A cosa serve l’Europa? Ecco i motivi per votare

dal Corriere della Sera

A cosa serve l’Europa?

Ecco i motivi per votare

di Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Alessandro Riggio
«Non c’è futuro per i popoli europei se non nell’Unione». Sono parole di Jean Monnet, universalmente considerato il padre della Comunità Economica Europea. Era il 1950. Da allora si è costruito molto, e oggi l’Europa è messa di fronte a nuovi rischi: come si intende affrontarli? L’esito delle elezioni dell’8 e 9 giugno orienterà il futuro dell’Europa, che non potrà mai essere più forte e democratica se metà della popolazione non va a votare. Se guardiamo all’Italia vediamo che nel 2022 l’astensione alle Politiche arriva al 36,1%. I cittadini dunque votano sempre meno, e ancora di meno alle Europee: nel 2019 non va alle urne il 45,5% della popolazione contro il 29% del 2004.

Chi vota per la prima volta

In tutta la Ue, su 359 milioni chiamati complessivamente alle urne, ci sono 23 milioni di giovani che voteranno per la prima volta. La tendenza, soprattutto nei Paesi fondatori, è che l’astensione sotto i 35 anni diminuisce. In Italia i 18-34 enni sono 10 milioni, di cui quasi 2,8 nuovi giovani elettori. Cosa possiamo aspettarci da loro? Insieme a Davide Angelucci (Unitelma, La Sapienza) abbiamo elaborato i sondaggi elettorali dell’Italian National Election Studies (Itanes) e del gruppo di ricerca dell’European Election Studies (Ees) che fa capo a istituzioni accademiche di tutta Europa.

I dati mostrano che gli over 35 sono decisamente più interessati alla politica interna, mentre dai 35 in giù le elezioni Europee vengono considerate importanti al pari delle Politiche. Si può quindi affermare con ragionevole certezza che i più giovani non considerano il voto per il Parlamento europeo solo un referendum che esprime il gradimento sul governo di turno; cosa che invece purtroppo emerge dalla campagna elettorale, dove lo scontro politico ruota più sulle questioni interne che sul potenziale della Ue.

Il peso dell’Europarlamento

Guardiamo le ultime tornate elettorali: nella fascia 35-54 anni alle Politiche del 2018 si astiene il 31%, e il 44% alle Europee 2019. Anche per gli over 55 l’astensione alle Europee aumenta: si passa dal 25-28% al 36%. Fra i 18-34 enni alle Politiche 2018, Europee 2019, e Politiche 2022 l’astensione è del 38-40%, cioè praticamente la stessa, indipendentemente dal fatto che si tratti di votare per eleggere il governo italiano o chi ci rappresenta a Strasburgo.
Andiamo ora a stringere il campo sugli Gen Z, cioè i nati dal ’97 al 2012. È la generazione che si mobilita contro il riscaldamento climatico con i «Fridays for Future», la difesa dei diritti umani e Lgbtq+, condanna il body shaming e il bullismo. Sono soprattutto questi giovani che adesso devono assumersi la responsabilità di scegliere da chi vogliono essere rappresentati per l’Europa di domani, altrimenti qualcun altro lo farà per loro. Hanno debuttato in massa alle Politiche 2022 dove i nuovi elettori sono stati 4,7 milioni: ebbene in quell’occasione l’astensione della loro generazione è scesa al 35%. Un segnale che fa ben sperare. Ma cosa ha fatto la Ue per i giovani?

Dall’Erasmus ai tirocini retribuiti

Dal 1987 l’Erasmus cioè il «Programma di azione della comunità europea per la mobilità degli studenti universitari», suggerito dagli insegnanti italiani Domenico Lenarduzzi e Sofia Corradi, ha permesso a 15 milioni di ragazzi di frequentare gratis un’università straniera. E dal 2014 il programma è esteso anche agli studenti delle scuole superiori. Tra il 2021 e il 2027 sono stati messi a disposizione 26 miliardi in borse di studio per 10 milioni di studenti. Una costola dell’Erasmus è DiscoverEU, più conosciuto come il vecchio Interrail, che per il 2024 ha un fondo di 41 milioni. Il programma offre ai 18enni il biglietto del treno valido un mese per visitare i Paesi della Ue. Dal 2018 ne hanno usufruito quasi 250 mila giovani. I candidati devono rispondere a un quiz riguardanti la Ue in generale, e altre iniziative dell’Unione europea rivolte ai giovani. Il portale Erasmusintern.org mette a disposizione apprendistati o tirocini retribuiti, in tutti i Paesi membri e in altri come la Norvegia. E proprio sui tirocini, che oggi in Italia hanno come cifra garantita per legge solo 300 euro mensili, il Parlamento europeo si sta impegnando per varare una normativa che garantisca una remunerazione in grado di coprire le necessità incomprimibili (cibo, vestiario, alloggio, trasporto) e in base al costo della vita dei singoli Stati. E’ attivo il fondo di 1 miliardo per dare a 270 mila giovani un’esperienza di volontariato retribuito dai 2 ai 12 mesi nei Paesi Ue. Per chi vuole mettersi in proprio c’è la possibilità di accedere a un microprestito di 25 mila euro (tecnicamente si chiama «Strumento Progress di microfinanza»).

Green Deal

L’Europa è stata la prima a preoccuparsi della salute del pianeta in cui vivranno i giovani, imponendo la riduzione delle emissioni inquinanti. E gli altri Paesi hanno poi dovuto fare altrettanto. L’obiettivo Ue è di ridurre le emissioni nette di gas serra entro il 2030 almeno del 55% rispetto al 1990. Per arrivare alla neutralità climatica entro il 2050. Non a caso lo strumento con cui sta finanziando con 1000 miliardi il costo della transizione ecologica per cittadini e imprese si chiama «Next Generation Eu».

Acquisti online e Internet

L’Unione Europea promuove le connessioni Wi-fi gratuite in piazze, biblioteche e negli edifici pubblici con finanziamenti di 15 mila euro per ciascun Comune che fa decollare i progetti. Quando si esce dal proprio Paese e si entra in un altro della Ue, dal 2017 non si pagano più costi aggiuntivi sui servizi telefonici grazie al regolamento Ue che consente di usare lo smartphone pagando la stessa tariffa di casa propria. Dobbiamo a una norma dell’Unione la possibilità di restituire entro 14 giorni gli acquisti fatti online, senza dover fornire alcuna giustificazione.

Per le donne

Ci sono poi le categorie dei grandi astensionisti: donne, disoccupati, il Sud. Una donna su due alle ultime Europee non ha votato (contro il 27% degli uomini). Eppure il nostro Paese ha incassato 14,8 miliardi dal Fondo Sociale europeo 2021-2027: una parte di questi soldi devono essere spesi per incrementare la parità di stipendio e l’occupazione femminile che, secondo i dati Eurostat, è messa malissimo. Tra i 20 e i 64 anni in Italia lavora solo il 56,5% delle donne contro il 70,2% della media Ue. Anche il divario tra l’occupazione maschile e quella femminile è di 19,5 punti, quasi il doppio della media Ue, che si ferma al 10,3%. Grazie ai contributi Ue molte donne hanno potuto avviare un’impresa; altre hanno potuto espandere la propria attività accedendo ai fondi del Programma Cosme, che riconosce alle imprenditrici un punteggio più alto. Ci sono poi i 10 giorni di paternità retribuita. Quando nell’aprile 2019 la Plenaria approva le nuove misure – che per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita di famiglia prevedono per il padre o il secondo genitore equivalente, se riconosciuto, il diritto a ricevere in busta paga il 100% dell’intera retribuzione per 10 giorni dai 2 mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i 5 mesi successivi – la durata del congedo in Italia è di 5 giorni. La direttiva è stata recepita a partire dal 2021.

Fondi per i disoccupati e il Sud

Fra i disoccupati l’astensione alle ultime Europee è salita al 55% (più 11 punti rispetto al 2014), contro il 38% di chi un lavoro ce l’ha. La Ue li aiuta a trovare un impiego attraverso i fondi per i corsi di inclusione digitale; alle Regioni ha elargito 4,9 miliardi tramite il Pnrr, da spendere entro il 2025, per la formazione e riqualificazione professionale di 3 milioni di disoccupati. Vediamo infine chi non vota in base alle circoscrizioni elettorali: alle Europee 2019 l’astensione al Nord è del 37%, quasi del 42% al Centro, del 53,5% al Sud e del 65% nelle Isole. Ebbene, da dove arrivano i fondi strutturali e di coesione destinati allo sviluppo territoriale, economico e sociale delle Regioni meno sviluppate? Da Bruxelles. Solo per il 2021-2027 si tratta di ben 30 miliardi. Se poi le Regioni del Sud non li utilizzano non è certo colpa della Ue.

Benefici per tutti

Oltre alle singole categorie ci sono poi le direttive a beneficio di tutti, a partire dall’adozione degli standard di sicurezza alimentare più elevati al mondo. E non solo sulla trasparenza dell’etichettatura, ma anche sul «Sistema di allerta rapido per cibi e mangimi», il Rasff. In Italia sono arrivati pistacchi turchi e iraniani con alti livelli di aflatossine; carote dall’Egitto con residui di Linuron, un pesticida vietato in Europa; fagioli del Madagascar con Chlorpirifos, una sostanza bandita in Ue perché sospettata di danneggiare il cervello dei bambini: su questi prodotti è scattato l’allarme e sono stati banditi dal commercio. In ogni Paese Ue c’è un punto di raccolta che notifica a tutti gli altri, in tempo reale, i sospetti di eventuali contaminazioni. Se l’Efsa, l’Agenzia Ue per la sicurezza alimentare, conferma la validità dell’alert, tutti gli Stati hanno l’obbligo di ritirare il prodotto. Sono tra i più alti al mondo anche gli standard Ue per il benessere degli animali: norme che coinvolgono soprattutto gli allevamenti intensiv, sui quali spetta poi ai singoli Stati vigilare. Il programma di monitoraggio europeo sui limiti dei pesticidi ammessi per legge è il più completo: ogni anno si analizzano 75 mila campioni di alimenti rispetto a 600 pesticidi diversi.

Come siamo usciti dagli anni bui

È il caso di ricordare gli anni della pandemia. La Commissione europea ritiene fin da subito i vaccini una priorità nella risposta al Covid incentrando i suoi sforzi sullo studio di un vaccino sicuro ed efficace, e si impegna a negoziare per conto di tutti gli Stati membri. Stipula contratti per 71 miliardi di euro: «Si tratta di accordi preliminari di acquisto – ribadisce la Corte dei conti europea –, in cui la Commissione condivide con il produttore il rischio di sviluppo di un vaccino in tempi più rapidi e sostiene l’allestimento di capacità produttive su vasta scala a carico del bilancio Ue». A fine 2021 gli Stati membri hanno ricevuto quasi 952 milioni di dosi, garantendo così a tutti, Nord, Sud, ricchi e poveri, l’accesso al vaccino. La Ue poteva non farlo visto che la Sanità è di competenza dei singoli Stati, ma cosa sarebbe successo se per esempio la Germania, che è un Paese più ricco, avesse trattato per conto suo e acquistato vaccini prima di noi? Ci sarebbe stata la rivolta dei cittadini, e sarebbe scattata la corsa al rialzo dei prezzi. Per inciso: la Ue è stata l’unica area geografica del pianeta che ha regalato all’Africa 145 milioni di dosi. In quel periodo, nonostante fosse tutto chiuso, non sono mai mancati gli approvvigionamenti perché l’Unione ha garantito il funzionamento della filiera. E come ha fatto il nostro Paese a riprendersi e ripartire? Prima la Bce ha comprato 730 miliardi di titoli di Stato italiani, e poi sono arrivati i fondi del Pnrr, consentendo così l’indebitamento a un costo molto basso.

Il momento è ora

Certo, le istituzioni europee hanno spesso mostrato debolezza, inciampi e disaccordi al loro interno, ma quando si dice: «dov’è l’Europa, perché non fa di più?» è utile sapere che le decisioni le prende chi alza la mano a Strasburgo e a Bruxelles, non a Roma. E un’Europa più forte passa dal Parlamento Europeo, a condizione che sia legittimato da una forte partecipazione al voto.
dataroom@corriere.it

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