Omelie 2024 di don Giorgio: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA

4 febbraio 2024: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Os 6,1-6; Gal 2,19-3,7; Lc 7,36-50
Il primo brano meriterebbe una lunga analisi, anche per inquadrarlo nel contesto storico, ma, non solo per il poco tempo a disposizione, lo scopo delle omelie è anzitutto didattico nel senso spirituale, per aiutare i credenti ad approfondire la propria fede nel Mistero divino.
Il brano del profeta Osea, pur nella sua brevità, ci offre la possibilità di fare qualche riflessione anche per noi, credenti di oggi.
A quanti sembrano disposti a tornare al Signore, sicuri di essere di nuovo perdonati, Osea in quanto profeta immagina la sua dura risposta: «Voi dite: “affrettiamoci a conoscere il Signore”, ebbene dubito della vostra sincerità; voi dite: “la sua venuta è sicura come l’aurora; verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra”, ebbene, usando anche io delle immagini, vi dico: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce”.
E poi il Signore arriva al cuore del problema religioso: “Voglio misericordia e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti». Parole che Matteo riprenderà in due occasioni diverse, mettendole in bocca a Gesù stesso.
La prima occasione è quando l’Evangelista descrive l’invito perentorio di Gesù a seguirlo. Levi, chiamato anche Matteo, era un esattore delle tasse per conto dell’autorità imperiale romana: per ciò stesso, era odiato dai Giudei in quanto collaborazionista e ritenuto un pubblico peccatore perché esigeva più dello stretto necessario (i Romani lo permettevano). Ai farisei scandalizzati perché con i suoi discepoli si era recato in casa di un pubblico peccatore per partecipare a un banchetto, Gesù risponde: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”…».
La seconda citazione di Osea la si trova, sempre nel Vangelo secondo Matteo, in un altro contesto, ancor più polemico, quando Gesù è costretto a difendersi a proposito dell’osservanza del sabato, che i farisei ritenevano sacro e inviolabile più della dignità della persona umana: «Se aveste compreso che cosa significa: “Misericordia io voglio e non sacrificio”, non avreste condannato persone senza colpa».
Passiamo al brano di Paolo, che nella lettera ai cristiani della Galazia dice: «Mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me».
L’idea di fondo è sconvolgente, anche se Paolo non fa altro che esplicare il messaggio di Cristo. Occorre anzitutto attenzione: l’identica parola “legge” ha due significati anche contrapposti; indica la legge divina e indica la legge umana. Ma anzitutto che cos’è per Paolo la legge divina? È la Grazia, la legge dello Spirito santo. Per legge umana Paolo intendeva la legge farisaica o religiosa. Paolo è chiarissimo: per lui la legge umana è morta, non vale più, ciò che conta è la legge dello Spirito, ovvero la Grazia. C’è di più: sulla croce è morta ogni legge umana: mentre muore, Cristo dona la legge dello Spirito, ovvero la Grazia. Ecco perché scrive: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io (l’io è morto sulla croce), ma Cristo vive in me (nel dono del suo Spirito, ovvero nella Grazia).
Paolo continua: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Dunque, non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge (umana), Cristo è morto invano».
Dunque, dice Paolo: se vivo nella fede nel Cristo morto e risorto, non vanifico la grazia di Dio; ma se do ancora importanza alle leggi umane anche quelle stabilite dalla religione allora rendo vana o inutile la morte di Cristo. Sulla croce c’è la sconfitta della religione, e se seguo ancora la religione anche io sono sconfitto.
Poi l’apostolo in modo accorato si rivolge ai Galati: «O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso! Questo solo vorrei sapere da voi: è per le opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver ascoltato la parola della fede? Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?».
Riflettiamo: sempre si inizia magari bene, partiamo con buoni propositi, e poi si finisce nel segno della carne… La fede, anche la più sincera, finisce per farsi consumare dalla carne di una religione che fa perdere il ben dell’intelletto.
Stolti, incantati da chi e da che cosa? L’unico incanto o meraviglia o stupore è quel Mistero che ci cattura nel nostro spirito, che si purifica al contatto con il Mistero divino.
San Paolo mette da una parte le opere della legge umana, e dall’altra la legge della Grazia che è la Legge dello Spirito santo. «Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?», parole che risuonano sempre, anche e soprattutto oggi, come duro monito.
Già il Pellegrino, che si era affiancato ai due discepoli che delusi stavano tornando a casa, li aveva rimproverati: “Stolti e tardi di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti…”.
Ci resta da commentare il terzo brano, che racconta un episodio che ha sempre fatto discutere anche gli esegeti. A noi interessano le ultime parole di Gesù alla donna peccatrice: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».
Ogni qualvolta Gesù aveva a che fare con pagani, peccatori e peccatrici, era sempre motivo di scandalo per i ben pensanti ebrei di allora, perché sapeva vedere in profondità, con intelligenza divina, parole e gesti di quanti sembravano perduti agli occhi della società che giudica sempre dalle apparenze.
Siamo al solito punto: è tutta una questione di vedere: i carnali, come direbbe san Paolo, vedono con gli occhi fisici, mentre gli spirituali vedono con gli occhi dello spirito. Chi ha fede, vede la realtà, chi non ha fede vede solo le apparenze. Non è questione di essere religiosi o atei, è solo questione di intelletto, e allora ha sempre ragione Carlo Maria Martina quando distingueva gli uomini/donne non tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. Coloro che pensano usano l’intelletto attivo, che è in ciascuno, che talora e spesso è sostituito dall’intelletto passivo, quello che subisce i condizionamenti dell’ego. Meriterebbe un lungo discorso la presunzione di chi crede di essere giusto solo perché obbedisce a un ego che aliena, porta fuori, allontana dal mondo del Divino, che è Intelletto puro.
Pensare con l’intelletto attivo che è illuminato dall’Intelletto divino è vedere le cose come stanno, entrare nel mondo del Divino: il pensante trova sempre la strada giusta, anche quando avesse deviato per altre strade. Si torna in sé, si riprende a pensare e la Grazia divina è sempre pronta a rimetterci in carreggiata.

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