Un Vescovo che non conosce i veri problemi della città di Milano e tanto meno i gravi problemi della sua Diocesi
Un Vescovo che non conosce
i veri problemi della città di Milano
e tanto meno i gravi problemi della sua Diocesi
Mi sarebbe facile e nello stesso tempo anche difficile commentare le risposte di Mario Delpini, arcivescovo di Milano, alle domande dei due giornalisti.
Anzitutto, la descrizione che Delpini fa della Milano di oggi non mi pare molto diversa dalla situazione, quando ero prete a servizio pastorale della parrocchia S. Giuseppe, allora la più grossa di Sesto San Giovanni. Erano gli anni dal 1974 al 1983.
La descrizione della Milano di oggi mi sembra molto scontata. Quasi nulla di nuovo. O, meglio, c’è una differenza notevole: allora, quando ero a Sesto, i giovani c’erano, eccome, oggi non ci sono più. Perché?
Allora non c’erano gli extracomunitari, ma i meridionali, che creavano problemi come gli extra di oggi. Più o meno. Anche allora c’erano ghetti. Integrare i bambini meridionali è stato un mio quotidiano impegno con il Doposcuola sociale: quasi cento bambini e ragazzi in 3 aule, ogni pomeriggio di ogni settimana. Allora c’era il terrorismo nostrano. Anche allora c’era il volontariato, e per prime erano le amministrazioni comuniste a sostenerlo, anche se era di marca cattolica.
Fatte queste dovute precisazioni, ho capito una cosa dalle risposte di Delpini: che egli non conosce bene la realtà di Milano, se non per quanto di facciata gli fanno vedere.
Vorrei dire di più. Non capisco che cosa Delpini intenda quando parla di anima o di spiritualità da ridare alla città di Milano. Chiarisca meglio, o, forse, non è necessario: penso di aver almeno intuito una cosa, ovvero che Delpini abbia idee confuse in testa, quando parla di spiritualità. E ciò fa paura…
E poi non esiste solo la città di Milano. La Diocesi è grandissima: ha problemi enormi di ogni genere. Ma Delpini sembra non rendersene conto. Non ascolta nessuno, neppure quando lo si consiglia che dovrebbe fare scelte radicali, e non fare il solito prezzemolo, sempre presente ovunque, ma senza incidere nella sostanza.
Non dico altro, ne avrei comunque, ma mi ripeterei.
Lascio ai lettori dire la loro.
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da IL SEGNO – Maggio 2023
“Una città del buon vicinato.
Ecco i miei sogni per Milano”
I (pochi) giovani e il loro non pensare a diventare adulti; la solitudine “come una condanna” per gli anziani; e poi la casa, l’integrazione dei migranti, i rapporti con gli enti pubblici. A visita pastorale quasi conclusa, monsignor Delpini racconta la metropoli di oggi.
di Fabio Landi e Pino Nardi
«I miei tre sogni per Milano? Che sia una città dell’anima, della piazza e del buon vicinato». Sta per terminare la lunga visita pastorale che l’arcivescovo, mons. Mario Delpini, ha condotto parrocchia per parrocchia in oltre un anno e mezzo. In questa intervista al Il Segno traccia un primo bilancio su quale metropoli ha incontrato e annuncia l’impegno della Diocesi sulla Milano del futuro. «Vorremmo avviare anche un gruppo di persone qualificate nei diversi settori – che una volta chiamavano i Dialoghi di vita buona – che possa condividere con me qualche aspetto di questa lettura della città e renderla più profonda e costruttiva».
Ha definito la sua visita pastorale un pellegrinaggio alla ricerca di quello che abbiamo perduto e quello che sta preparando il futuro della città. Ha usato l’immagine evangelica della donna che cerca la moneta preziosa perduta e per questo mette a soqquadro la case. Qual è il primo bilancio di questa ricerca?
«Ho trovato tanti tesori, monete molto preziose che costituiscono il modo con il quale la città è un luogo di scambio di doni e servizi. Soprattutto nelle comunità cristiane ho trovato tanta generosità, laboriosità, attenzione ai bisogni del territorio. In qualche caso non ho trovato quello che cercavo: è la gioia della missione, di annunciare il Vangelo. C’è tanta generosità nell’impegno di assistenza, di servizio, di attenzione alle fasce più fragili e anche tanta creatività. Ma sembra quasi che il Vangelo debba passare come un implicito. Inoltre quello che non ho trovato è la frequentazione della celebrazione eucaristica da parte dei giovani. Assemblee, anche molto numerose, liete, ben curate, ma poco frequentate dalle fasce giovanili».
Una delle questioni fondamentali nella vita di Milano è legata alla casa. Una città che tende ad espellere le fasce popolari più povere e il ceto medio. Come intervenire per affrontare questo fenomeno?
«Questo è un fenomeno troppo complesso e legato a fattori politico-amministrativi, perché possa dare una risposta che orienti. Ho visto l’impegno di riqualificare gli immobili e quindi di renderli accessibili solo a chi ha fasce di reddito alte. Nel contempo c’è molta gente che viene a Milano e che non trova casa. I senza fissa dimora sono aumentati per vari motivi. Tuttavia mi hanno detto che ci sono tante case vuote, abitazioni popolari che si svuotano per la morte o l’invecchiamento degli inquilini. La disponibilità di questi spazi per chi cerca casa è invece molto complessa, per una burocrazia che prolunga le attese e talvolta espone al rischio che gli ambienti vuoti vengano occupati in modo illegale».
Spesso si pensa ancora a Milano come un centro storico Ztl ricco, curato e appetibile anche da investitori stranieri, con intorno una larga periferia marginalizzata e degradata, con molti problemi sociali. Secondo lei è ancora così che si deve leggere la città?
«Credo che la città sia un fenomeno molto complesso e che quindi si debba leggere in modi diversi. In generale, contesto questa immagine di una città fatta di un centro e di una periferia, preferisco parlare di quartieri, quindi di sottounità che hanno spesso anche una loro specifica fisionomia, che non sono di per sé meno confortevoli e desiderabili del centro. Anzi, ci sono ambienti più facili da abitare e anche più accurati di alcune zone centrali. Perciò preferisco parlare di quartieri, che si sono anche fatti una fama di ambienti degradati col tempo, ma che a visitarli adesso sono di qualità e comunque dignitosi. Però questa immagine spaziale è troppo riduttiva. Parlare di Milano vuol dire anche ragionare sui flussi, di gente che viene e che va: gran parte delle persone che lavorano a Milano non abitano nella metropoli. Quindi c’è il tema del tempo della città dei giorni feriali e del fine settimana. Si può parlare di tempi piacevoli e interessanti e di quelli noiosi e deprimenti Poi esistono i non luoghi, che non sono né luogo né tempo, ma terre di nessuno. In tanti posti della città esistono questi parchetti, piazze e vie dove è meglio non andare, dove è facile trovare droga, trasgressione, spazi di illegalità e delinquenza».
Infatti, microcriminalità in aumento, paura in alcuni quartieri, disuguaglianze e marginalità sociali, incuria sono al centro del dibattito pubblico. È solo una percezione della realtà anche per l’uso eccessivo dei social o Milano ha smarrito il suo volto di innovazione e accoglienza?
«Credo che i due aspetti stiano insieme. C’è l’innovazione: vedo i tanti cantieri della nuova linea della metropolitana che si stanno completando e intorno si qualificano le vie e si mettono le piste ciclabili. Quindi, l’innovazione è presente, si concentra naturalmente in alcuni nuovi quartieri che stanno sorgendo. Quindi, non direi che sia finita la capacità innovativa dell’urbanistica milanese. E non mi pare neanche che sia esaurita la capacità di accoglienza di Milano. Tuttavia, c’è l’impressione dell’insicurezza tipica di alcune vie che diventano come isole circondate da una specie di indifferenza».
Oggi a Milano quasi una famiglia su due è composta da una persona sola. Cosa significa fare i conti con questo dato e come viene affrontata questa situazione di diffusa solitudine?
«Ho l’impressione che questo sia uno dei motivi più diffusi di tristezza. La solitudine credo venga scelta in alcune età della vita come garanzia di libertà, come una specie di difesa dal rischio di rapporti stabili. Si tratta della precarietà dei rapporti affettivi, familiari, di comunità. Questa è dovuta proprio alla scelta di non impegnarsi, di non lasciarsi coinvolgere, di non immaginare che sia bello avere una famiglia. In una certa età della vita forse questa è una scelta, ma soprattutto nella vecchiaia diventa una condanna. Le comunità cristiane in gran parte hanno presente questo fenomeno, c’è una forma di attenzione e assistenza alle persone sole, anche nelle proposte di momenti comunitari. Tuttavia il numero di chi è solo è così ampio, così sproporzionato che non ha un’adeguata offerta di compagnia».
Nella visita pastorale una sua attenzione particolare è stata dedicata ai nonni, con una lettera che è stata donata loro. Quale funzione svolgono nella vita quotidiana delle famiglie?
«I nonni sono molto importanti per la loro famiglia, perché offrono quel rapporto intergenerazionale che i nipoti apprezzano tanto. Hanno un ruolo di accoglienza e di supplenza dei genitori, ma anche della trasmissione della fede, di una sapienza umana che figli e nipoti raccolgono volentieri. Inoltre i nonni, i pensionati, sono anche la gran parte dei volontari, perché hanno disponibilità di tempo, competenze, voglia di rendersi utili nella Chiesa e nella società».
Ha incontrato migliaia di giovani della città. Quale generazione si è trovato di fronte?
«Con i giovani sono stati gli incontri più vivaci. Mi hanno colpito alcuni tratti. Il primo è che sembrano su una posizione quasi di “inquisitori” rispetto al Vescovo: la curiosità delle loro domande nasce dall’aspettativa che il Vescovo giustifichi l’essere interprete della tradizione e dell’insegnamento della Chiesa, pur con un atteggiamento di grande cordialità, gentilezza, di gioia di stare insieme. Il secondo tratto è che i giovani sono pochi, almeno quelli che incontro. In questo periodo sento comunque l’aspettativa di andare a Lisbona per le Giornate mondiali della Gioventù, magari con numeri non alti, ma di ragazzi e ragazze molto convinti della proposta del Papa. Una terza caratteristica, che magari non interpreta proprio tutta la popolazione giovanile: percepisco che non sia evidente in loro il desiderio di diventare adulti, di diventare papà e mamma, di desiderare qualche forma di consacrazione. C’è invece la tendenza a preoccuparsi dei loro titoli di studio, delle scelte professionali, delle esperienze in giro per il mondo».
La Chiesa ambrosiana ha vissuto il Sinodo “Chiesa dalle genti” come cifra della comunità cristiana di oggi e di domani. Si può pensare anche a una Milano dalle genti? Quanto sono integrati gli immigrati?
«Il mio punto di vista è piuttosto limitato alle comunità cristiane, nelle quali c’è un livello di integrazione vissuto con una certa naturalezza. Per esempio, nel gruppo dei chierichetti facilmente sono presenti ragazzi e ragazze di diversi Paesi d’origine, così nelle squadre di calcio, nei cori che cantano nelle nostre chiese. C’è un livello invece in cui si vede ancora un’estraneità, per esempio negli organismi di partecipazione delle parrocchie come i consigli pastorali. Nelle varie iniziative di carità mi pare di vedere molto raramente presenze di altri Paesi. Quindi, la Chiesa dalle genti è un cammino da compiere ancora molto impegnativo piuttosto un risultato conseguito. Per ora vedo due tipi di fenomeni: dove si sono concentrati alcuni Paesi d’origine si è creato talvolta una specie di ghetto, di zona uniforme. Invece, dove non c’è una concentrazione e ci sono famiglie di varia origine, l’integrazione è più semplice e anche serena. In generale, salvo alcuni luoghi critici, non mi pare che esistano tensioni dovute alla provenienza da diversi Paesi o dalla pratica di varie religioni o culture».
Al Giambellino ha parlato della necessità di tre rivoluzioni: spirituale, culturale e di legalità. Cosa intende?
«Rivoluzione spirituale vuol dire quel modo di vivere, di pensare, di pregare che coltiva la speranza. Rivoluzione culturale: si può descrivere nel passare dal sospetto verso l’altro al dialogo, alla cultura dell’incontro, al sentire che la differenza di lingua d’origine, di sensibilità, di religione, di livello sociale non è di per sé una barriera che non si può superare. La rivoluzione della legalità consiste in un’interpretazione diversa del rapporto con le istituzioni, di vedere la legge, le forze dell’ordine, l’amministrazione comunale non come un controllo che complica la vita, ma come un’alleanza per vivere insieme».
Io sarò più cattivo rispetto al bell’intervento di Martina ma io non ho ancora visto il cuore, la passione del vescovo Mario. Mi sembra un Vescovo che fa le cose perché deve senza lasciarsi totalmente coinvolgere. Va in giro ma non lascia il segno. Non ci mette tutto se stesso per trovare una forma di incontro di qualità che dia una direzione e lasci il segno. Non è né caldo né freddo; è insipido. E per questo non raccoglie consensi. Ma soprattutto non si fa conoscere non mostra il suo dentro rimanendo poco comprensibile.
Mi dispiace ma è un discreto amministratore…non una guida. Direi un equilibrista che cerca di non creare casini.
Ma siam senza guida, senza anima, senza passione. La Chiesa di Milano è una barzelletta, un controsenso continuo. E lo dico da fedele col cuore sanguinante a causa di questa chiesa…incazzata nero per l’incapacità di dare una testimonianza credibile, attraente.
Il problema, vescovo Mario, sono i preti che si accontentano dei 4 vecchietti adoranti che occupano le loro Chiese. E i laici fanatici che pensano di far carriera nella parrocchia. I Parroci che si accontentano dei conti a posto. Non raccontiamo stronzate. Agli apostoli Gesù ha chiesto di raccogliere i pezzi avanzati “perché nulla vada perduto”. Quante persone hanno perso la strada, il senno? E noi stiamo uscendo a raccoglierli? Chiusi e trimcerati in parrocchia a contare le offerte e a litigare su chi canta e chi legge.
Vergogna!
Son anni che si continua a nascondere polvere sotto il tappeto dimenticando la Parola di Dio. Si venera la tradizione e si dimentica la Parola di Dio.
Questi articoli da finto intellettuale son da cestinare….ci vuole concretezza e umiltà. Bisogna ricominciare ad evangelizzare…la prima evangelizzazione. E dimenticare i disastri commessi in questi ultimi 20 anni.
Leggendo queste parole mi sembrano vuote, poco profonde.
Sapendo come si comportò nei riguardi di don Giorgio 10 anni or sono, non credo che possa essere cambiato l’ora Vescovo Mario Delpini.
Una delle prime differenze che mi fece capire don Giorgio riguarda il “vedere” e il “guardare”. Guardare è qualcosa di superficiale, di frettoloso e anche di poco attento. Vedere è tutt’altra cosa, infatti nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù “vede”. Si usa il verbo “vedere” e non guardare.
Quando si passa solo qualche ora in un posto come si può pretendere di conoscere e vedere la stessa realtà? Una realtà poi che si è venuta a creare non adesso ma da anni, quegli stessi anni in cui don Giorgio lottava con tutte le sue forze e armi possibili contro l’ottusità di una gerarchia ecclesiastica e un potere politico marcio e delinquente. Oggi è lo stesso, se non peggio.
Come si può credere a queste parole?
Un’altra cosa importante: don Giorgio fa spesso notare il continuo andare in giro del Vescovo.
Don Giorgio in tutta la sua vita, e ancora oggi, non ha mai fatto e non fa mai vacanza. Lui è PRESENTE, don Giorgio C’È. Questo significa stabilità, profondità, fermezza, onestà, autorevolezza, giustizia… vuol dire ESSERE. Vuol dire seguire la Verità e viverla sempre, stando e lottando sempre per i più deboli e non per i più bravi o quelli che entrano nelle grazie.
Vuol dire abbracciare l’Umanità intera, vuol dire conoscere la realtà.
Ed infine, la risposta all’ultima domanda è davvero banale.