In difesa della libertà di ricerca e delle università

A woman holds a cardboard sign reading ‘I stand up for science’. In Toulouse, France, on March 7, 2025, more than 1,000 French researchers participate in the ‘stand-up for science day’ launched in the USA after Trump and Musk deride scientists, science, researchers, and social sciences. In solidarity with their American colleagues, scientists all over the world take to the streets to raise awareness about the numerous attacks against science. Trump signs an executive order to remove numerous words from several US sites, including CDC and Education websites. Musk’s Department Of Government Efficiency (DOGE) fires scientists from all science departments or agencies, such as NOAA, CDC, and Education. (Photo by Alain Pitton/NurPhoto via Getty Images)
Manifestazione in favore dei ricercatori e delle Università USA a Tolosa (Photo by Alain Pitton/NurPhoto)
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In difesa della libertà di ricerca e delle università
29 aprile 2025
di: Silvano Tagliagambe
Dal Convegno della Festa di Scienza e Filosofia di Foligno e Fabriano 2025, conclusosi il 13 aprile scorso, proviene il Manifesto ReBrain Europe per un’Europa della Scienza Aperta, ovvero − come si legge nel sottotitolo − la proposta di «accogliere i ricercatori in fuga dagli Stati Uniti e rafforzare la capacità scientifica europea: se l’America volta le spalle alla scienza, l’Europa può e deve aprirle le porte» (cf. il sito ufficiale della iniziativa). Il professor Silvano Tagliagambe, docente emerito di Filosofia della Scienza all’Università di Sassari e tra i promotori della Festa di Scienza e Filosofia presenta qui di seguito le ragioni dell’iniziativa e il manifesto.
Quello che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti è allarmante. In questo Paese, che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per la ricerca mondiale, si sta verificando un progressivo indebolimento delle istituzioni scientifiche federali. Tagli ai finanziamenti, riduzioni di personale nei centri pubblici d’eccellenza, limitazioni alla libertà dei ricercatori: tutto indica una crescente politicizzazione della scienza e una riduzione del ruolo della conoscenza nelle decisioni pubbliche.
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L’ultimo caso eclatante che evidenzia la drammatica piega che stanno prendendo gli eventi in seguito alla determinazione ideologica della nuova destra al potere a Washington è quello dell’università di Harvard. Dopo aver congelato oltre 2,2 miliardi di dollari all’Ateneo, il Presidente americano ha avanzato la possibilità di privarlo anche delle esenzioni fiscali garantite agli istituti di istruzione superiore come simbolo della loro indipendenza: tra sconti sulle tasse e agevolazioni alle donazioni almeno mezzo milione di dollari all’anno.
«Forse Harvard – ha scritto Trump su Truth Social – dovrebbe perdere il suo status di esenzione fiscale ed essere tassata come un’entità politica se continua a promuovere “malattie” ispirate/sostenute da motivazioni politiche, ideologiche e terroristiche?». Il Presidente accusa l’Università di Harvard, come altri atenei americani, di non avere fatto nulla per impedire le manifestazioni a favore del popolo palestinese degli ultimi due anni, schierandosi così di fatto dalla parte dell’antisemitismo.
Che si tratti di un pretesto per coprire la vera finalità che si intende perseguire, la sua battaglia contro la cultura cosiddetta di sinistra – i progressisti che guidano le università e le politiche di diversità, equità e inclusione che orientano anche le assunzioni e le ammissioni degli studenti – lo dimostra quello che lo stesso tycoon ha scritto ancora sui social: «Ricorda, lo status di esenzione fiscale è totalmente subordinato all’agire nell’INTERESSE PUBBLICO!».
In modo ancora più esplicito e diretto durante un briefing alla Casa Bianca la portavoce Karoline Leavitt ha parlato di «efferati criminali stranieri», di «indottrinamento da parte di campus elitari», e si è spinta fino a una difesa a oltranza anche delle trasgressioni più clamorose allo stato diritto, in particolare le azioni extralegali nei confronti di studenti come Mahmoud Khalil e Rumeysa Ozturk e il rifiuto a rispettare la sentenza della Corte suprema su Kilmar Abrego Garcia, il padre di famiglia spedito nel lager salvadoregno, il cui caso dimostra lo sprezzo plateale della sentenza costituzionale che lo riguarda.
«Il presidente Trump», ha detto il portavoce della Casa Bianca Harrison Fields, «sta lavorando per rendere l’istruzione superiore di nuovo grande, ponendo fine all’antisemitismo incontrollato e garantendo che i fondi federali dei contribuenti non finanzino il sostegno di Harvard a pericolose discriminazioni razziali o alla violenza motivata da razzismo».
L’amministrazione Trump ha inviato la sua lettera a Harvard l’11 aprile 2025: in essa viene enunciato quello che si presenta come un vero e proprio piano di rifondazione politica dell’università, articolato in termini ultimativi. Si tratta di un’autentica presa di possesso che include la rimozione del potere decisionale degli studenti e dei docenti precari, l’abolizione totale delle strutture dedicate alla diversità e all’inclusione, un controllo esterno sulla «diversità di opinioni» in ogni singolo dipartimento, e l’imposizione di criteri di assunzione e ammissione esplicitamente modellati secondo un’ideologia unica, da certificare pubblicamente anno dopo anno.
Non solo: a Harvard viene chiesto esplicitamente di segnalare al governo gli studenti stranieri «ostili ai valori americani», e di espellere i partecipanti a proteste studentesche che, a giudizio dell’esecutivo, avrebbero superato i limiti del lecito. Il tutto accompagnato da una dettagliata istruzione su come e da chi dovessero essere condotte le ispezioni, su quali strutture chiudere, su quali dipartimenti ritenere «catturati ideologicamente» e da cui rimuovere i docenti colpevoli di opinioni non gradite.
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La risposta di Harvard, affidata il 14 aprile a due avvocati notoriamente vicini a Trump – William A. Burck, già consigliere etico per la Trump Organization, e Robert K. Hur, l’ex procuratore speciale che aveva definito Biden «un anziano con scarsa memoria» – è stata inequivocabile.
«La vostra lettera – vi si legge – presenta richieste che, in violazione del Primo Emendamento, invadono le libertà universitarie da lungo tempo riconosciute dalla Corte Suprema». Per questo, si aggiunge: «l’università non cederà la propria indipendenza né rinuncerà ai suoi diritti costituzionali. Né Harvard né nessun’altra università privata può permettere a se stessa di essere presa in consegna dal governo federale».
Il presidente di Harvard, Alan M. Garber, in carica dal 2024, in una nota riportata dalla CNN e ripresa dalle agenzie, ha dichiarato in modo perentorio: «Abbiamo informato l’amministrazione, tramite il nostro consigliere legale, che non accetteremo l’accordo proposto: l’università non rinuncerà alla sua indipendenza né ai suoi diritti costituzionali».
Per tutta risposta la Joint Task Force per combattere l’antisemitismo ha annunciato, come si è detto, il congelamento di 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni pluriennali e di 60 milioni di dollari in contratti pluriennali con l’Università di Harvard.
In un clima nazionale nel quale il vicepresidente J.D. Vance ha definito i professori «il nemico» e le università vengono accusate di collusione ideologica e sovvenzionate solo a condizione di conformità, questa risposta costituisce un coraggioso ed esemplare atto di resistenza civile. Non è una difesa di opinioni di parte, né una schermaglia amministrativa: è la riaffermazione di un principio fondamentale e irrinunciabile, e cioè che la ricerca scientifica e la trasmissione del sapere non possono essere sottoposte a verifica politica. Né oggi, né mai.
Sulle università e sulla libertà di ricerca negli Stati Uniti si sta pertanto svolgendo una partita cruciale. Oltre all’attacco agli studenti stranieri e «dissidenti» il programma M.A.G.A., come delineato esplicitamente da Donald Trump già nella campagna per le recenti elezioni presidenziali, prevede la decostruzione dell’intero impianto universitario in quanto incubatore di «eversione anti americana».
A questo riguardo Chris Rufo, uno degli architetti del Project 2025, ha dichiarato al New York Times che «l’obiettivo dovrà essere quello di usare i finanziamenti pubblici per indurre negli amministratori universitari un terrore tale da comprendere che se non cambieranno atteggiamento non quadreranno il bilancio». Come immediata misura di attuazione del programma elettorale è in corso una sistematica smobilitazione, per motivi prettamente ideologici, del finanziamento dei grant e delle borse che sostengono il lavoro di centinaia di migliaia di ricercatori, docenti, studenti e dottorandi.
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Il rifiuto di Harward e la sua decisa presa di posizione contro questa inquietante spirale autoritaria hanno rappresentato una significativa inversione di rotta rispetto al cedimento dello scorso anno, quando l’Ateneo aveva licenziato Claudine Gay, il suo 30esimo presidente, figlia di immigrati haitiani, prima donna nera ad assumere questa prestigiosa carica, per non aver sufficientemente represso il movimento contro la strage di Gaza e non aver revocato le lauree di studenti «dissenzienti».
Il merito di Harvard non sta solo nel rifiuto, ma nel fatto di averlo manifestato per prima, pubblicamente, e con una chiarezza che non concede ambiguità. Senza questo gesto, ha dichiarato Ted Mitchell, presidente dell’American Council of Education, «sarebbe stato quasi impossibile per le altre istituzioni fare lo stesso». La sua risposta, basata sul diritto costituzionale, su precedenti giurisprudenziali e motivata da una precisa e lucida consapevolezza storica, ha dato l’esempio ad altre istituzioni, incoraggiandole ad accoglierne l’appello.
Questa decisa presa di posizione ha provocato un immediato ripensamento anche degli Atenei che avevano inizialmente accettato le condizioni imposte dalla Casa Bianca, fino all’eliminazione di facoltà e alla riformulazione di programmi di studi, per non parlare dell’espulsione d’ufficio di centinaia di studenti stranieri per reati d’opinione. In alcuni casi i «colpevoli» sono stati prelevati a casa o per strada da squadre di incappucciati e fatti sparire in penitenziari federali o in lager offshore.
In questi giorni oltre 180 università e college statunitensi, tra cui prestigiose istituzioni come MIT, Princeton, Yale e Brown, hanno pubblicato una lettera congiunta in cui condannano l’ingerenza politica del presidente Donald Trump nel sistema educativo. «Parliamo con una sola voce contro l’intervento senza precedenti del governo e l’ingerenza politica che stanno mettendo in pericolo l’istruzione superiore americana», si legge nel documento pubblicato dalla American Association of Colleges and Universities.
Pur dichiarandosi aperti a riforme costruttive e a una supervisione governativa legittima, i firmatari respingono ogni tentativo di «intrusione indebita» e «l’uso coercitivo dei finanziamenti pubblici alla ricerca».
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Nel 1952, riferendosi al caso Lysenko e agli insegnamenti che se ne dovevano trarre, Julian Huxley scriveva:
«La scienza non può svilupparsi ed espandersi se non in certe condizioni materiali ed entro una particolare atmosfera morale ed intellettuale. Come dice Muller (1949): ci sono voluti migliaia di anni per costruire le basi di libertà di indagine e di critica indispensabili alla scienza. Ciò è stato possibile solo col formarsi della prassi democratica, coadiuvata dai progressi nella tecnica fisica, nello standard di vita e nell’educazione. Queste condizioni soltanto nei tempi moderni sono progredite in modo sufficiente da permettere quella diffusa, organizzata, obiettiva ricerca della verità, alla quale noi oggi diamo il nome di scienza. L’atmosfera indispensabile al progresso della scienza può, però, essere facilmente distrutta o avvelenata, per ignoranza o per pigrizia mentale, dal pregiudizio o da interessi mascherati o dal potere delle autorità»[1].
È già successo nella storia anche recente e può continuare a verificarsi.
Questo passo di Huxley ha il merito di evidenziare che la democrazia e la scienza condividono il tratto distintivo e il destino comune evidenziati, dato lo stretto collegamento tra di esse anche per quanto riguarda le loro origini. Come viene ricordato in un Rapporto scritto nel 2007 su mandato della Commissione dell’UE da un gruppo di esperti, coordinato da Brian Wynne e Ulrike Felt[2], tra i tanti fattori che sono all’origine e alla base della nascita della scienza moderna vi è certamente anche la contrapposizione tra il Leviatano dittatoriale di Hobbes, il modello di autorità politica in assoluto più antidemocratico, e la visione dell’incipiente rivoluzione scientifica, che era parte di una concezione più ampiamente rivoluzionaria, che tendeva a costruire l’ordine e l’autorità attraverso il calcolo e la dimostrazione, da un lato, e l’osservazione e la sperimentazione dall’altro, e dove queste ultime erano disciplinate e orchestrate – ma testimoniate in modo collettivo e credibile – dall’oggettività delle leggi di natura. «Storicamente, quindi, la nascita della scienza europea è collegata al sorgere della democrazia europea»[3].
Questa tesi era stata precedentemente sostenuta anche dal fisico Alan Cromer in una sua opera del 1993[4], nella quale egli espone e spiega la sua convinzione che non sia possibile considerare casuale la circostanza che lo stile di pensiero scientifico e la democrazia abbiano entrambi avuto origine nello stesso luogo, l’antica Grecia, e pressappoco nello stesso tempo.
Alla base di essi vi sono infatti radici comuni: la filosofia che si sviluppò in quel contesto, il metodo sperimentale aristotelico, il libero e razionale confronto di opinioni nell’agorà, luogo di formazione di uno spazio pubblico basato sulla partecipazione dei cittadini, il principio della decisione collegiale e soprattutto la possibilità, da parte di ciascuno, di esprimere liberamente le proprie opinioni e valutazioni con il vincolo inderogabile, tuttavia, dell’esigenza di argomentarle, in modo che fosse possibile per tutti gli altri rendersi conto della loro consistenza e controllarne la validità.
«Fu l’istituzione della libera discussione, più di qualsiasi altra cosa, credo, a porre la Grecia al di sopra di tutte le altre nazioni. La discussione è una competizione tra menti, e coloro che vi partecipano devono misurarsi con argomenti utili per persuadere i loro pari. Le parole chiave sono competizione, argomenti, persuasione e pari – tutti aspetti di ciò che indichiamo con la parola “oggettività”. E, in definitiva, con la parola “scienza”»[5].
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A sostegno della tesi di Cromer va rammentato il fatto che tra i tanti fattori all’origine della nascita della scienza moderna vi è certamente anche il rapporto con la democrazia. Nel Seicento assistiamo alla contrapposizione tra il Leviathan di Hobbes, il modello di autorità politica più antidemocratico in assoluto, e la visione dell’incipiente rivoluzione scientifica di Bacone e Locke, che parte da una concezione altamente rivoluzionaria per cui l’autorità non viene data come presupposta ma viene ricavata dal basso attraverso il calcolo e la dimostrazione, ovvero con lo sviluppo di una teoria argomentativa.
È quello che il semiologo russo Michail Bachtin, nella sua analisi dei fattori che hanno determinato lo sviluppo della coscienza moderna in Europa, definisce «la contrapposizione tra la parola autoritaria e la parola intimamente convincente», una pratica evidente anche in Galileo che, nella polemica con gli aristotelici, cercava di contrapporre all’autorità – sia essa scientifica o politica – una parola convincente basata su argomentazione e calcolo.
Nel 1995, due anni dopo la pubblicazione del libro di Cromer, Carl Sagan, un astronomo, astrofisico, astrobiologo e astrochimico statunitense, anche divulgatore scientifico e autore di fantascienza, dava a sua volta alle stampe un’opera dal titolo emblematico[6] che, sebbene scritta in forma romanzesca, ha tutte le caratteristiche del saggio. Secondo l’autore solo il pensiero scientifico può difendere la nostra civiltà dai rischi insiti nel fatto che siamo alle soglie di un nuovo, oscuro Medioevo, pervaso da irrazionalità e superstizione.
Anche a suo giudizio i valori della scienza e della democrazia concordano, anzi in molti casi sono indistinguibili. La scienza conferisce potere a chiunque si dia la pena di impararla, anche se a troppi è stato sistematicamente impedito di farlo. Essa cresce e prospera sul libero scambio di idee, che ne è un presupposto indispensabile. I suoi valori sono antitetici al segreto, non ha alcun punto di vista speciale o alcuna posizione privilegiata. Sia la scienza, sia la democrazia incoraggiano opinioni non convenzionali e stimolano discussioni vigorose. Entrambe richiedono ragioni adeguate, argomentazioni coerenti, criteri rigorosi di prova nonché onestà e trasparenza.
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Su questa stessa linea nel 2018 Maria Luisa Villa ha pubblicato un saggio interessante[7] che parte dalla polemica sorta in quegli anni, quando in Italia si dibatteva dell’obbligatorietà dei vaccini per i minori. Qualcuno, per difendere la ricerca da intrusioni esterne, sostenne la tesi che la ricerca non è democratica, che la velocità della luce non si decide a maggioranza. Già nella introduzione al suo libro l’autrice sgombra immediatamente il campo da questo equivoco, un vero e proprio paralogismo, sottolineando che: (1) la comunità scientifica non giudica della velocità della luce, ma della validità delle prove portate per definirla; (2) per fare questo, il consenso della comunità scientifica si costruisce secondo procedure democratiche, che costituiscono il metodo della ricerca scientifica.
Nella sua postfazione Pietro Greco, con la sua consueta lucidità, riprende e approfondisce questo tema, evidenziando perché scienza e democrazia hanno bisogno l’una dell’altra ed evolvono assieme.
Il testo però non si limita alla sola polemica sulla democraticità e non democraticità della scienza, ma si apre a una dimensione più ampia in due direzioni: una storica e una critica. La prima è dedicata alla nascita ed evoluzione della ricerca dall’antica Grecia fino alla costituzione del XIX secolo delle università in senso moderno, e prende anch’essa avvio dalla convinzione che democrazia e scienza siano gemelle nate dallo stesso parto. Lo dimostra la costruzione e la conseguente disponibilità di spazi sempre più ampi di libertà e di discussione libera che si accompagna all’evoluzione della ricerca scientifica e ne è il frutto, in un dialogo continuo – ora positivo, ora negativo – con le forme politiche e le tensioni sociali che variano nei secoli.
La seconda parte riguarda invece l’attualità. Qui l’attenzione si concentra su un’analisi critica delle istituzioni e delle prassi del mondo della ricerca di oggi e di come questa tenti di rispondere o resistere alle sollecitazioni che vengono dalla politica e dalla società, ma anche dalle richieste di crescita che nascono all’interno della stessa comunità scientifica.
Temi come il ruolo della big science, i rapporti con i finanziatori pubblici e privati, la funzione delle tecnologie informatiche centrale nel settore della ricerca così come in tutti gli altri ambiti, il problema dell’accesso libero ai risultati e ai dati della ricerca, i tentativi di migliorare il processo di revisione tra pari, i problemi sollevati dall’adozione degli indici bibliometrici, il difficile equilibrio tra ricerca di base e ricerca applicata, sono affrontati come aspetti della questione centrale che viene ribadita riguardante il modo in cui la scienza oggi cerca di conservare e potenziare quell’ethos democratico che sta alla sua base.
Lo stretto rapporto che viene così istituito tra la scienza come pilastro della conoscenza, la democrazia e l’educazione, pone un problema che non può essere eluso e di cui lo scenario degli Stati Uniti evidenzia la drammatica attualità: per essere in sintonia con le finalità della propria missione e con le sue colonne portanti, una società democratica ne deve rispettare e riprodurre le condizioni necessarie e i tratti distintivi che la caratterizzano in profondità, vale a dire il carattere dinamico, la disponibilità a mettersi continuamente in discussione, la capacità di affrontare il nuovo e l’imprevisto e di strutturarsi secondo modalità che assicurino la pluralità con un diramarsi di potenzialità differenti. Così in effetti è stato per molto tempo, perché l’Europa, in particolare, è riuscita nel delicato compito di educare sé stessa, realizzando una sorta di circolo virtuoso tra ricerca, democrazia ed educazione: sviluppandosi contemporaneamente e interagendo in modo proficuo, ciascuna ha certamente contribuito a migliorare l’altra.
Il «marchio di fabbrica» della democrazia è stato ben evidenziato da Cornelius Castoriadis, il quale l’ha definita come «quel regime che rinuncia esplicitamente a ogni garanzia ultima e che non conosce altra limitazione che la sua autolimitazione. Ovviamente, essa può trasgredire questa autolimitazione, come è spesso successo nella storia, e può quindi inabissarsi o ribaltarsi nel suo contrario. Ciò significa che la democrazia è il solo regime politico tragico, è il solo regime che rischia, che affronta apertamente la possibilità della propria autodistruzione»[8]: come dimostrano le vicende storiche del passato recente in alcuni paesi europei, come il nostro e la Germania, e come la situazione attuale negli Stati Uniti, ma anche qua e là nella stessa Europa, purtroppo conferma.
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È in questo contesto che ha preso forma ed è maturata l’idea del Manifesto di Foligno e Fabriano «Rebrain Europe», il cui punto di partenza è stato l’appello, firmato all’inizio di aprile da 1.900 ricercatori americani, i quali lanciavano un SOS alla popolazione chiedendo di «fermare l’assalto in atto alla ricerca». Un numero crescente di essi sta valutando di lasciare il paese per proseguire il proprio lavoro altrove e guarda con interesse e speranza all’Europa, per cui siamo testimoni di richieste crescenti di rientri dagli USA nei paesi dell’UE, compreso il nostro.
Quanto sta accadendo negli Stati Uniti ci porta indietro di secoli rispetto a tutto ciò che dovrebbe essere una scienza moderna. Il Manifesto vuol per questo essere un invito ai governi nazionali e alle istituzioni accademiche e di ricerca affinché prendano in considerazione con serietà e impegno questa opportunità, promuovendo l’arrivo e l’inserimento di ricercatori in fuga da contesti ostili alla scienza: non è solo un gesto di apertura, ma un investimento sul futuro.
Nello stesso tempo esso intende dimostrare come la sensibilità sul valore della ricerca esista anche nella popolazione, coinvolgendo i cittadini e scienziati, sollecitandoli a domandarsi perché parlare solo di «ReArm Europe» e non anche di «ReBrain Europe».
Da ultimo non certo per importanza, il Manifesto vuole sottolineare che l’Europa è ancora l’area politica che accetta la sfida della democrazia: non dobbiamo mai dimenticarlo. Sono valori nati nell’Europa, che in questo momento se ne fa custode e torna ad esserne faro pressoché esclusivo.
Per sottoscrivere il Manifesto per un’Europa della Scienza Aperta
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[1] J. Huxley (1952), La genetica sovietica e la scienza. Il caso Lysenko: un dibattito che continua, Longanesi&C., Milano, 1977, pp. 193-194,
[2] B. Wynne, U. Felt, Taking European knowledge Society Seriously, by the Office for Official Publications of the European Communities, 2007. tr. it. di Mariachiara Tallacchini Scienza e governance. La società europea della conoscenza presa sul serio, Rubbettino, Soveria Manelli, 2008).
[3] Ivi, p. 141.
[4] A. H. Cromer, Uncommon Sense. The Heretical Nature of Science, Oxford University Press, New York 1993, tr. it. L’eresia della scienza, Raffaello Cortina, Milano, 1996,
[5] Ivi, p. 106.
[6] C. Sagan, The Demon-Haunted World. Science as a Candle in the Dark, Random House, New Yotk 1995, tr. it. di L. Sosio, Il mondo infestato dai demoni. La scienza come una candela nel buio, Baldini&Castoldi, Milano 1996.
[7] M.L. Villa, Scienza è democrazia. Come funziona il mondo della ricerca, Guerini e associati, Milano 2018.
[8] Castoriadis, C. (1986), La logica de los magmas y la question de la autonomia, in Id., Dominios del Hombre: Encrucijadas del labirinto II, Barcellona: Gedisa (tr. it. La logica del magma, in L. Guzzardi, a cura di, Il pensiero acentrico, Milano: elèuthera, 2015, 71.
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