Paura delle macchine o delle responsabilità?

da rivista.vitaepensiero.it

Paura delle macchine 

o delle responsabilità?

29.03.2025
Dopo i contributi di Berardinelli, BartolomeiManguelRiva, il dibattito si chiude con lo scrittore Giuseppe Lupo.
di Giuseppe Lupo
Da un bel po’ di tempo il grande tema del confronto tra umanesimo e tecnologia non riceveva così tanta attenzione come in queste ultime settimane, quando l’ingresso di Elon Musk nell’amministrazione statunitense ha riavviato il discorso sulle macchine come forme di ingerenze nella vita naturale degli uomini e come manifestazione orwelliana di controllo. Il discorso è antico quanto la nostra presenza sulla terra e non è escluso che già all’affacciarsi delle prime, rudimentali ipotesi di progresso, a cominciare dalla ruota, qualcuno si sarà ritratto in uno sguardo di sospetto.
Non è da qui ovviamente che deve cominciare la riflessione su questo argomento, piuttosto dal domandarci noi – in termini pratici e in termini etici – ragione di quel che cerchiamo nelle macchine, nelle funzioni che eseguono, nei linguaggi a cui obbediscono. Si tratta di capovolgere la domanda: non cosa temiamo dal loro buono o cattivo funzionamento, ma cosa ci aspettiamo dal loro funzionare, solamente un supporto pratico/utilitaristico o se invece un aiuto nel risolvere i problemi, nel sopperire alle nostre mancanze? Diciamolo meglio: nel sostituirci quasi ovunque nelle funzione che riteniamo monotone, addirittura nel controllare se la porta di casa è chiusa o se la lavastoviglie è spenta. L’impressione è che si trovi qui il punto nodale di questo rapporto mai del tutto chiarito con le macchine: sospettiamo che il loro operato getti delle ombre sulla nostra libertà, però vogliamo che ci sostituiscano e poi, quando ciò avviene, insorgiamo contro la loro perizia dimenticando che esse non sono altro che il nostro ritratto, com’è giusto che sia ogni qualvolta si instauri un rapporto tra creatura e creatore.
Le macchine somigliano a noi che le abbiamo immaginate e inventate. Sono la controfigura delle nostre aspirazioni e non ce ne liberiamo semplicemente spegnendo un interruttore perché in noi rimane qualcosa di cui ci siamo volontariamente privati e che abbiamo delegato alle loro funzioni. Un tempo avevamo il senso dell’orientamento, adesso lo abbiamo perduto totalmente o in parte perché ci fidiamo di Google maps. Questo non è che un esempio eppure, proprio per la sua banale conclusione, ci riconduce al vero cuore di questa riflessione che è quello di considerare qualsiasi manifestazione tecnologica la promanazione di un nostro bisogno, perfino quello più innaturale come la tentazione di cedere all’oblio, di lasciarsi andare alla dimenticanza, non nascondendo il più inconfessabile dei segreti che è quello di volerci deresponsabilizzare (nel senso di liberarci dalle responsabilità dell’esistenza), dismetterci da quelle impalcature burocratiche che chiamiamo Storia e affidare alle macchine perfino il privilegio di pensare com’è, appunto, l’IA.
Questo processo di autoderesponsabilizzazione in apparenza richiama quella «rinuncia ai diritti e alle responsabilità che accompagna ogni atto intellettuale e creativo» di cui parla Albert Manguel nel suo intervento Intellettuali: umanisti vs. tecnocrati, ma contiene una sua specificità perché – e qui davvero il nostro perverso e spregevole progetto di dimissioni trova la sua pietra di inciampo – sono le stesse macchine, sulla cui fedeltà ossessivamente confidiamo per attuare il nostro scellerato programma di dissipatori, a richiamarci all’ordine, a inchiodarci alle nostre responsabilità di creatori in crisi di identità. Al contrario di quel che indicano le voci di allarmi, i limiti che le macchine non riescono a superare ricordano esattamente quanto sia vano il nostro ragionare per delega. Prendiamo proprio l’IA, quella che sta sollevando allarmi. Sarà in grado di assemblare in maniera sublime l’infinità di informazioni che è stata elaborata nei secoli di presenza umana sulla terra. Sarà capace come nessun’altra forma pensante al mondo di avere sotto controllo l’enorme magazzino di dati, ma si tratta di un pensiero passivo, non in grado di sviluppare alcuna forma originale di creatività. Lavora sul già esistente, ma non estrae nulla dal regno dell’inesistenza per farne materia creativa.
Se ciò consente a noi uomini di sentirci superiori all’IA è un’appendice al discorso ed è un elemento tutto sommato secondario. Quel che è sicuro, però, è che nessuna IA sarà mai in grado di immaginare la Cappella Sistina di Michelangelo o la Commedia di Dante. E questo è un primato che, malgrado le buone intenzioni a uscire noi uomini dalla condizione di esseri pensanti per affidarci alle macchine pensanti, malgrado i tentativi di delega, tocca soltanto a noi e a nessun altro.

Giuseppe Lupo
Giuseppe Lupo, scrittore e saggista è Professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia. È autore di romanzi e saggi, con cui ha vinto numerosi premi letterari, fra cui il premio Viareggio-Repaci e il premio Selezione Campiello, collabora alle pagine culturali di «Avvenire» e del «Sole 24 Ore». Tra i suoi ultimi libri ricordiamo: “Atlante immaginario” (2014), “L’albero di stanze” (2015), “La letteratura al tempo di Adriano Olivetti” (2016), “Gli anni del nostro incanto” (2017) e “Breve storia del mio silenzio” (2019).

Commenti chiusi.