“Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti…”

“Eran trecento, eran giovani e forti,

e sono morti…”

Forse cito a sproposito il celeberrimo ritornello di quella che, probabilmente, è una delle più conosciute poesie risorgimentali, La spigolatrice di Sapri, composta da Luigi Mercantini in memoria dell’impresa tentata da Carlo Pisacane nel 1857.
Ma mi è venuto spontaneo pensare a questo ritornello, dopo aver visto il video della serata e dopo aver sentito le parole dell’omelia del vescovo Mario Delpini.
Pensavo a quei giovani presenti in chiesa – non so se fossero trecento, forse molto meno, e non so se fossero pieni d’entusiasmo – i quali si saranno sentiti di nuovo morire “dentro”, perché traditi da una parola del loro vescovo, ancora senza vita e senza spirito.
Mai sentito un’omelia così insulsa, priva di ogni mordente.
Mi chiedevo: “Vescovo Mario, avevi davanti dei giovani, da riattivare nel loro animo, caricandoli di quel Divino che suscita sempre sorprese e miracoli, e tu, con una omelia neppure accettabile tanto era al di sotto di ogni decenza, hai di nuovo mortificato attese e speranze…”.
Aspetto il tuo Discorso di Sant’Ambrogio, che negli anni precedenti ho sempre contestato per varie ragioni, tra cui la mancanza scandalosa di una parola da vescovo, forse per paura di irritare le autorità presenti, ma forse perché non ti sei ancora reso conto che, pur parlando alla città di Milano, non puoi venir meno alla tua vocazione di buon pastore, che ha l’obbligo di trasmettere la parola rivoluzionaria del Cristo radicale, tanto più che anche la città di Milano, forse più delle altre, non ha bisogno di analisi socio-politiche e tanto meno di rimedi socio-politici, ma di restituirle quell’anima che da tempo si è persa nella nebbia padana, anche per colpa di una gerarchia ecclesiastica che vive di pelle.
Quanto vorrei che almeno una volta tu, vescovo Mario, parlassi e spiegassi l’invito di Cristo: Metanoèite, da rivolgere a qualsiasi persona, credente e non credente.
In fondo sono un ostinato che ha ancora fiducia o che tu, vescovo Mario, almeno una volta abbia il coraggio di rientrare in te stesso per farti illuminare dall’intelletto “attivo”, che prende luce dall’Intelletto divino, per cambiare rotta nel tuo modo di fare pastorale.
Sei fuori strada, sei in periferia di te stesso, e, fuori, non puoi dare stimolanti indicazioni per scuotere una massa assopita e un mondo politico oramai fuori di testa.
Ho scelto di proporre un articolo, scritto anni fa, ma sempre utile da rileggere, per conoscere almeno qualcosa del Genio di santi Pastori del passato, che hanno sì lasciato un segno nel tempo, ma che ora sembra si sia perso nell’oblio totale, anche perché dalla pochezza non si ottiene che pochezza, e si finisce per appiattire ogni nobiltà d’intenti, tanto più che la pochezza emargina gli spiriti liberi.
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dal sito della chiesadimilano
30 Novembre 2023

Esercizi spirituali per giovani,

rivedi la terza serata con l’Arcivescovo

Si sono tenuti in tutte le Zone pastorali sul tema «La vita è vocazione ad amare». Monsignor Delpini ha predicato a Sovico, nella Zona V
Si sono conclusi in tutte le Zone pastorali gli Esercizi spirituali di Avvento proposti ai giovani 18/30enni e ai loro educatori, sul tema «La vita è vocazione ad amare».
Nella prima serata una coppia di sposi ha proposto ai giovani una lectio-testimonianza a partire dal brano di Genesi 2. Nella seconda serata i giovani si sono posti accanto a Mosè davanti allo spettacolo luminoso del roveto ardente. Nella terza serata al centro è stato il fascino della Parola di Gesù («Seguimi»), che sprona Matteo ad alzarsi (un verbo ormai così familiare ai giovani dopo la Gmg di Lisbona) e a trasformare la vita.
Nella Zona pastorale V l’Arcivescovo, monsignor Mario Delpini, ha predicato a Sovico. Pubblichiamo il video della meditazione della terza serata.

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da Vita e Pensiero

Milano,

città di Ambrogio e di Agostino

01.01.1970
di Marta Sordi
Agostino venne a Milano nel 384, come retore imperiale sollecitato dalla corte al prefetto di Roma, che era allora il famoso Simmaco, che probabilmente fu ben lieto, all’indomani del famoso scontro con Ambrogio per l’ara della Vittoria, di creare imbarazzi, con l’invio di un eloquente manicheo, al suo amico-nemico vescovo. Vi rimase fino al 387 quando, dopo aver ricevuto il battesimo, tornò a Roma e poi in Africa.
Egli fu a Milano nel periodo in cui Milano era capitale dell’impero: non soltanto una delle capitali, come era avvenuto fin dal 286, con l’avvento della tetrarchia, a causa dell’accresciuta importanza militare della città, della sua vicinanza alle frontiere e dei suoi ottimi collegamenti stradali, ma la capitale di fatto dell’Occidente: tale era diventata sin dal 365 con Valentiniano I, che, dividendo l’impero con il fratello Valente, aveva scelto per sé Milano, mandando il fratello a Costantinopoli (Amm. Marc. XXVI, 5,4), Con Valentiniano Milano aveva veramente sostituito, di fatto se non di diritto, Roma: i processi di Valentiniano, anche quelli che riguardano personaggi di provincie lontane, come l’Africa, si celebrano a Milano e a Milano, sede stabile della corte, vengono anche da lontano coloro che intendono mettersi in vista e fare carriera politica, come gli amici venuti con Agostino dall’Africa, Alipio e Nebridio.
Della Milano del 291 Mamertino aveva detto, in un panegirico, che Roma le aveva concesso generosamente, per qualche giorno (quello della visita alla città di Diocleziano e Massimiano) «qualche somiglianza con la sua maestà»; della Milano di Valentiniano Ausonio dice che «tutto in lei eccelle per grandezza di forme quasi gareggiando: e non la opprime la vicinanza di Roma».
La presentazione che Ausonio dà, nell’Ordourbium nobilium della Milano del suo tempo, che è quello di Agostino e di Ambrogio, è breve (10 versi), ma vivace e stimolante: è l’immagine di una città opulenta, piena di case belle e numerose, dotata di un circo, di un teatro, di terme, di templi, nobilitata dal Palazzo imperiale, fornita di una zecca, di bei porticati ornati di statue, cinta di mura, abitata da una popolazione culturalmente e umanamente ricca: facunda virorum ingenia et mores laeti.

La vita di Milano attraverso corrispondenze epistolari

Oltre ad Ausonio sono gli scritti di Ambrogio, in particolare il De Nabuthe e il De Tobia, riguardanti i problemi della ricchezza e della povertà, dell’usura, del lusso, che ci forniscono indizi sulla società e la vita milanese nella seconda metà del IV secolo; ma sono soprattutto le lettere di Ambrogio che ci illuminano su aspetti molteplici, e non solo ecclesiali, della Milano di quest’epoca.
A parte le lettere indirizzate a corrispondenti ecclesiastici abituali, come Simplicio, Oronziano, Ireneo, le quali più che a una vera corrispondenza fanno pensare a trattatelli esegetici, e a parte le lettere pastorali indirizzate al clero di Milano o ad altri vescovi, come quelle a Vigilio vescovo di Trento, alle chiese di Emilia sulla data della Pasqua, alla chiesa di Vercelli, afflitta da controversie interne, a Siagrio, vescovo di Verona per la vergine Indicia, al vescovo Marcello, coinvolto in un processo per la divisione dei beni, al clero di Tessalonica e ad Anisio, successore di Acolio e a Teofilo vescovo di Alessandria per lo scisma di Antiochia, appaiono particolarmente importanti le lettere agli imperatori, le lettere alla sorella Marcellina, dalle quali siamo informati di prima mano e ancora a caldo, nel marzo e nell’aprile del 386, della controversia con la corte sulle basiliche (e nel dicembre del 388 dell’incidente di Callinico) e le lettere indirizzate a corrispondenti laici, quasi tutti membri della classe dirigente imperiale: come Studio, un magistrato preoccupato della liceità per un cristiano di pronunziare ed eseguire la pena di morte, come Paterno, un alto funzionario di Teodosio, invitato a rispettare le disposizioni dell’imperatore e a non imporre il figlio il matrimonio con una consanguinea, come Taziano, a cui vengono fatti presenti i vantaggi della promozione a prefetto di Oriente del suo nemico Rufino, come Polibio, un ex proconsole d’Africa, per il quale Ambrogio scrive una lettera di presentazione per due colleghi, vescovi (sembra) delle Gallie, come gli amici bolognesi di Ambrogio, Eusebio e Faustino, legati ad Ambrogio e a Marcellina da una vecchia amicizia che risale certamente alla giovinezza romana. Spesso si tratta dello scambio di officia, di favori, caratteristici dei rapporti interni dell’aristocrazia senatoria romana a cui Ambrogio apparteneva; altre volte di lettere più direttamente collegate con l’impegno pastorale del vescovo, come le lettere a Sisinnio, riconciliato col figlio e con la nuora e quelle già ricordate a Paterno e al figlio Cinegio o quella al vescovo Marcello, destinate tutte a risolvere controversie familiari.
Da tutte queste lettere, che riguardano Milano o che comunque partono da Milano, emerge un quadro di vita quotidiana e di situazioni concrete, che illuminano spesso meglio delle fonti storiche o ufficiali la società di Milano capitale.

Ambrogio e Milano

La coincidenza fra la nostra conoscenza della Milano di Ambrogio e la nostra conoscenza di Ambrogio non è certamente casuale. Come si è già detto, fu solo con Valentiniano I che Milano sostituì effettivamente Roma come sede stabile della corte e l’ascesa di Ambrogio all’episcopato di Milano avvenne, come è noto, nel 374, sotto l’impero di Valentiniano I: il momento della massima espansione della Chiesa milanese coincide dunque col momento della massima importanza politica della città. Di questa Milano dei Valentiniani e di Ambrogio vorrei cogliere due momenti di vita, di cui Ambrogio fu protagonista insieme al suo popolo: quello dell’elezione e quello dello scontro con la corte per le basiliche.
Motivi politici influirono forse nell’elezione di Ambrogio: le fonti, contemporanee e bene informate, sono concordi nel parlare di elezione popolare e non c’è motivo di contestare l’affermazione secondo cui Ambrogio, che in funzione del suo ufficio di governatore imperiale (consularis) dell’Aemilia e della Liguria era entrato nella basilica per calmare i fedeli divisi sulla scelta del successore da dare al defunto Aussenzio, fu all’improvviso acclamato vescovo dalla folla unanime. Rufino parla di d’amar e di vox, Paolino aggiunge che si trattò della voce di un bambino.
La convinzione che la divinità si esprimesse di preferenza attraverso bambini innocenti è comune nell’antichità a pagani e a cristiani, ma la capacità di organizzare il consenso della folla, mescolando ad essa agenti provocatori, quando ciò fosse suggerito dall’interesse politico, è altrettanto diffuso nell’antichità sia greca sia romana. E, nel caso dell’elezione di Ambrogio l’interesse del governo imperiale era abbastanza evidente. Milano era la capitale dell’impero e la sede della corte e l’episcopato dell’ariano Aussenzio, che era stato imposto da Costanzo II e che era stato condannato da un concilio tenuto a Roma sotto papa Damaso, divideva profondamente la città, in cui il popolo, a differenza del clero, era in maggioranza cattolico. Valentiniano era cattolico, ma si faceva un punto di onore di rispettare la libertà religiosa di tutti (Cod. Theod. IX, 16,9) e di non interferire, essendo laico, nelle questioni teologiche, da lui ritenute di competenza esclusiva dei sacerdoti (Sozom. VI, 7; cfr Ambros. Ep. 21,2).
Finché Aussenzio era stato vivo, egli l’aveva lasciato pertanto sulla cattedra episcopale e aveva anzi allontanato da Milano Ilario che era venuto per accusarlo. È probabile però che egli fosse preoccupato, soprattutto per motivi di ordine pubblico, di assicurare una successione pacifica e che avesse cercato di prepararla. È interessante a questo punto ricordare l’augurio con cui, sempre secondo Paolino, Sesto Petronio Probo, uomo di fiducia di Valentiniano e prefetto del pretorio dell’Italia, dell’Illirico e dell’Africa, aveva accompagnato Ambrogio quando nel 370 lo aveva inviato come consularis a Milano: Vade, age, non ut iudex sed ut episcopus (Vai e comportati non come giudice, ma come vescovo). Più che un presagio felicemente avverato, questo sembra un disegno preciso, un programma politico; sullo stesso piano sembra da valutare l’immediata approvazione con cui Valentiniano, sempre secondo Paolino, accolse la notizia dell’elezione episcopale di Ambrogio, esprimendo la massima gioia «perché i giudici da lui mandati erano richiesti per il sacerdozio».
Appartenente a famiglia cattolica, molto vicina agli ambienti ecclesiastici romani (la consacrazione di Marcellina, sorella di Ambrogio, era stata presieduta dallo stesso papa Liberio), Ambrogio, la cui carriera politica era stata incoraggiata da Probo, doveva apparire a Valentiniano non solo una persona politicamente sicura, ma anche e soprattutto (essendo un laico proveniente dai ranghi dell’amministrazione imperiale e non dalle controversie ecclesiastiche) un uomo accetto alle parti in lotta e in grado di non inasprire il conflitto teologico.
L’iniziale, durissima resistenza di Ambrogio e la sua accettazione dell’elezione solo dopo che l’imperatore gli promise «quietem futuram, si electus susciperet sacerdotium» (Ep. 21,7), rivela che egli era ben consapevole del complesso gioco politico che stava dietro la sua elezione e che volle assicurarsi la piena libertà di azione nell’esercizio dei suoi nuovi doveri.
Di questa piena libertà e di questa autonomia davanti al potere Ambrogio dette prova, oltre che nella controversia con Simmaco per l’ara della Vittoria, a cui abbiamo già accennato, nel più grave scontro con gli ariani per le basiliche. In questa occasione il conflitto di Ambrogio con la corte fu diretto, perché in esso fu coinvolta la madre dell’imperatore, il giovane Valentiniano II, l’ariana Giustina.
Dalla fine del 384 era ospite della corte Mercurino Aussenzio, vescovo ariano di Durosturum, che Teodosio aveva deposto; egli aveva riorganizzato a Milano una comunità ariana. Sin dall’inizio del 385 la corte aveva chiesto ad Ambrogio di cedere una basilica agli ariani, ma Ambrogio aveva rifiutato con l’appoggio del popolo. Alla fine dell’anno, però, la corte, che si era momentaneamente trasferita ad Aquileia, era tornata a Milano e una costituzione imperiale del 23 gennaio 386 (Cod. Theod. XVI, 1,4) aveva proclamato la libertà di culto per gli ariani, minacciando la pena di morte per chi avesse cercato di impedirla anche con suppliche.
La basilica richiesta perché gli ariani potessero svolgervi le loro riunioni ed esercitare la loro «libertà di culto» era la basilica Porziana, che alcuni identificano con S. Vittore al Corpo, altri con S. Lorenzo. Ambrogio rifiutò e occupò col popolo la basilica iniziando uno scontro memorabile con la corte, dal quale, grazie anche all’appoggio massiccio del popolo, che egli intrattenne nella basilica occupata con i suoi inni e le sue omelie, e nonostante l’assedio dei soldati, egli usci vittorioso.
Le vicende di questo scontro, che è anche una pagina estremamente viva di storia milanese di una storia di cui sono protagonisti, insieme, il vescovo e il popolo, ci sono note, oltre che dal Sermo contra Auxentium, da due lettere dello stesso Ambrogio, l’ep. 21 a Valentiniano, del marzo del 386, e l’ep. 20 dell’aprile del medesimo anno alla sorella Marcellina, che, non trovandosi a Milano durante i fatti, aveva chiesto, preoccupata, notizie al fratello. Agli stessi fatti allude anche, in un passo delle Confessioni, Agostino che ne fu spettatore.
Nella lettera a Valentiniano Ambrogio rifiuta di discutere la controversia nel consistorium, alla presenza dell’imperatore dopo essersi scelto dei giudici al pari di Aussenzio, in nome di una disposizione di Valentiniano I, secondo cui in questioni riguardanti la religione i sacerdoti dovevano essere giudicati solo da sacerdoti (ib. 5); Aussenzio e i giudici da lui scelti — dice Ambrogio vengano pure in chiesa, ascoltino insieme col popolo, e se il popolo, dopo averlo ascoltato, riterrà Aussenzio superiore ad Ambrogio nell’esporre le sue ragioni, segua pure la sua fede (ib. 6). In realtà il popolo ha già scelto (ib. 7) e Ambrogio non può andare al Concistoro, perché sia i vescovi (probabilmente quelli delle città vicine, di cui Ambrogio aveva chiesto l’appoggio), sia il popolo non glielo permettono: essi sostengono che le discussioni riguardanti la religione devono farsi nell’assemblea, davanti al popolo (ib. 17). «D’altra parte, egli conclude (ib. 20), io non posso mettermi a questionare a palazzo, perché io gli intrighi di palazzo, né li cerco, né li conosco».
La lettera 20 è dell’aprile e, essendo scritta a Marcellina, ci conserva della vicenda e della sua conclusione una versione certamente meno ufficiale, ma più immediata e colorita: il problema non riguardava ormai più solo la basilica Porziana, che era fuori delle mura, ma la basilica nuova, che si trovava entro le mura ed era la maggiore (21, 1). La basilica nova (distinta dalla vetus, che sorgeva vicino al battistero di Santo Stefano, nell’area del Duomo) è identificata ormai con S. Tecla, presso lo stesso Duomo. Alla richiesta dell’autorità di consegnare la basilica, Ambrogio aveva risposto «che un vescovo non può cedere un tempio che appartiene a Dio». Il giorno dopo venne anche il prefetto del pretorio e fece opera di persuasione «perché almeno ci ritirassimo dalla basilica Porziana. Ma il popolo protestò a gran voce, cosicché il prefetto se ne dovette andare, dicendo che avrebbe fatto rapporto all’imperatore». La tensione aumentò nei giorni successivi: la domenica, mentre Ambrogio celebrava la messa (nella basilica nova) e gli inviati della corte stendevano le cortine per indicare la requisizione della basilica, un certo Castulo, sacerdote degli ariani, fu aggredito e sequestrato dalla folla e liberato solo per l’intervento di Ambrogio. Durante la settimana santa la corte cercò di scoraggiare e di dividere il popolo colpendo con multe altissime i commercianti, ma né questa né altre minacce ebbero effetto e riuscirono solo ad aumentare la protesta popolare.
La situazione poteva da un momento all’altro sboccare in un massacro: «Io inorridivo, scrive Ambrogio alla sorella, sapendo che erano stati spediti degli armati ad occupare la basilica; durante la requisizione poteva avvenire qualche scempio, che avrebbe avuto come conseguenza la rovina di tutta la cittadinanza. Chiedevo al Signore la grazia di non sopravvivere al rogo di una città così grande, anzi al rogo di tutta l’Italia». E affronta direttamente, con l’autorità dell’antico consularis, i soldati Goti: «L’autorità di Roma vi ha preso al suo servizio, perché diveniste complici di pubblici disordini?» (ib. 9). All’alba del mercoledì santo (1° aprile del 386), mentre la basilica nova era circondata dalle truppe e il popolo si era riversato in massa in tutte e due le basiliche (la nova e la vetus), per ascoltare le letture, la resistenza dei soldati comincia a vacillare e si viene a sapere che alcuni di essi hanno informato l’imperatore che gli avrebbero obbedito solo se l’avessero visto con i cattolici alle sacre funzioni (ib. 11); poi ordinatamente, molti di loro cominciano ad unirsi al popolo, dichiarando che erano venuti per pregare e non per usare le armi. La corte esasperata accusa Ambrogio di usurpazione politica: è questo il significato del termine tyrannus del par. 22, Alcuni ragazzi, per scherzo, strappano le cortine imperiali e la situazione diventa sempre più grave: nella notte Ambrogio non può tornare a casa e resta bloccato con il popolo nella basilica minore (la vetus), occupato nella recita dei salmi. Al giovedì santo, improvvisamente, mentre Ambrogio legge il libro di Giona e ricorda che Dio aveva allontanato la distruzione che sovrastava Ninive, giunge la notizia che l’imperatore aveva dato ordine ai soldati di lasciare la basilica e di fare restituire ai mercanti le somme, che erano stati condannati a pagare; il popolo esulta, scoppiano gli applausi. I soldati facevano a gara nel comunicarsi la notizia e si precipitavano verso l’«altare baciandosi e recando il segno della pace» (ib. 26). «Allora compresi — conclude Ambrogio scrivendo alla sorella e riprendendo il ricordo del libro di Giona — che il Signore aveva ucciso il verme antelucano, affinché tutta la città fosse salva».
Ho riassunto con una certa ampiezza la lunga lettera di Ambrogio, perché nessun’altra pagina più di questa ci permette forse di cogliere dal vivo l’anima della Milano romana, di quella Milano di cui Ausonio ricorda i laeti mores e i facunda ingenia.
Fu in questa atmosfera di forte entusiasmo religioso che avvenne, nell’estate del 386, la conversione di Agostino.
Marta Sordi
Marta Sordi (Livorno, 18 novembre 1925 – Milano, 5 aprile 2009) è stata una storica italiana. Si formò all’Università degli Studi di Milano, dove conseguì la laurea in Lettere sotto la guida di Alfredo Passerini. Marta Sordi fu poi ricercatrice presso l’Istituto italiano per la storia antica di Roma, allieva di Silvio Accame. Dal 1962 iniziò a insegnare all’Università di Messina; nel 1967 passò all’Università di Bologna e infine, dal 1969 fu all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in qualità di docente ordinario di Storia greca e Storia romana fino al 2001 e diresse l’istituto di Storia antica della facoltà di Lettere e filosofia. Fece parte dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere e dell’Istituto di Studi Etruschi.

3 Commenti

  1. Martina ha detto:

    E poi ci domandiamo perché la maggior parte della gente va a brucare l’erba altrove? Perché corrono tutti a seguire questa altra moda dall’Oriente?
    Ma cosa c’è qui da noi?
    Quando un vescovo fa delle barzellette quando in realtà dovrebbe continuare il cammino di S. Ambrogio… è evidente che la gente non ha punti di riferimento e se ne va altrove.
    Figli della stessa pasta Scola, Delpini.
    Forse il loro esempio era proprio Berlusconi che anche lui si divertiva a dire barzellette.
    È giusto così, chi è maturo può seguire don Giorgio e chi come lui, guide che portano e puntano a una rinascita interiore, a percorrere un cammino che è spirituale in mezzo a questa pochezza desolante.

  2. Manfredi ha detto:

    In effetti il vescovo fa discorsi un po’superficiali che vanno bene per tutte le pietanze. Tra l’altro la seconda parte è uguale alle cose che dice Ravagnani (non so chi dei due ha copiato dall’altro).
    Tuttavia chi trovo proprio privo di contenuto è Papa Francesco. Al des negot. Non mi ricordo una sola cosa che ha detto in tutto il pontificato, tranne quella volta in cui disse che i messaggi di Medjugorie non hanno tanta importanza. Tutto il resto talmente banale e imbarazzante che uno sente e non ascolta nemmeno.

  3. simone ha detto:

    Tre serate surreali. La prima con una coppia di sposi da 4 anni che, sinceramente, non ho capito cosa volessero condividere della loro breve esperienza. Premetto che io ho 40 anni e 12 di matrimonio alle spalle più una figlia di 11 anni e, correttamente, non ero l’interlocutore scelto per quelle serate rivolte a giovani dai 18 ai 30 anni ma non ho capito cosa volessero condividere. Le altre due piatte, piatte, piatte e ancora piatte. Non c’è stata quella scintilla, quel brivido, quella passione. Anche i canti, la partecipazione mi è sembrata ingessata.
    Qualche anno fa ho partecipato e servito tre analoghe serate e devo dire, furono molto più incisive e fruttuose per me e credo anche per i ragazzi.
    Che mi tocchiano poco è obiettivamente un buon segno perchè, forse, sono qualche passo più avanti rispetto al cammino di persone più giovani di me ma mi è sembrato tutto surreale. Ragazzi poco presenti, poco lucidi, poco vivi. Ho sempre l’idea che siano lì per compiacere al prete, ai genitori ma rimangano sempre poco coinvolti, tiepidi, direi sulla soglia. Certamente anche a causa di una parola poco stimolante, poco profonda che non sa coinvolgere.
    Oggi la tiepidezza è uno dei mali che sta distruggendo questa società. Si accetta tutto e nulla ci scandalizza più. Fa bene don Giorgio a lottare, gridare, arrabbiarsi davanti alle cose che non vanno e a cui tutti non danno più peso. La sua passione e il suo interesse…se l’avessi intravista in una di quelle sere non avrei scritto questo commento.
    Serate glaciali! Io non sarei riuscito a sopportare questa freddezza e distacco; sarei uscito dopo pochi minuti ogni sera.

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