Omelie 2025 di don Giorgio: TERZA DI PASQUA

4 maggio 2025: TERZA DI PASQUA
At 28,16-28; Rm 1,1-16b; Gv 8,12-19
Come ho già chiarito, nel periodo pasquale, che va dalla Pasqua fino alla Pentecoste, il primo brano delle Messe domenicali è tratto dal libro “Atti degli Apostoli”. Luca l’ha scritto non tanto presentare la storia dello sviluppo del primo Cristianesimo, certo riportando notizie interessanti in particolare sulle due figure, quella di Pietro e soprattutto di Paolo, quanto invece di dimostrare che il Cristianesimo era arrivato nel cuore dell’Impero romano, e l’apostolo ha fatto di tutto – appellandosi anche al fatto di essere un cittadino romano per evitare di essere condannato dai perfidi ebrei, sempre pronti a farlo fuori con qualsiasi mezzo – per arrivare a Roma dopo un viaggio avventuroso, descritto minuziosamente negli “Atti degli apostoli”. Il primo brano della Messa riporta la conclusione del libro, un brano che merita di essere spiegato.
Appena giunto nella capitale, Paolo convoca i notabili dei Giudei per spiegare la sua posizione. Sapeva unire la sua intelligenza con l’astuzia. Sì, quando era necessario mandava tutti a quel paese, ma cercava anche quei compromessi necessari per annunciare la Buona Novella. Qui vorrei aprire già una lunga parentesi.
Lo stesso Cristo ha usato astuzia per avere il tempo necessario per dire e fare ciò che doveva dire e fare prima di essere condannato a morte. Qualcuno ancora si chiede il perché del segreto messianico, ovvero del perché Gesù inizialmente non voleva che i miracoli che faceva venissero diffusi, per evitare che la voce della sua fama arrivasse al palazzo del potere, perché sapeva che i capi ebrei sarebbero subito intervenuti, mettendo fine alla sua missione, tanto è vero che quando succederà che alcuni tra gli scribi e i farisei tenteranno di lapidarlo o di buttarlo giù dal ciglio del monte, ogni volta Gesù si dileguava. Non era ancora giunta la sua Ora: l’Ora della sua morte.
Il detto “non tirare troppo la corda perché prima o poi si spezza” può anche riguardare coloro, compresi noi preti, che hanno tanto da dire e da fare, e vorrebbero avere tanto tempo a disposizione. Troppa istintiva irruenza, dettata da tanto ardore pastorale, potrebbe far male al nostro operare per il bene comune. Se sparo subito a zero e poi mi fanno tacere o mi mandano in esilio, metto a rischio non tanto la mia vita, che interessa relativamente se sono convinto in ciò che faccio, quanto quel bene comune che rimarrebbe ancora orfano, e la gente resterebbe ancora delusa, perché perderebbe subito una guida autorevole. Una volta si diceva: “meglio un santo vivo che un martire morto”. E mi spingo a dire: meglio uno che abiura, come ha fatto Galileo, fingendo di ritrattare le sue convinzioni, sapendo che aveva ancora tanto da scoprire per il bene dell’umanità, piuttosto che morire martire, con tanti monumenti al suo eroismo.
E allora ecco la domanda: se ho un incarico da compiere, non interessa la mia persona o agire secondo la mia coscienza per salvare la mia faccia, a costo anche della mia vita. Ciò che mi spinge a fare certe scelte, non è per un bene personale, ma per un bene sociale o diciamo per un bene che riguarda il vero benessere, che è quello spirituale. Certo, arriva il momento in cui dovrò fare scelte radicali, costi quello che costi. Se un prete non può tirare subito la corda dopo un mese che è in parrocchia, perché altrimenti avrebbe ostacoli così da impedirgli di realizzare ciò che ha in mente di fare, poi, con il tempo, dovrà darsi da fare, anche prendere decisioni radicali, anche perché nel frattempo la gente è stata educata o preparata ad una eventuale rivoluzione pastorale in parrocchia. Si può essere tacciati di giocare d’astuzia, ma non è così, perché alla fine a vincere è quel bene comune che esige anche la maturità dei cristiani o dei cittadini. Si cammina insieme, pastore e gregge, in una gara casomai in vista del bene comune. Il pastore spinge le pecore verso pascoli migliori, ma anche il gregge deve muoversi dietro al pastore, aiutandolo a scegliere le cose giuste.
Dunque, Paolo, appena giunto nella capitale, cuore dell’Impero romano, non lascia passare che pochi giorni, e subito informa del suo arrivo i notabili della folta colonia giudaica presente nella capitale. È stata appurata l’esistenza a quei tempi, in Roma, di almeno 13 sinagoghe giudaiche, con 40/50 mila ebrei su una popolazione di circa un milione e mezzo di abitanti. L’Apostolo, non potendosi presentare nelle loro sedi, dato che è prigioniero, pur avendo una certa libertà di azione, invita a casa propria le persone più rappresentative delle comunità ebraiche per chiarire la sua situazione: vuole prevenire o correggere le idee distorte che i capi giudei potrebbero essersi fatti sul suo conto, e, fedele al principio che ha sempre ispirato la sua attività missionaria, intende annunciare la Buona Novella a loro, prima che ad altri. Secondo il detto: “prendere due piccioni con una fava”.
Per prima cosa l’Apostolo si difende dall’accusa di essere un nemico del popolo ebraico, il “suo” popolo, e un dispregiatore delle istituzioni e degli usi religiosi trasmessi dai padri. È stato consegnato nelle mani dei Romani perché incriminato dai Giudei. Ma il giudice romano, non avendo riscontrato in lui nessuna colpa degna di morte, era intenzionato a rilasciarlo. Persistendo l’ostilità dei suoi accusatori, è stato costretto ad appellarsi a Cesare, non tanto per mettere sotto accusa o per vendicarsi del popolo ebraico, quanto per difendere la propria innocenza, e anche per avere l’occasione di raggiungere Roma.
I notabili ebrei rispondono a Paolo con prudenza: evitano di entrare nel merito delle accuse mosse all’Apostolo; si dimostrano invece interessati a conoscere più a fondo la sua dottrina, dal momento che hanno avuto modo di sentir parlare o di conoscere indirettamente la nuova “setta”, ritenuta fonte di turbolenze tra gli ebrei. I capi chiedono a Paolo di fissare un giorno per un altro appuntamento: intendono andare a fondo dei suoi insegnamenti. Alla data stabilita, si presentano in numero ancora maggiore. La discussione inizia di buon mattino e si protrae fino all’ora del pasto serale. L’Apostolo parla del Regno di Dio e della sua attuazione nella persona di Gesù, e a prova di quanto afferma cita Mosè e i Profeti. Ma, ancora una volta, si avvera la profezia di Simeone: il Salvatore sarà «segno di contraddizione», «rovina e risurrezione di molti in Israele». Infatti, alcuni tra gli ascoltatori credono, i più si chiudono nuovamente nella loro ostinazione. Sfiduciato di fronte a questo colpevole rifiuto, Paolo dichiara che d’ora in poi la predicazione sarà rivolta ai pagani, presso i quali la Parola riscuoterà maggior successo.
Che dire? Per chi si chiude alla grazia di Dio, non c’è grazia che tenga; anzi ad ogni grazia il rifiuto si fa ancor più tenace. Il paradiso non è per i manichini, ma per chi lo vuole conquistare, facendo ogni giorno violenza al proprio egoismo, alla propria reticenza, al proprio orgoglio. Pensiamoci. Non è il Signore a condannarci se facciamo volutamente il male: siamo noi che ci autocondanniamo con le nostre stesse mani. L’amore di Dio le tenta tutte pur di scuoterci e di farci rientrare in noi stessi: anche con le minacce, con le sofferenze, oppure mediante consolazioni inaspettate, con il dono di una vita sana e serena. E non dimentichiamo: se il piano di Dio trova infiniti ostacoli, ha in sé infinite risorse per aprire strade nuove.

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