatto, però entrambi sappiamo quanti soldi varrebbe oggi. La mia fase elettrica è durata circa un anno e mezzo, poi le canzoni le ho scritte sempre suonando la chitarra acustica e così le ho sempre suonate in pubblico.
Mai avuta la tentazione di un svolta alla Bob Dylan?
No, mai. Alla fine degli anni cinquanta, un amico costruì da solo un amplificatore da un watt, roba da niente al confronto di un amplificatore di oggi, però quando allora misi dentro lo spinotto e diedi una pennata alle corde della chitarra mi sembrò di assistere a un miracolo. Era una magia. In fondo, era lì il fascino del rock ’n roll di quegli anni. Io ho preso un’altra strada e oggi a casa ho sei chitarre, solo acustiche o classiche, due Martin, due Masetti, una Trameluc e una Eko: le amo tutte, trattondole però come le favorite di un harem, in certi periodi ne privilegio una, in certi momenti un’altra.
Nel suo romanzo ha mescolato l’italiano con il dialetto?
Da una parte, perché volevo che i personaggi che appaiono nel racconto parlassero la propria lingua, che non è proprio dialetto, ma è un italiano dialettale, che è quello che si parlava a Pàvana; dall’altra parte, perché l’italiano che si parla oggi è un italiano svilito, è l’italiano della pubblicità, l’italiano della televisione, l’italiano del gergo politico, così prevedibile e quasi sempre noioso. Ho cercato di ravvivarlo, eccitandolo con i vocaboli della lingua parlata.
Come si può rendere più viva una lingua innestandola con una lingua morta?
Qualche anno fa, per divertirmi e far passare le lunghe serate invernali, ho tradotto tre commedie di Plauto dal latino al dialetto pavanese, che è un dialetto che sta per scomparire, ma non è ancora morto, per esempio i vecchi come me lo parlano ancora e scriverlo serve anche ad allungargli la vita. Decidere di usarlo è come dotarsi di una tavolozza con più colori rispetto alla tavolozza di colori che ha l’italiano, che non è più la lingua ricca di vocaboli di Manzoni, anche quella nata dalla commistione tra lombardo e italiano, è una lingua rattrappita da un modo di parlarla e di scriverla misero e, a volte, anche miserabile.
È anche una questione di ritmo? Il suo romanzo ha l’andamento di una lunga canzone.
Se ho scritto una canzone, l’ho fatto senza rendermene conto. Ma, senz’altro, se io dico in italiano “non sono capace di suonare il pianoforte” ho un suono piatto, mentre se lo sporco con la parlata dialettale e dico “non son mica bon a suonar il pianoforte” ho un suono irregolare, un po’ jazz, che ha già tutto un altro suono.
Possibile che lo svilimento dell’italiano sia colpa solo della tv e della politica?
Credo che c’entri anche la scuola, perché una volta chi arrivava alla quinta elementare scriveva in un italiano buono, almeno senza errori, oggi nemmeno la maturità è la garanzia che chi l’ha ottenuta sarà sicuramente dotato di una buona scrittura: mi capita di leggere certi strafalcioni!
Cos’è cambiato?
Ho l’impressione che la scuola tenda a rimuovere la fatica dello studio e quando un autore risulta troppo difficile da comprendere si preferisca accantonarlo, anziché affrontarlo e sudarci sopra per venirne a capo. Credo che la scuola farebbe bene a essere meno ‘mamma’ con gli studenti.
Sempre che la scuola riesca ad aprire.
Più che altro mi auguro che non richiuda subito dopo che sarà aperta, perché la sensazione è che le procedure per la riapertura siano ancora in alto mare.
Ma come fa a rimpiangere le scuole del passato e a essere allo stesso tempo un progressista?
Si può avere malinconia per una realtà che è scomparsa, oppure che rischia di scomparire, e credere che il mondo debba andare avanti, come perbacco deve fare la sinistra in cui mi riconosco io: non c’è alcuna contraddizione, a meno che non si accetti un’idea schematica della vita, un’idea piana, che rifiuta qualsiasi attrito.
La sinistra vuole allearsi con i 5 stelle, con i quali lei è sempre stato critico: le è dispiaciuto?
Al contrario, credo che per frenare l’avanzata della destra in Italia facciano bene il Pd e i 5 stelle a cercare un dialogo e ad avvicinarsi gli uni agli altri, nonostante ci siano degli aspetti dell’alleanza che dovranno essere chiariti bene.
I frutti della ‘scuola’ italiana in fondo li vediamo e li subiamo un po’ tutti… li vediamo con i nasi spiaccicati sulle vetrine dei centri commerciali, a marcire su letti e divani per seguire le serie tv americane, a dilapidare un monte ore impressionante su chat e social network, perché no in mutande nell’atto di imitare le mossette di qualche sculettante saltimbanco dello show business…
Caduti dall’albero della ‘conoscenza’… ce li ritroviamo poi qualche anno dopo addirittura a votare i berlusconi e i leghisti… segno inequivocabile che quei triliardi di investimenti sono letteralmente bruciati, risorse sottratte ai poveri….
Il capitalismo, attraverso la massoneria, usa in fondo la scuola come un adolescente usa il controller di una consolle di videogiochi, ad occhi chiusi… I morti di fame in cattedra, per evitare di perdere i danari di qualche fondo europeo o evitarsi qualche grana dicendo quello che andrebbe detto e facendo quanto andrebbe fatto, fingono di non capire rintanandosi dietro voti, riunioni e progetti pin, pon, pan…. Quando poi scendono in piazza, questi pali dei capitalisti, lo fanno solo per chiedere qualche altra ghianda…
Inevitabile questi miserabili partoriscano altri miserabili… pronti a tutto pur di occupare una torre da cecchino in qualche multinazionale o costruirsi le reti giuste per poter scivolare sotto le lenzuola di qualche vizioso criminale.
Non solo dunque malasanità, mala PA , sistemi legnano e miriadi di comuni commissariati, un’evasione da guinness e una meritocrazia calpestata sistematicamente, tranne forse nei sistemi mafiosi meridionali dove per scalare una piramide qualche colpo lo devi pure portare a segno… i capitalisti devono alla ‘scuola’ molto, moltissimo dei loro domini terreni…